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«Jimbo» è stata la prima parola, in chissà quale dialetto africano, che ho imparato. Imparare ha sempre un suo prezzo, senza alcuna eccezione. Come se quella volta non fosse bastata l’aria condizionata a gelarmi la schiena, quando ho chiesto: «Tutto ok ragazzi, vi serve altro?», ecco l’inattesa richiesta: «Yes, We need Jimbo!».

Non è difficile immaginare la scena: basti pensare all’incrocio di due corsie in un supermercato economico di provincia. Al centro ci sono io, basso e tarchiato, italiano con i baffi alla Peppone e intorno a me una decina di giganti d’ebano, tra i venti e i trent’anni, che mi fissano con gli occhioni a palla ed esclamano in coro alternato: «Jimbo Jimbo… we need Jimbo».

Tutto intorno a noi un’altra cerchia di persone, gli spettatori, i curiosi. Sento il peso degli sguardi su di me, dei cassieri, dei commessi e del grasso macellaio che all’ingresso ha esclamato: «Questi so’ quelli che ce costano trenta euro al giorno». Temo che questa piccola Stonehenge fatta di persone possa collassarmi addosso. Intanto i «miei» africani ripetono il mantra del Jimbo e uno di loro disegna con la mano un piccolo cerchio tra indice e pollice, come fosse una monetina. Ed io lì a pensare:

 Jimbo è piccolo e rotondo.
Jimbo non sarà facile da trovare.
Vorrei morie. Subito.

 Questo è stato il mio battesimo del fuoco come operatore sociale, operatore socio-sanitario, operatore all’integrazione, insomma questo lavoro che non ha nome, i rifugiati che non hanno nome e io stesso che in quel momento non so chi sono. Le arti marziali mi hanno insegnato a muovermi e lottare, mi dico, non resterò fermo, probabilmente farò molte cazzate, ma con spirito di iniziativa. Così da bravo Brancaleone organizzo cinque squadre e le sparpaglio per il supermercato a caccia del famoso «Jimbo», chi lo trova per primo mi chiama o me lo porta. Io resto vicino alla cassa, dove stanno le telecamere, dando spiegazioni anticipate e non richieste al direttore. Bene, il direttore fa finta di capire e comunque alle parole «pago io» si tranquillizza. Lui sì. I macellai e i commessi no.

Domanda: «Cosa fanno dieci ragazzi di vent’anni a spasso per un supermercato?»

Risposta: «Un gran casino.»

Domanda: «Cosa fanno dieci ragazzi di vent’anni a spasso per un supermercato dopo un viaggio durato mesi, in cui sono quasi morti nel deserto o sui barconi?»

Risposta: «Un gran casino, ma con allegria.»

Il macellaio ne «scorta» due per ogni mano, una commessa con gli occhiali cammina di fronte a un gruppetto da tre invitandoli a seguirla, gli altri si sono radunati in gruppo e tutti quanti convergono verso di me e il direttore.

Dopo aver spiegato il tutto a tutti, noto che non sono state aperte confezioni di alimenti o sottratte altre cose; passo la spesa sulla cassa, pago e usciamo. Resto ammaliato nel vedere come i ragazzi, con fare esperto, formano grandi fagotti rotondi unendo più buste della spesa, per poi porseli sulla testa ed avviarsi verso casa in fila indiana. Ma qualcosa non quadra, il tutto è poco armonico… la fila è dispari! Mi sono perso un rifugiato!

Scatta il panico e agisco di conseguenza. Conto e riconto, cerco di ricordare quanti eravamo all’arrivo, cerco di ricordare i nomi ma li conosco da meno di 48 ore. Guardo nel parcheggio, guardo per strada, sto per dare l’allarme con il telefono in mano, ma poi ho un’illuminazione: il ragazzo scomparso si trova ancora nel supermercato.

Corro dentro, chiedo al cassiere, al direttore, alla commessa, al macellaio, al salumiere ma… niente, Baba (credo si chiami così) è sparito. Mi volto e mi dirigo verso l’uscita, il telefono sta già squillando, sto pensando alle parole giuste da dire al capo e alla lettera di licenziamento – che comunque arriverà prima del primo stipendio. Un saluto al direttore e uno sguardo, il mio, che casca per sbaglio sul monitor. In fondo allo stabile, nello schermo numero 7 – quello dell’uscita merci del magazzino – una piccola sagoma sta accucciata tra due pile di scatoloni ancora imballati dal cellophane. Ne fissa una a pochi centimetri e non si muove, si guarda attorno per un po’ e torna a fissare un punto più in basso nella fila di scatoloni.

È lui, non posso sbagliarmi. In bianco e nero si vede benissimo: la carnagione bruna, le scarpe bianche, il cappello di lana a righe. Faccio per raggiungerlo seguito dal direttore, capiamo che stiamo per assistere a qualcosa di unico. Arrivati là, troviamo questo ragazzo accucciato a contemplare una pila di pacchettini di cartone ancora inglobati nella pellicola che fascia l’intero bancale, sorride ed indica con il dito.

Quasi fossi un cercatore d’oro finalmente capisco ed esclamo: «Ha trovato Jimbo!».

Il direttore del supermercato, senza dire nulla e con il tappo della penna, rompe l’imballaggio Estrae due pacchetti di carta, ne da uno a Baba, uno a me e se ne va via sorridendo. Attonito e stordito dalla scoperta domando: «Perché è tanto importante per te?». Lui sorridente, in un francese incerto: «Da qualche anno al mio villaggio non si mangia più riso in bianco grazie a questo».

Jimbo è il dado da cucina.

 

 

 

 

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