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Sono in un coffee shop, seduta a scrivere accanto all’unica presa elettrica di tutto il locale. Da lì a poco, due adolescenti si materializzano dal nulla insieme ai loro cellulari scarichi. La prossimità fisica con loro è sgradevole, ma foriera di riflessioni. Non avevo mai capito cosa significassero, per i nati del Duemila, i buchini delle prese di corrente. A noi degli anni Ottanta e Novanta dicevano poco o nulla.

Noi adolescenti di venti anni fa non avevamo troppe pretese, forse i nostri pantaloni erano troppo corti, le frangette esageratamente bombate e le scarpe molto brutte. Però, checché ne pensassero gli ultratrentenni di allora (che ci guardavano sempre schifati), eravamo pur sempre nati e cresciuti sullo stesso pianeta della generazione precedente.

Invece, tra me e questi due sedicenni che giungono scalpitando, eccitati alla vista dei buchini sul muro, ci sono circa zero cose in comune. Loro non parlano, ma emettono suoni indistinguibili (baaaa, booo, whaaaaa). Sono vestiti e pettinati in maniera identica, i capelli rasati sulla nuca e gonfi come panettoni sulla sommità della testa. Una volta che gli screen dei loro cellulari tornano a illuminarsi nei palmi delle loro mani, i due ci mettono un secondo per andare in catalessi. L’estasi li paralizza per diversi minuti, le bocche si spalancano come oblò di lavatrici.

Si risvegliano perché il video che hanno guardato è finito e perché è arrivato il momento di scattare qualche selfie. Essendo due esemplari maschi, non uniscono le labbra a cuore, ma si limitano a fare le corna con le mani, o a sollevare i pollici. Poi c’è da decidere sugli scatti da postare: «This one or that one?» chiede uno, esagitato. «No way man, you look retarded in this one» consiglia saggiamente l’altro.

In più di centoventi minuti di vicinanza forzata, le reazioni dei due a quello che vedono sui cellulari sono diverse e si alternano, vanno dall’emettere suoni animali al prendersi a calci, dalla risata fragorosa alla perdita totale di coscienza. Fino al momento in cui ne hanno tutti e due abbastanza e decidono di andare a connettersi da qualche altra parte, permettendomi di lavorare in pace.

Da stamattina ho capito una cosa importante: i figli delle nuove tecnologie sono esseri sdoppiati. Sono presenti solo con il corpo, mentre la loro attenzione è sempre altrove, in un luogo che fisicamente non esiste.

Si dice che la vita sui social non è reale, quando lo sta diventando sempre più. Basta fare attenzione a storie ambientate nel presente contemporaneo, a quelle trame che tradiscono delle incongruenze:

«Filippo era follemente innamorato di Ornella e voleva invitarla a uscire. Aspettava solo che gli si presentasse l’occasione giusta per parlarle a quattrocchi».

E subito viene spontaneo chiedersi: come? Non sono già amici su Facebook? Instagram? Non ce l’hanno whatsapp?

Da figlia degli anni Ottanta, ritengo più interessante leggere una conversazione che avviene dal vivo, magari tra gli scaffali del supermercato, rispetto a una chiacchierata virtuale su Whatsapp.

Forse è per questo che alcuni autori preferiscono ignorare le nuove tecnologie. Una scelta molto sensata è quella della giovane e talentuosa Valentina d’Urbano, la scrittrice trentenne che ha ambientato tutti e cinque i suoi romanzi proprio negli anni Ottanta e Novanta. I suoi personaggi sono costretti a parlarsi in faccia, al massimo al telefono, e se scattano foto lo fanno con la polaroid: «Non amo inserire la tecnologia nelle storie che racconto» spiega D’Urbano «avrei l’impressione di perdere un pezzo, di giocarmi tante situazioni, di rendere il gioco più facile per i miei protagonisti. Voglio vederli mentre ci mettono la faccia!».

In sostanza, a usare troppo le nuove tecnologie ci si perde sia in termini di vita vissuta che in tensione letteraria. Alcuni romanzi riusciti, come The Circle di Dave Eggers, oppure Lovebook (Newton Compton) della nostra Simona Sparaco, sono imperniati proprio sull’impatto dei social e delle nuove tecnologie in una società ancora vergine, e sulle situazioni tragicomiche provocate dal cambiamento.

Non è solo un problema di divario generazionale e giovani d’oggi, se dobbiamo «scatarrarci su» oppure no, per dirla con gli Afterhours.

Se la letteratura rispecchia la società, e se la società tende a vivere sempre più online, è legittimo chiedersi cosa succederà nei libri tra cinque, dieci o vent’anni. Come saranno le storie inventate e scritte dagli adolescenti di oggi? I personaggi delle storie interagiranno sempre più nelle chat, nelle bacheche virtuali e nei forum, e sempre meno tra i banchi di scuola?

Vi lascio con questi interrogativi inquietanti, instillati inconsapevolmente da due adolescenti londinesi che hanno deciso di marinare la scuola in una grigia mattina di ottobre, e di sedersi accanto a una ultratrentenne che li guardava schifata.

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