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Spesso non c’è bisogno di inventare intrighi internazionali o inscenare una battaglia fra bene e male per colpire il lettore; spesso per incatenarlo al libro ed emozionarlo basta una ricetta molto più semplice, in grado di coinvolgere ciò che si annida in ognuno di noi: paure, terrori, disperazioni.

La ricetta che Marta Zura-Puntaroni, classe 1988 e laureata in letteratura ispanoamericana, propone per il suo esordio con minimum fax è la stasi esistenziale di Marta, classe 1988, iscritta a lettere moderne, figlia di genitori benestanti, incapace di relazionarsi con i propri coetanei: «Io e il Poeta eravamo benestanti, magri, educati, benvestiti: parte di una casta economico-biologica superiore a quella del frequentante medio della facoltà di Lettere».

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Soprattutto Marta è vittima delle dipendenze, di disturbi di personalità più o meno marcati, della propria anedonia; in breve, Marta è vittima di se stessa, incapace di reagire agli eventi che la travolgono: «Come mai» si chiede, «ogni cambiamento mi segna in maniera così irreversibile, mi lascia così priva di energia, ha bisogno di anni per essere assorbito e accettato, perché tutto mi sembra irrecuperabile?».

Tralasciando la trama, che riveste nel complesso un ruolo strettamente funzionale, vorrei soffermarmi su una tematica intorno alla quale vengono spese pagine di enorme spessore: il rapporto fra normalità e patologia in ambito psicologico. Nonostante infatti la protagonista passi attraverso diversi tipi di psicoterapia (freudiana, junghiana e comportamentista), prenda diversi farmaci e le vengano diagnosticati un disturbo della personalità borderline e un caso non gravissimo di depressione, per quasi tutto il libro permane il dubbio che si stia parlando di una – per quanto problematica, complessa, feroce – normale ragazza di ventisei anni.

La consapevolezza di Marta Zura-Puntaroni emerge in pieno in questo frangente: basta compiere una ricerca su internet per comprendere quanto sia difficile, soprattutto nei casi meno gravi, distinguere una persona depressa da una che sta affrontando un periodo nero nella propria vita. Ecco due passaggi a tal proposito:

«È vero: non credevo di essere depressa. Non credevo di avere comportamenti da depressa. Così è venuto fuori che buona parte delle cose che facevo erano sbagliate. […] La cosa che ho io, questa specie di sfinimento in genere distante e inquieto ma non privo dei suoi momenti alti, delle sue gioie, è una forma moderata. È un’etichetta per dire che non sei abbastanza felice, dice mia sorella. Mi piace come categoria: non abbastanza felice».

E ancora:

«Chi è che non ha mai guardato un guardrail con desiderio? Chi non si è allontanato da un treno in transito per paura della forza che lo chiamava – avvicinati, avvicinati? Chi non ha mai contratto i polpacci, poggiato il corpo contro una balaustra, guardato di sotto, spostato appena il baricentro, appena un po’, quel tanto che bastava per poter ancora tornare indietro, al sicuro?».

Non la relazione morbosa e sadomaso fra Marta e il professore universitario; non l’isolamento sociale in cui la ragazza si getta; non il rapporto problematico coi genitori: bensì questo delicatissimo tema – il rapporto fra patologia e normalità, che affonda le radici nell’introspezione geologica (le iniziali del titolo sono un indizio in tal senso) degli abissi umani – è il vero elemento di qualità del romanzo. Il resto fa parte di quella ricetta di base di cui si è parlato all’inizio, che avrebbe rischiato di essere qualcosa di già visto se non ci fosse stata questa aggiunta di grande valore letterario.

Altro punto fondamentale di Grande Era Onirica è lo stile. La ricetta semplice di Marta Zura-Puntaroni è condita da una prosa eccezionale: soprattutto nelle primissime pagine emerge il potenziale di una scrittura viscerale, emotiva, carismatica, capace di sfondare le resistenze del lettore, di fargli incassare colpi su colpi e sbalzandolo in un altro mondo, in un altro contesto, in un’altra personalità:

«La Grande Era Onirica del Martini era caratterizzata da sogni di aborti, risvegli sudati seduta in pozze di sangue nero, risvegli reali in cui scalciavo via le coperte terrorizzata […]. Non so perché sognassi così tanto di abortire. Appena prima di addormentarmi sentivo l’utero dilatarsi, farsi pesante, andare a comprimere con l’incerta lievità delle sedici settimane gli organi interni […]. Negli angoli della stanza compariva spesso una figura opaca, benvestita, il volto irriconoscibile, che mi fissava con il solo occhio rimasto mentre dormivo, mentre le cose uscivano dal mio corpo – ranocchi viscidi, neri e incompiuti – ancora vive, contro ogni ragionevole nozione medica: come fa questa creatura, questo alieno appiccicaticcio di sangue scuro e fresco, a muoversi ancora?».

Questo immaginario forte, questa scrittura travolgente, tuttavia, andando avanti un po’ si perdono, e la narrazione stessa ne risente nel momento in cui, verso pagina 120, molti elementi cominciano a ripetersi. Come se si avvolgesse su se stessa, la protagonista torna e ritorna sugli stessi punti: il padre che avrebbe voluto il figlio maschio, la morte del primo fidanzato (il Primo, idealizzato, a cui tutti gli altri vengono paragonati), la frequentazione disperata col professore (l’Altro), la depressione, l’incapacità/non volontà di integrarsi con le altre persone, le giornate tutte uguali.

A un certo punto ci si perde, da lettori, nel labirinto di pensieri di Marta (quale delle due?), e tutto diventa più complesso: ci si trova a dover scegliere da che parte stare nell’affrontare questo testo. Le possibilità infatti sono due, e l’una esclude l’altra: o l’autrice ha commesso un errore da esordiente, tralasciando lo sviluppo della storia per immergersi in digressioni che spesso hanno il sapore di divagazioni; oppure ha utilizzato con finezza la tecnica della dispersione e della dilatazione temporale (e spaziale nel senso del numero di pagine) per avvolgere il lettore nella stessa bolla statica in cui vive la protagonista.

Personalmente propendo per la seconda opzione, e il motivo è rinvenibile in almeno due punti del libro:

  • a pagina 132, proprio all’inizio di questa fase di dispersione, dove si legge una sorta di dichiarazione d’intenti: «Mi trovo a percorrere per ore i corridoi e gli stanzoni: il tempo si dilata, il sogno si fa senza via d’uscita, passo ore a girare per il vuoto dell’edificio. A volte i locali sono collegati tra di loro da passaggi stretti, contorti […] Ellissi temporale. Sono già al centro del palazzo, un intero esercito di esseri disumani»;
  • a pagina 162, dove, dopo un evento climatico, Marta si ritrova a chiedersi: «Da quanto tempo ho paura di restare sola? da quanto tempo sono in terapia? da quanto tempo?».

In ogni caso, confrontando le prime pagine con le ultime, permane questa sensazione di sfilacciamento narrativo e dissipazione (anche) stilistica. Ma a parte ciò, è palese che Marta Zura-Puntaroni ha già un propria voce, oltre a più di una cosa da dire: il suo libro non è narrativa, è letteratura che, ne sono certo, può toccare punti ancora più elevati.

Quindi, almeno su questo punto, vorrei fare come gli scettici greci e sospendere parzialmente il giudizio nell’attesa (e speranza) di leggere qualcos’altro di suo. Attesa e speranza che dopo tutto sono segni di un esordio col botto.

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