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«Pitagora era solo, e altrettanto lo erano Socrate, Gesù, Lutero, Copernico, Galileo, Newton e con ogni probabilità anche Mary Lindley Murray. Essere grande significa essere incompreso. Questo si diceva spesso, citando un pensatore che in segreto ancora riteneva un folle. Per anni se lo ripeté allo specchio quasi ogni mattina, cercando tracce di convinzione nella propria voce, e poi cominciò a farsi crescere la barba – per tenere la gola al caldo d’inverno, si disse. Di buono c’era che non avrebbe più dovuto sopportare la vista della sua faccia per intero, tra le cui rughe s’annidava il rimpianto».

In una New York molto lontana da quella moderna, Andrew Haswell Green continua a ripetersi che nella sua vita non c’è niente che non vada. Noto avvocato, presidente del Provveditorato agli Studi della città, urbanista e padre della Greater New York, Green è un uomo di successo ma è anche profondamente irrisolto. Lo storico dell’architettura Rudolf Wittkower l’avrebbe di certo inserito nella schiera dei nati sotto Saturno, ossia quegli artisti lunatici, ossessionati dal loro lavoro, la cui alterità è indubbia. Nonostante la sua dedizione nei confronti delle opere pubbliche, in pochi a New York conoscono la sua storia e forse nemmeno ricordano il suo nome.

È stato Jonathan Lee, scrittore del Surrey trapiantato in America e direttore editoriale della Bloomsbury Publishing, a riportare alla luce la vicenda con Il grande errore. Il romanzo è arrivato in Italia grazie a SUR, che nel 2017 ne aveva già pubblicato Il tuffo. Entrambi i libri sono stati tradotti da Sara Reggiani.

«L’ultimo attentato alla vita di Andrew Haswell Green ebbe luogo in Park Avenue nel 1903» e più precisamente il 13 novembre 1903. Un giorno infausto e notoriamente sfortunato, in cui la scelta migliore è chiudersi in casa o portare con sé improbabili amuleti e portafortuna che tengano lontane le avversità. Un’accortezza forse valida per un uomo o una donna qualunque della New York di fine XIX secolo, ma non per il pragmatico ottantatreenne Green. Sta tornando verso casa, dove sulla soglia lo aspetta Cornelius Williams, uomo distinto dai baffi sale e pepe che, apparentemente senza motivo, spara cinque colpi contro il noto urbanista. Ad assistere alla scena è la signora Bray, governante di Green, tanto fedele quanto astuta.

Quando il racconto di una storia comincia dal suo epilogo, uno dei potenziali rischi è di annoiare il lettore e di non riuscire a tenere viva la sua attenzione. Lee non incappa in questo inconveniente e ogni pagina del suo romanzo contiene indizi più o meno nascosti: come in un vecchio film in bianco e nero di Hitchcock, i capitoli si chiudono con un primo piano su oggetti o persone che si riveleranno poi fondamentali per lo scioglimento della vicenda.

Dall’omicidio del protagonista partono due linee narrative. La prima segue di pari passo le indagini condotte dall’ispettore McClusky, caduto in disgrazia a causa di uno strambo incidente – la fuga di un custode ubriaco con un’elefantessa dello zoo cittadino, conclusasi con l’animale incastrato nella porta del commissariato – e il cui destino professionale «pareva quello di restare invischiato in conversazioni assurde con degli estranei». La seconda linea narrativa racconta la vita di Green dalla sua infanzia fino al raggiungimento della notorietà. Nato nel 1820 a Worcester, nel Massachusetts, Andrew è uno degli undici figli che suo padre ha avuto da quattro mogli diverse. Da sempre considerato troppo delicato e troppo miope per affrontare la vita nei campi nella tenuta di famiglia Green Hill, viene spedito a New York «per guadagnarsi da vivere e rendersi utile» con un periodo di apprendistato presso un esercizio chiamato Hinsdale & Atkins. Nel romanzo è qui che il protagonista vede per la prima volta il suo futuro più caro amico, Samuel Tilden, mentre nella realtà non è chiaro dove l’incontro sia avvenuto. Sta di fatto che da quel momento quell’uomo distinto e amante della lettura ha avuto un ruolo centrale nella sua esistenza.

Dopo un periodo a Trinidad, dove tenta disperatamente la fortuna, e un breve soggiorno nella tenuta di famiglia, il giovane Andrew torna a New York, stavolta deciso a intraprendere una carriera da avvocato e a diventare influente quanto il ritrovato amico Tilden. Si potrebbe dire che il resto lo racconta la stessa città che Green ha cambiato per sempre: senza la sua testardaggine, la sua curiosità, la sua genialità, oggi non esisterebbero il Metropolitan Museum of Art, la New York Public Library, l’American Museum of Natural History, ma soprattutto non esisterebbe Central Park.

Andrew Green era ossessionato dagli spazi pubblici e dalla mancanza di aree verdi. Quel colore – che per ironia del destino era il suo stesso cognome – doveva dare un nuovo volto e una nuova vita a New York. Fu lui a decidere che il nuovo parco della metropoli, che definiva «senza cuore né polmoni», si sarebbe chiamato Central Park e non Middle Park, e che le porte d’ingresso sarebbero state dedicate a tutti coloro che in quella città avevano cercato speranza e cambiamento. Non è un caso infatti che Lee abbia pensato di intitolare i capitoli proprio con i nomi scelti per le porte a cui Green teneva tanto.

«Amava quella città. E la odiava. New York era una cattedrale di possibilità, un mondo in continuo divenire».

Sono molti i personaggi, più o meno importanti, che ruotano attorno alla vita e alla morte di Andrew Green, e nessuno tra essi è trattato con superficialità o inserito per un caso fortuito, nemmeno i piccioni che il medico legale, il dottor Forbes, nota sui tetti mentre si dirige verso il luogo del delitto e «adocchia come presagendo cosa avrebbe trovato ad aspettarlo». Di certo però tra le comparse più interessanti c’è Bessie Davis, all’anagrafe Hannah Elias, fondatrice di un bordello di lusso al 236 di Central Park West: il suo «sorriso irresistibile» è quello della donna nera più ricca d’America alla fine dell’Ottocento. Anche la letteratura ha un ruolo fondamentale: Green è convinto sin da ragazzino che leggere sia un atto di redenzione da una condizione di miseria, ed è per questo che sotto il bancone della bottega del signor Hinsdale tiene sempre un libro che possa portarlo lontano dallo squallore che si trova a vivere. Non mancano poi rifermenti alla letteratura americana ottocentesca, in particolare a Mark Twain, ma anche a quella del secolo successivo: «il grande errore» non è solo il progetto di unificazione di Manhattan con Brooklyn e il Queens fortemente voluto da Green, ma anche un riferimento a Il grande Gatsby. E Il grande errore non è solo un romanzo storico dove sembra che il punto focale sia trovare chi è l’assassino e perché, ma prima di ogni cosa è la storia di un uomo ostinato che ha costruito il proprio destino senza temere il fallimento. Dopo la disastrosa esperienza a Trinidad – di cui Lee si avvale per aprire una parentesi sulle condizioni di vita degli schiavi nel XIX secolo –, il protagonista torna a New York deciso a ottenere ciò che è convinto di meritare: riconoscenza, fama e successo. Eppure è difficile pensarlo come un arrivista senza scrupoli, perché Green sembra quasi mosso da un bene superiore e dalla volontà di fare in una città complicata − che «non voleva incantare» e che perciò «era come Dio. L’entusiasmo ce lo dovevi mettere tu» − ciò che non era riuscito a portare a termine a Green Hill. Attraverso le vicende di quest’uomo che si è fatto da solo, l’autore ha scritto la cronaca di una città, della sua crescita, della sua rivoluzione architettonica e sociale.

«Al di là del fallito tentativo di coltivare lo zucchero e la fede, il periodo trascorso nella piantagione gli aveva acceso dentro un nuovo tipo di fame: voleva sfidare New York e la sua esclusività con rinnovato vigore. Voleva farsi strada fino al cuore di quella città, e adesso sentiva che era possibile. Voleva creare qualcosa che lo colmasse d’orgoglio, anziché di vergogna».

Se sotto l’aspetto professionale Green sente di aver raggiunto gli obiettivi prefissati, lo stesso non si può dire della sua vita privata. Sin da ragazzino si obbliga a nascondere il proprio orientamento sessuale, prima obbligato dal contesto familiare e successivamente dalla società newyorkese del tempo. Lee non dichiara mai in maniera esplicita l’omosessualità del protagonista, ma fa in modo che essa emerga gradualmente grazie a una serie di malintesi in cui si trova coinvolto. Si percepiscono in ogni pagina la difficoltà e il rimpianto provati di fronte all’amore non vissuto.

Ancora una volta Lee ha dimostrato di essere un abile narratore di eventi passati: nel Grande errore invenzione e verità storica si fondono in maniera accorta, e creano un intreccio credibile e avvincente. Ogni capitolo mette in evidenza il lavoro di ricerca che si cela dietro il romanzo: non ci sono sviste o errori imperdonabili – come spesso sfortunatamente accade in questo genere narrativo – ma solo la destrezza di aver raccontato la vita di Andrew Haswell Green come fosse un giallo da risolvere a partire dall’episodio più grottesco della sua esistenza: la morte. La scrittura di Lee è essenziale e non sfocia mai in divagazioni superflue o noiose, e riesce sempre a soddisfare la curiosità del lettore.

Inutile dire che Il grande errore è anche una riflessione sulla memoria degli artisti e sull’inspiegabile facilità con cui spesso ci si dimentica di loro. Andrew Green ne era consapevole, ed è per questo che ha lavorato una vita intera per lasciare ai posteri qualcosa di concreto: non il ritratto che il pittore tedesco Henry Mosler gli realizza, ma le opere pubbliche. La sua morte è il vero grande errore di tutta la vicenda, e ripensandoci verrebbe da dire che William Turner forse aveva ragione: «l’arte è una buffa faccenda».

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