Iniziare a leggere Kentuki dell’argentina Samanta Schweblin, pubblicato con la traduzione di Maria Nicola da Edizioni Sur, è come andare di notte da soli per una città in blackout. Non sai cosa aspettarti.
Il primo episodio comincia in maniera traumatica e senza alcun preambolo. Gli elementi sono pochi: una camera da letto, una tavola Ouija, tre adolescenti unite da dinamiche di potere e sopraffazione, guidate indifferentemente da sadismo e desiderio di integrazione, mostrano la loro nudità alla webcam montata dentro gli occhi di plastica di un peluche con le rotelle. La situazione appare strana, inquietante, non sicura, ma loro non sembrano preoccupate. Si conclude tutto nel giro di poche pagine, e a quel punto non resta che andare avanti per capire di più.
Cosa è un kentuki?
Il kentuki è un peluche elettronico di qualsiasi forma (orsacchiotto, panda, coniglietto, addirittura drago) con una base per la ricarica, delle rotelle per muoversi e una webcam montata dentro gli occhi. Si può essere kentuki, o si può avere un kentuki. Chi vuole esserlo compra un programma o un’applicazione da installare su pc o tablet che lo colleghi a un qualsiasi kentuki e una volta che questo è attivato da un padrone, sarà possibile vedere attraverso gli occhi-webcam, muovere il peluche in remoto e ascoltare quello che succede attorno, quello che il padrone dice. Si può essere un corvo dentro una villa australiana, un coniglietto dentro un appartamento italiano o un orsacchiotto in un grattacielo di New York. Non è possibile scegliere che animale essere e dove essere. Non è possibile parlare al padrone. Chi vuole avere il kentuki invece (quindi chi vuole essere padrone), può scegliere di acquistare l’animale che preferisce, ma questo è tutto. Potrà parlare al peluche, ma non avrà risposta. Sarà osservato e seguito, a meno che non voglia impedirlo.
Ma perché le persone vogliono osservare la vita quotidiana di perfetti sconosciuti o meglio ancora, perché vogliono farsi osservare da perfetti sconosciuti? Schweblin tenta di rispondere a questi interrogativi con storie che viaggiano attraverso continenti e vite diverse.
In una realtà temporale apparentemente non molto lontana dalla nostra, i kentuki sono l’ultima moda tecnologica. Vengono acquistati e regalati persino ai bambini. Ma come tutte le nuove mode e invenzioni tecnologiche, nessuno ne conosce ancora effetti e implicazioni. Inoltre non ci sono leggi che ne regolino l’utilizzo. Questo risulta essere molto comodo per Grigor, che trae vantaggio economico dal vuoto normativo.
«Regolamentare non significava organizzare, ma fare le regole a favore di pochi. Presto le grandi imprese avrebbero messo le mani sul mercato che si era creato intorno ai kentuki, e la gente non ci avrebbe messo molto a capire che, avendone la possibilità, invece di pagare settanta dollari per una connessione che poteva accendersi in qualunque angolo del mondo, era meglio pagare otto volte tanto e scegliere dove stare. C’era gente disposta a spendere una fortuna per vivere nella povertà qualche ora al giorno, e c’era chi pagava per fare del turismo senza muoversi di casa, per girare l’India senza una sola diarrea, o per conoscere l’inverno polare in pigiama e pantofole. C’erano anche gli opportunisti per i quali una connessione in uno studio di avvocati di Doha equivaleva alla possibilità di passare tutta una notte su annotazioni e documenti che nessun occhio estraneo avrebbe dovuto vedere».
Ma il libro è popolato da altre storie e altri personaggi molto meno consapevoli della portata di questa novità.
C’è Emilia, una donna peruviana di sessantaquattro anni che non ha mai lasciato il suo paese, vive da sola e ha un figlio che abita a Hong Kong con cui non si sente mai. Lui le manda dei regali, lei li vende per pagare bollette e altro. Ma l’ennesimo regalo è diverso, deve installarlo nel suo vecchio pc, lei che di tecnologia non ne capisce nulla. Ed ecco che si ritrova a essere un adorabile coniglietto rosa dentro l’appartamento di una giovane ragazza entusiasta con un anello al naso, vestiti succinti e che parla una lingua diversa dalla sua, prontamente tradotta tramite i sottotitoli del programma. «La ragazza sorrideva rivolta alla videocamera. Che stupidaggine, pensò Emilia, pur riconoscendo che era divertente. C’era qualcosa che la emozionava in quel gioco eppure non riusciva a capire di preciso cosa. Selezionò “avanti” e la videocamera si mosse di qualche centimetro verso la ragazza, che sorrise divertita. La vide avvicinare un dito lentamente, molto lentamente, fin quasi a toccare lo schermo, e la sentì parlare di nuovo. “Ti sto toccando il naso”».
Enzo è invece un uomo italiano con un matrimonio fallito alle spalle. L’ex moglie e la psicologa del figlio, lo convincono a comprare un kentuki da tenere in casa sua per aiutare il figlioletto Luca a superare il divorzio dei genitori. Enzo, inizialmente poco convinto, rimarrà sorpreso dalla compagnia di quel topo con le rotelle, mentre Luca dimostra di non amare la novità.
Marvin è un ragazzino, va male a scuola, vive con il padre in una grande casa ad Antigua. Di nascosto da lui e con i soldi del conto della madre defunta, compra il programma per diventare kentuki, spera di essere un drago e di finire in un bel posto per avere mille avventure, ma soprattutto vuole vedere la neve. Il suo desiderio di evasione da una realtà insoddisfacente lo rende determinato a esplorare il mondo tramite quel nuovo sistema che già i suoi amici hanno sperimentato con successo.
Alina è una ragazza finita in una residenza per artisti in un un paesino vicino Oaxaca insieme al fidanzato artista. Lei lo segue e si annoia, si sente esclusa, non è sicura di «conoscere sé stessa e non sapeva perché stava al mondo. Lei era la compagna. La donna del maestro, come lo chiamavano lì». Decide di comprare un kentuki, sceglie un corvo, lo chiama Colonnello Sanders come il vecchio del Kentucky Fried Chicken.
Schweblin riesce con grande abilità e con uno stile asciutto a mescolare queste e altre storie, frammentandole in episodi che sembrano scorrere paralleli a un andamento sempre più disturbante e grave. Le trame narrative vengono lasciate e riprese. Calando con naturalezza i bizzarri dispositivi elettronici nella vita delle persone, l’autrice lascia che gli effetti di questo incontro si compiano. Il kentuki può essere lo sfogo per una mancanza di attenzioni, un amico misterioso e silenzioso a cui affidare le proprie angosce, ingenuamente e senza riuscire a prevedere le implicazioni sinistre che coinvolgono anche le persone più care. Può essere lo sfogo di una frustrazione o di una perversione, un oggetto da utilizzare per ingannare e ferire chi si trova dall’altra parte. Perché i rischi non sono solo di chi è costantemente osservato e spiato, ma anche di chi guarda. Cosa ci sarà svoltato l’angolo? Cosa si vedrà? Cosa si sentirà?
Dopo un primo spaesamento, la questione kentuki si assesta. C’è chi si affeziona e chi no, chi ha emozioni contrastanti al riguardo, ma tutti sembrano abbastanza convinti di avere il controllo. Una convinzione che si dimostrerà quanto mai errata.
«Alla lunga il kentuki avrebbe comunque finito per sapere di lei più cose di quante lei ne sapesse di lui, era inevitabile, però la padrona era lei e non avrebbe permesso che il suo peluche fosse nulla di più di un animaletto. In fin dei conti, non le serviva nient’altro che un animale da compagnia. Non gli avrebbe fatto nessuna domanda, e senza le sue domande il kentuki si sarebbe trovato a dipendere unicamente dai suoi movimenti, non avrebbe avuto modo di comunicare. Era una crudeltà necessaria».
Kentuki ha diversi elementi che possono essere definiti distopici: la componente tecnologica è invasiva, l’andamento angosciante segue la consapevolezza di un’osservazione continua da parte di qualcuno di cui non si potrà mai conoscere l’identità. Ma è bene specificare che chi guarda può essere sia un pedofilo che un’innocua pensionata, ma mai un Big Brother. Il richiamo orwelliano è solo vagamente abbozzato dall’elemento dell’osservazione, ma non si troverà lo schiacciante potere di una entità organizzata o di uno Stato oppressivo come in 1984. Nessun divieto coercitivo che porti a roghi di libri. Non è presente alcuna società-setta come quella recente de Il cerchio di Eggers che spaccia un sistema di connessione social come trasparente e sicuro mentre attua un controllo sistematico sulla popolazione. Se è vero che i kentuki sono fatti di plastica e circuiti elettrici, non sono tuttavia dei robot guidati da una programmazione o da una scheda madre, non sono esseri creati dall’uomo e sfuggiti al loro controllo. Non è più tempo di android e pecore elettriche, di colonie extramondo in futuri post-apocalittici. Non è più il tempo dei Terminator e della paura nucleare, di eroi mandati a salvare il mondo dal futuro.
Dietro ogni kentuki c’è un essere umano che lo muove e che guarda attraverso occhi di plastica il mondo che conosciamo anche noi, la realtà quotidiana. Quella delle piante da innaffiare, delle lezioni yoga con le amiche, dei compiti di scuola noiosi, degli anziani nelle case di riposo, dei soldi della disoccupazione che finiscono troppo presto. La scrittura scarna e precisa di Schweblin li rappresenta come una finestra diretta e spietata dentro vite che sono le nostre. La macrostoria di una certa letteratura distopica in Schweblin diventa microstoria, entra nelle case e nelle famiglie, nelle stanze da letto e nelle cucine. I personaggi non possono dare la colpa a una entità sconosciuta che li sovrasta da qualche torre di controllo, è il loro libero arbitrio che li porta a essere o avere kentuki. Le interazioni con questa tecnologia sono lo specchio realistico di tutte le ansie, insicurezze e desideri della nostra contemporaneità, e se sembra assurdo pensare di potere comprare un dispositivo dal tenero viso di peluche e con una webcam che riprende tutto in diretta («Non si poteva contare sul buon senso della gente, e avere un kentuki in giro per le stanze era come dare le chiavi di casa a uno sconosciuto»), se ci sembra assurdo decidere di spendere soldi per guardare attraverso quella webcam, chiediamoci se poi la differenza sia tanta con quello che avviene già adesso. La nostra vita è messa continuamente in mostra, normalmente. Cosa mangiamo, cosa facciamo, chi vediamo, è tutto documentato e visualizzabile da milioni di persone. Siamo sempre connessi. Lo spazio delle nostre case e delle nostre esistenze non fa più parte della sfera privata. Tramite le dirette streaming è possibile mostrare quello che scegliamo di condividere o di vedere, una festa, un evento lavorativo, ma possono essere utilizzate e sono state utilizzate in maniera criminale anche per mostrare l’orrore dal vivo, live. Sono ormai note le controindicazioni e gli effetti disastrosi di social e internet in generale, dal bullismo fino al revenge porn e oltre. L’autrice argentina sembra volerci suggerire che i kentuki sono già tra noi, che i kentuki siamo già noi.
In Kentuki i rapporti umani sono ridotti all’osso. Genitori e figli che non si parlano, fidanzati che non si vedono e non si toccano, persone che non riescono a vivere nella società o che sono annoiate dalla società e per questo si chiudono nelle loro stanze cercando altri mondi da esplorare comodamente seduti alla loro scrivania. L’incomunicabilità è il grande comune denominatore. Nessuno riesce a dire all’altro quello che prova o sente. È vero che Internet e le tecnologie in generale hanno cambiato radicalmente la maniera in cui viviamo i rapporti e la solitudine, ma è vero anche che le emozioni restano le stesse di sempre. Molti personaggi sono guidati dalla volontà di mantenere certi legami o di crearne di nuovi, dalla volontà di aiutare, di porgere una mano all’altro capo del mondo. Schweblin scrive di amori impossibili vissuti nella malinconia di una postazione pc. Di persone che non si sono mai viste ma che fanno rete ognuno dal loro angolo continentale per aiutare un ragazzino senza mamma a esaudire il suo sogno. C’è una coppia improbabile che si trova suo malgrado a salvare una vita in pericolo. C’è una madre che prova un senso di protezione verso una figlia che non è la sua. Ogni storia ha dentro di sé una incredibile componente di umanità che però è destinata a essere trascinata nel buio di un tunnel senza uscita. I personaggi, ormai avvezzi all’uso della tecnologia kentuki, convinti di avere il pieno controllo, si troveranno immobilizzati dalla piega torbida e disturbante che prenderanno gli eventi. I sentimenti più puri vengono schiacciati dalla capacità umana di ferire e sovrastare. La tecnologia è solo l’ennesimo strumento usato a questo scopo dalla parte più oscura di noi.
Schweblin ha scritto un libro profondo, spietato e crudele, pieno di debolezze e tenerezze tutte umane. I kentuki sconvolgono ogni vita con cui entrano in contatto, svelando le vere e autentiche pulsazioni che muovono le persone, mostrandole senza sovrastrutture nella loro intima e vergognosa naturalezza.
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