A fare la domanda è un cane lupo con le orecchie tagliate e il muso di chi in quella zona del parco ha capito come comandarsela; a rispondere quattro zampe un po’ tarchiate e un paio di occhi spenti. A volte ci si sente come in questo dialogo cagnesco: «Come te la passi?» «A cazzo di cane».
Questa e le altre vignette di Manco li cani, uno dei tre cicli di fumetti realizzati da Remo Remotti ed esposti al MACRO di Roma per la mostra Remotti di Carta, sono un abbaiare amaro e liberatorio. Le fauci trasteverine e metaforicamente taglienti dei protagonisti delle immagini non si lasciano scappare nessun modo di dire riguardante la specie canina e, più sospirando che ringhiando, dipingono la vita come una cosa di cui si può solo ridere sotto i baffi.
Anche gli altri cicli hanno la stessa prospettiva. In Viaggio in Perù Remotti traccia dei bozzetti di vita quotidiana di Lima, città in cui ha vissuto tra il 1955 e il 1962, creando immagini corali, scorci in cui emergono vizi e tradizioni di un paese in cambiamento e ritratti delle tipologie di limegni, con una matita ironica e attenta a tratteggiare sguardi furbi e a catturare le azioni di cui si compongono le esistenze umane: dal modo in cui si osservano le processioni, ai giochi di strada dei bambini; dalle occhiate ai mendicanti nelle piazze affollate sotto le insegne della Coca-Cola, agli atteggiamenti delle donne che prendono il sole. Remotti a fumetti è ancora più impregnato di autobiografia: una rivelazione su carta di momenti importanti o piccole confessioni in cui la storia di Remotti si intreccia con la storia del paese e di Roma.
Quella di Remotti è una storia lunga, che va dal 1924 al 2015 e che comprende molte vite: quella di romano nel midollo e immigrato, di artista e menestrello, di drammaturgo e paziente di manicomi, di amante, puttaniere e uomo spirituale, persino. E anche il rapporto con la città è molteplice. Remotti è nato nella Roma fascista, la Roma della Chiesa e la Roma della borghesia. La sua mamma Roma l’ha detestata, ne ha sviscerato debolezze e ipocrisie: non può fare altrimenti chi appartiene davvero a Roma. La poesia su questa città è spesso critica sociale, il rapporto è tormentato, lo sguardo degli scrittori diventa quello dei romani che la odiano e amano con visceralità: Giuseppe Gioachino Belli, con gli occhi della plebe e la denuncia ai vizi dei poteri romani, non è certo l’ultimo poeta di Roma, e la voce spontanea e collettiva dei metroromantici Poeti del Trullo continua a comporre versi per capire la città: «Me trasformi in animale / Quanno fai l’indifferente / Madre, Amante o Capitale / Sei ’no Stato della Mente».
Remotti nasce quasi ai Parioli ma vive praticamente sul Tevere, dove fa canottaggio e dove il sole riscalda borghesi e proletari insieme. Lavora un po’ ovunque, ma deve fuggire dall’ossessiva mamma vera e dalla corrotta mamma città nel dopoguerra, lasciando come saluto il celebre testo Mamma Roma addio. Si arrangia con vari mestieri in Perù, finché frequenta una scuola d’arte serale grazie a cui capisce la sua vocazione: sarà pittore e scultore, e lo farà prima a Milano e poi a Roma, dopo un periodo in Germania in cui vivrà il sessantotto. In polemica, tra le altre cose, con il mondo artistico, organizza a Roma una mostra in cui vende le sue opere a prezzo bassissimo illustrando le ragioni in una lettera: ai prezzi abituali venderebbe solo ad Agnelli o a un turista americano che non saprebbe nemmeno pronunciare il suo cognome, mentre lui vuole che la sua arte possa essere acquistata dagli abitanti della città. Fa qualche calcolo, in modo che il ricavato della mostra – frutto di un lavoro più che gradevole di tre mesi – gli permetta di guadagnare il doppio di un autista di bus che, dice l’autore, a guidare senza sosta per Roma diventa di certo più matto di lui. Quadri e sculture di Remotti sono frutto del clima degli anni Sessanta e Settanta: sono colori, metallo, chiodi e materiali poveri; anche se il riconoscimento della sua arte figurativa è forse tardato, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna ne testimonia la rilevanza esponendo i suoi lavori.
A cinquant’anni inizia la carriera da attore, sia nel teatro con i suoi monologhi umoristici, sia nel cinema e nella televisione, dove reciterà con Nanni Moretti e Francis Ford Coppola, Marco Bellocchio, Ettore Scola e Woody Allen, solo per citarne alcuni. Ma come diceva lui: se li è fatti tutti; ed è così che è diventato noto al grande pubblico, al punto da arrivare nella casa di Un medico in famiglia o nei Cesaroni. Non gli manca la carta stampata: il primo libro è degli anni Ottanta, l’ultimo è del 2008 e si intitola Sesso da ospizio (edizioni Coniglio). A ottant’anni lo ritroviamo sulle copertine dei cd e a presentare il suo album sui canali televisivi musicali. In mezzo, una corsa nudo per le strade di Berlino, l’unica figlia avuta a sessantaquattro anni, i manifesti «Remotti è matto» per le strade di Roma.
Eppure «’sti disegnetti», che solo ora abbiamo conosciuto del tutto, hanno avuto il loro peso. Anzi, stando a un’intervista all’autore, sono stati la forma d’espressione a cui teneva di più: «Questa è l’arte più genuina. Tu mi dirai: ma perché non l’hai fatto prima, allora? Perché ero uno stronzo». Gli ingredienti si potrebbero trovare in uno zaino delle elementari: penna a inchiostro liquido, fogli da disegno lisci o ruvidi, bianchetto, alle volte; sguardo curioso e libero da ipocrisie. Come spesso i disegni per i bambini, le vignette di Remo Remotti sono un trasferire su carta l’esperienza e ciò che sta intorno nel modo più autentico e immediato, senza voler per forza motivare o razionalizzare; sono come le espressioni che vengono fuori quando si parla con gli amici di sempre, e non quelle destinate alla formalità del nero su bianco – mettendoci pure l’aggiunta del tocco malizioso e dissacrante del «maniaco sessuale di sinistra», come spesso Remotti si definiva, che le rende censurabili ai minori.
Quando non si ha paura della banalità ciò che ci sembra fin troppo semplice, come un disegnino o una battutina sulla vita da cani, può mostrare una vera forza comunicativa diventando al tempo stesso sguardo irriverente, sfogo dell’arrabbiatura e risata alla «buonanotte al cazzo». Remo Remotti aveva poche paure, da bravo nuotatore contro qualsiasi corrente nell’ex biondo Tevere, da puro dissacratore di tutto, da urlatore senza freni anche negli ultimissimi anni, da uomo che più rideva più si arrabbiava con le brutture del mondo.
In questo periodo in cui sembra che a destra, a sinistra e massiccio indefinito nessuno voglia davvero prendersi la responsabilità di governare Roma, o almeno provare a farlo, mi torna in mente il coro con cui in tanti cortei studenteschi sentivo accogliere questo anziano straripante, e per nulla imbarazzato quando si affiancava a tutti quei ragazzi: «Remo Remotti sindaco di Roma». Senza dubbio in pochi oggi, come lui , potrebbero adottare in campagna elettorale uno slogan allo stesso tempo irenico ma per niente politically correct come il suo tipico saluto: «Volemose bene, brutti stronzi!».
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