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Torino, dicembre 2003. Qui, e allora, ho comprato i racconti di Tommaso Landolfi. Un volume di oltre 500 pagine che, fino ad oggi, si è adattato bene alle nebbie e alle mareggiate della mia vita. Lo presi senza sapere chi fosse e cosa scrivesse, attratta da: «Scelte da Italo Calvino», lo scrittore pomeridiano che all’epoca inseguivo come se, da un momento all’altro, potessi incontrarlo dietro l’angolo di Corso Re Umberto.

Landolfi, nato all’inizio del secolo scorso vicino Frosinone, è considerato uno scrittore stravagante, dandy, francese (che temo significhi più bravo della media italiana), romantico (nel senso culturale del termine) e raffinato. Leggendolo la prima volta non ci ho capito niente, o quasi, ed è stato per questo che l’ho amato a prima lettura. L’amore è così. Non si sceglie, capita.

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Se considero tutte le parole che ho cercato sul dizionario durante la prima, la seconda e la terza lettura del volume, questo mi basta a rinsaldare il forte legame che sento con la sua scrittura e la sua visione narrativa. Eccone alcune: scapruginare, gordo, mezereo, cimandorlo, bozzima. Sono contenute tutte in La passeggiata che, secondo la divisione di Calvino, rientra nella sezione – Le parole e lo scrivere. Tutti i racconti qui compresi sono esattamente il contrario di quello che è un classico manuale di scrittura. Per questo funzionano bene, come mappe che conducono per strade più lunghe ma verso mete più affascinanti. Non è sfoggio di paroloni, è costruzione di un linguaggio che, soprattutto, nella forma breve considero buona regola: ogni parola è come se fosse una pagina bianca in cui chi legge ri-scrive ciò che sente e desidera.

L’amore e il nulla (che vince già per il titolo) raccoglie storie di sentimenti mancati e occasioni perse: l’amore. In Stazioni morte il protagonista si abbandona a fantasticherie sentimentali lungo «le cosiddette stazioni morte: stazioni cioè dove, per mutate esigenze di servizio o per chissà qual motivo, nessun treno ormai si ferma». Fino a quando non incrocia una «ragazza con frangetta» che lo salva, un dialogo surreale e malinconico che gestisce il sottinteso in maniera esemplare.

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Nei vuoti cosmici creativi rileggo questi racconti, e pochi altri, tra cui L’eterna provincia, uno dei più lunghi della raccolta. Il protagonista, con una gamba di legno, furoreggia in paese per le sue conquiste fino a quando non incontra una donna che lo spiazza perché non si accorge (così gli pare) del suo difetto: «Me ne ero innamorato; non per tanto cessavo di odiarla, anzi la odiavo un poco di più». Succede così nei racconti di Landolfi che lui crea dei personaggi che si incollano letteralmente alla pelle. Sono come dei tatuaggi, a volte fanno male e si scoloriscono ma restano sempre lì. A differenza di un tatuaggio, anche grattando forte, non vanno via.

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