L’Ungheria è chiamata al voto il 2 ottobre per il referendum che deciderà se accettare o meno le quote europee per il ricollocamento di circa 16mila migranti. Agli aventi diritto al voto sarà chiesto: «Volete che l’Ue prescriva il ricollocamento obbligatorio di cittadini non ungheresi in Ungheria senza l’approvazione del parlamento ungherese?». L’esito del referendum non lascia molto spazio all’immaginazione considerando il clima che si respira nel paese.
Nel settembre 2015, in risposta alla crisi migratoria che ha colpito l’Europa, l’Ue ha annunciato uno schema di redistribuzione dei migranti. Il primo ministro magiaro Viktor Orbán si è opposto fermamente al piano europeo indicendo il referendum dall’esito piuttosto prevedibile già accennato. L’Ungheria è da tempo al centro del dibattito sulle migrazioni essendo divenuta un punto di passaggio fondamentale per chi intraprende la rotta balcanica, che ha come meta finale la Germania o altri paesi del nord europa. Già nel 2015, quando questa rotta è stata preferita alla più costosa e rischiosa rotta mediterranea, l’Ungheria ha assunto un ruolo strategico: nel settembre dello stesso anno, infatti, a causa dell’intenso flusso di migranti, il governo ha ordinato la costruzione di un muro di filo spinato lungo il confine tra Serbia e Ungheria e, in un secondo momento, il muro è stato costruito anche lungo il limite croato e il flusso si è spostato verso la Slovenia. Il passaggio di rifugiati o profughi in quest’area non è un fenomeno recente, ma solo dallo scorso anno i media internazionali hanno focalizzato l’attenzione, sia perché il flusso diveniva sempre più cospicuo, sia perché aumentavano le misure dei governi serbo e ungherese volte al respingimento.
Il progetto di redistribuzione dei rifugiati tra gli stati membri dell’Unione nasce dall’esigenza di fornire un maggiore aiuto a paesi come Italia o Grecia, che registrano un numero molto elevato di rifugiati e migranti sul territorio, ma allo stesso tempo una mancanza di risorse per far fronte all’emergenza. Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania hanno votato contro il piano, seppur rimanendo in minoranza. Lettonia e Polonia, inizialmente non favorevoli, hanno votato insieme alla maggioranza, all’interno della quale Italia, Francia e Germania, paese europeo col più ampio numero di richiedenti asilo, hanno assunto una posizione centrale. La Commissione Europea ha proposto una redistribuzione obbligatoria seguendo, naturalmente, criteri specifici per decidere il numero di rifugiati da ricollocare in ogni paese, tra i quali il PIL, il tasso di disoccupazione e il numero di richiedenti asilo in quel determinato territorio nazionale.
La posizione anti-migranti è sostenuta fortemente dall’Ungheria insieme a paesi del blocco centro-orientale come Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia che formano il gruppo di Visegrád, alleanza a quattro nata per promuovere la cooperazione e l’integrazione nell’Ue di questi stati. La posizione del primo ministro slovacco Robert Fico è chiara: parla di un’Europa sotto la minaccia di un attacco dei migranti e sostiene che se il suo paese accetterà la quota imposta dall’Ue «ci si sveglierà un giorno e si avranno 100mila arabi e questo è un problema che non vorrei avere in Slovacchia». La Slovacchia si dichiara disposta ad accettare 200 rifugiati, possibilmente cristiani, aggiunge il primo ministro. Analoga è la posizione di Miloš Zeman, presidente ceco, che vede l’Islam come un nemico della civilizzazione. Questo è il clima in cui l’Ungheria, nazione leader del fronte anti-immigrazione, andrà al voto.
Orbán fa leva sul tema della sovranità nazionale per tirare acqua al mulino referendario in un momento storico particolare per Bruxelles, subito dopo la Brexit, prima espressione chiara di un desiderio di Europa che si sta gradualmente affievolendo. Il premier ungherese gode di grande popolarità nel paese, soprattutto a seguito della costruzione del muro spinato lungo il confine serbo-ungherese. Nazionalista sin dagli albori della sua carriera politica, antieuropeista, conservatore, ha alimentato la diffidenza di molti politici europei, che prendono le distanze dal suo conservatorismo di marca cristiana trasformatosi in un autoritarismo volto alla difesa dell’identità culturale del paese, che sarebbe minacciata dall’ondata di migranti. In carica dal 2010, Orbán ha attuato politiche contrarie all’orientamento neoliberale europeo e dirette al controllo dell’economia da parte dello Stato, al fine di promuovere un capitalismo nazionale (con l’intenzione di creare posti di lavoro e incentivare gli investimenti) ampiamente in controtendenza con le politiche portate avanti da Bruxelles e dagli stati membri in cabina di regia.
La campagna contro rifugiati e migranti è stata lanciata dal governo ungherese attraverso una serie di slogan propagandistici dal titolo lo sapevate che…? , declinati in varie forme: lo sapevate che l’attacco di Parigi era a opera di migranti? (in riferimento all’attentato del novembre scorso rivendicato da una cellula terroristica legata all’IS); lo sapevate che dall’inizio della crisi migratoria più di 300 persone in Europa hanno perso la vita a causa di attacchi terroristici?, e cosi via. L’opposizione denuncia il governo di diffondere messaggi xenofobi nel paese, ma il suo ruolo è attualmente piuttosto limitato. Già nel 2011, il partito socialista protestava contro la scelta del governo di combattere la disoccupazione dei rom costringendoli a lavori «socialmente utili», in sostanza paragonabili a lavori forzati, oltre che essere un tipo di misure ritenute discriminatorie e molto vicine a una forma di sfruttamento.
Nel 2014 l’opposizione invitò l’Ue a monitorare il grado di democrazia del paese dopo che Orbán aveva dichiarato che uno stato liberale non è in grado di combattere la crisi economica e di voler creare un’Ungheria nuova di natura non liberale, pur non negando valori come la libertà. Nonostante questa dichiarazione di intenti, apparentemente ambigua ma nei fatti realizzata molto più concretamente a favore del primo termine (non liberale) che non per sviluppare il secondo (la libertà), l’opposizione continua ad avere una posizione marginale nel paese; ciò sia per la pressione diretta sulle forze politiche di lotta che per il ridimensionamento più o meno indiretto di molteplici fronti dissonanti (stampa e opinione pubblica, scuola, università, magistratura) da parte dell’esecutivo a marca Fidesz guidato da Orbán. In questo modo non si riesce a richiamare in modo incisivo l’attenzione dei vertici europei sulle emergenti criticità di politica interna. Da questo punto di vista gli stessi vertici europei sembrano colpevolmente sordi ai richiami della minoranza socialista che guida la barricata anti-Orbán con difficoltà sempre crescenti.
Ciò che ci si chiede è se e come l’esito di questo referendum potrà minare gli equilibri in Europa. Secondo la maggior parte degli analisti, la mossa di Orbán è strettamente connessa all’esito della consultazione popolare in Gran Bretagna, dove il 52% dei votanti ha scelto per il leave. Il premier, quindi, vorrebbe sfruttare lo sconvolgimento causato dal voto britannico a proprio favore, cercando di accrescere la sua popolarità in Ungheria e non solo. L’impresa non sembra essere troppo difficile considerando la sponda del grumo intollerante est europeo.
Inoltre non tutti i partiti all’opposizione ungherese hanno posizioni similari riguardo il voto. La compagine di estrema destra Jobbik voterà «no» insieme al governo; alcuni partiti di sinistra dichiarano di votare sì, altri invitano gli elettori a non prendere parte alla votazione. Il joke party MKKP (Magyar Kétfarkú Kutya Párt) consiglia agli elettori di invalidare la scheda, portando avanti una campagna, dal carattere piuttosto satirico, in opposizione a quella anti-migranti a opera del governo. Interviene nella questione anche Amnesty International, insieme ad altre ONG, al fine di fornire maggiori informazioni e numeri circa le migrazioni, ma senza dare indicazioni di voto.
Secondo i sondaggi circa l’80% degli ungheresi voterà «no», quindi contro le politiche di redistribuzione dei migranti paventate dall’Europa. Cosa accadrà dopo? Sicuramente la tensione tra Budapest e Bruxelles arriverà alle stelle tanto che i più pessimisti prendono in considerazione un’uscita dell’Ungheria dall’Ue. L’effetto di un evento simile avrebbe serie conseguenze anche sull’euro. L’eventuale uscita potrebbe anche essere gestita, ma porterebbe con sé una serie di reazioni a catena oltre che mettere ulteriormente in luce la fragilità del sistema europeo e la sua incapacità di dare risposte nuove a un problema ormai annoso e in forte diffusione tra gli stati membri.
Sarà senz’altro un autunno caldo per la coesione europea e non solo per il referendum ungherese: in Austria il 4 dicembre si ripeterà il ballottaggio per le elezioni presidenziali, dove si scontrano l’europeista Van der Bellen e il candidato di estrema destra Hofer. Se dovesse prevalere il secondo, dalla posizione anti-migranti e anti europeista, salirebbe al potere il primo governo di estrema destra dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma non finisce qui. I prossimi mesi metteranno davvero a dura prova l’Europa: in Italia si andrà al voto sul referendum costituzionale che potrebbe squilibrare il governo filoeuropeo di Renzi; nel 2017 francesi e tedeschi andranno alle urne e si teme per la crescita ulteriore di forze populiste come il Fronte Nazionale o l’Alternativa per la Germania, che scuoterebbero seriamente l’Ue nelle sue fondamenta democratiche considerando la potenza economica e decisionale, e quindi la funzione pivotale, dei due paesi.
Il referendum in Ungheria, una «democrazia populista» come molti politologi la definiscono, sembra essere un vero e proprio banco di prova politico per l’intero continente. A ogni modo, l’esito non avrà effetti diretti sulla questione delle migrazioni (l’oggetto della consultazione stessa) ma porterà con sé una serie di conseguenze di carattere politico ed economico nello scenario continentale.
In ogni caso pare evidente che all’interno dell’Unione Europea si è giunti a una cesura. All’ombra di cambiamenti economici, fratture transnazionali, criticità gestionali e conflitti interni si sviluppano i movimenti populisti e anti-europeisti che stanno accrescendo i loro consensi in maniera esponenziale. I motivi delle perplessità espresse dalle popolazioni nei confronti dell’Unione, oltre che frutto di processi demagogici se non addirittura di forme di diffusione di odio razziale, sono da rintracciare nella gestione di issues altamente stressanti a livello sociale come l’emergenza migranti che fin dal principio è stata manifesto di ambiguità e mancanza di una leadership condivisa. Il sistema di controllo alle frontiere si sta rivelando completamente inadatto e manca un coordinamento delle singole politiche nazionali in materia; è chiaro che non è sufficiente uno schema di redistribuzione dei migranti per risolvere la situazione e placare gli animi. Contemporaneamente si assiste a un ritorno ai nazionalismi e a una continua ricerca della sovranità perduta, ulteriore prova dello scontento generato dal modo in cui gli organismi europei dirigono le politiche comuni. Altro segnale lampante che qualcosa in Europa deve cambiare. Effettivamente tutto dipenderà da quanto i singoli stati saranno disposti ad abbracciare le policies per la crescita e per la cooperazione perché, oltre agli importanti aspetti di accoglienza e solidarietà, l’origine delle criticità rimane prevalentemente di natura economica.
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