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Questo pezzo di Jordan Elgrably è uscito originariamente su The Paris review ed è stato tradotto da Emanuele Giammarco per Altri Animali.

Quest’intervista è stata fatta nei due luoghi più cari alle fatiche letterarie di James Baldwin. La prima volta ci siamo incontrati a Parigi, città dove ha passato i primi nove anni della sua fiorente carriera e dove ha scritto i suoi due primi romanzi – Gridalo forte(( Go Tell It on the Mountain, Knopf, New York 1953; trad. it. di S. Mondino, Amos, Venezia 2013.)) e La stanza di Giovanni(( Giovanni’s Room, Dial Press, New York 1956; trad. it. di A. Clericuzio, Le Lettere, Firenze 2001.)) – e il suo saggio più celebre Appunti americani(( Notes of a Native Son, Beacon Press, Boston 1955; trad. it. di A. Hilbe, Le Lettere, Firenze 2007.)). Come mi ha detto Baldwin è stato proprio a Parigi che per la prima volta ha potuto fare i conti con la relazione esplosiva che aveva con l’America e con se stesso.

La seconda volta, invece, è stato nella sua villa poutres-et-pierres a St. Paul de Vence, dove ha abitato nei dieci anni seguenti. Abbiamo pranzato durante un fine settimana d’agosto, assieme ai suoi ospiti d’allora e alla segretaria. Durante il sabato, con il caldo intollerabile e l’umidità, ha imperversato una tempesta che, a causa di una leggera forma di artrite, ha finito per dargli noia al polso e alla mano sinistra (quella che usa per scrivere). Del resto, da parte nostra, sporadici cali di tensione, anche questi causati dalla tempesta, avevano messo fuori uso il registratore. Durante i blackout abbiamo discusso liberamente di argomenti diversi, oppure abbiamo pazientato in silenzio, sorseggiando i nostri drink.

Una volta tornati la domenica, invitati ancora da Baldwin, c’era un sole splendente e abbiamo potuto mangiare in cortile sul tavolo da picnic all’ombra di un pergolato che si affacciava su una proprietà cosparsa di alberi da frutta e con una vista spettacolare sul litorale mediterraneo. L’umore di Baldwin si era rasserenato considerevolmente rispetto al giorno prima; quando siamo entrati nel suo studio, e ufficio, l’ha definito la sua «camera delle torture».

Baldwin scrive a mano («si ottengono dichiarative più brevi») su un classico blocchetto per gli appunti, ma una grande e vecchia macchina Adler se ne sta lì al bordo della scrivania. È una tavola rettangolare in legno di quercia, con sedie di vimini su ogni lato, ricoperta di arnesi per scrivere e diverse brutte copie dei lavori in corso d’opera: un romanzo, un’opera teatrale, una sceneggiatura e un saggio sugli omicidi infantili ad Atlanta; raccolti questi ultimi in The Evidence of Things Not Seen(( The Evidence of Things Not Seen, Holt, Rinehart and Winston, New York 1985; inedito in Italia.)). Fra i suoi lavori più recenti ci sono poi The Devil Finds Work(( The Devil Finds Work, Dial Press, New York 1976; inedito in Italia.)), una dura reprimenda contro i pregiudizi e la paura razziale nell’industria cinematografica, e un romanzo, Sulla mia testa(( Just Above My Head, Dial Press, New York 1979; trad. it. di P.F. Paolini, Bompiani, Milano 1979.)), che tratteggia la propria esperienza come attivista per i diritti civili negli anni Sessanta.

Vuoi dirci come sei arrivato a lasciare gli Stati Uniti?

Ero al verde. Nel portafogli c’erano quaranta dollari quando sono partito per Parigi, ma a New York non potevo proprio rimanere. Avevo i nervi a pezzi, tormentati da quella babilonia di persone. Per un certo periodo di tempo, leggendo, ero riuscito a evadere, però dovevo ancora confrontarmi con la strada, con le autorità e con il freddo. Sapevo cosa significava essere bianchi e sapevo cosa significava essere un negro; quindi sapevo a cosa sarei andato incontro prima o poi. Stavo per esaurire la mia dose di fortuna. Sarei andato in prigione, avrei finito per farmi ammazzare o per ammazzare qualcuno. Due anni prima il mio migliore amico si era suicidato buttandosi giù dal Washington Bridge.

Quando sono arrivato a Parigi nel 1948 non sapevo una parola di francese, non conoscevo e non avevo voglia di conoscere nessuno. Dopo un po’, quando ho cominciato a frequentare altri americani, ho preso a evitarli perché avevano più soldi di quanti ne avessi io e non avevo nessuna voglia di sentirmi uno scroccone. I quaranta dollari con cui ero partito, mi ricordo, mi durarono due o tre giorni. Prendendo soldi in prestito ovunque riuscissi a farlo – spesso all’ultimo momento – mi spostavo da un hotel all’altro, senza sapere cosa ne sarebbe stato di me. Poi mi sono ammalato. Per mia sorpresa non mi buttarono fuori dall’hotel. Questa famiglia corsa, per ragioni che non capirò mai, si prese cura di me. Una vecchia signora, davvero vecchia, una vera matriarca, mi ha accudito fin quando non mi sono ripreso tre mesi più tardi; usava vecchi rimedi popolari. Per essere sicura che fossi ancora vivo doveva salire quattro rampe di scale ogni mattina. Venivo da un periodo in cui ero rimasto molto solo, in cui volevo mi lasciassero in pace. Non facevo parte di alcuna comunità, finché più tardi non divenni il Giovane arrabbiato di New York.

Perché hai scelto la Francia?

Non era tanto la Francia, la questione. La vera questione era andarmene dall’America. In Francia non avevo idea di cosa mi sarebbe successo, però sapevo cosa mi sarebbe successo a New York. Se fossi rimasto lì, avrei finito per buttarmi giù dal Washington Bridge, proprio come aveva fatto il mio amico.

«La città gli ha dato il colpo di grazia» hai detto. Intendevi metaforicamente?

Non troppo. Quando sei in cerca di un posto dove vivere, in cerca di un lavoro, cominci a dubitare del tuo stesso giudizio, cominci a dubitare di qualunque cosa. Ti lasci andare. E quello è il momento in cui cominci a buttarti via. Sei stato sconfitto, ed è stato deliberato. L’intera società ha deciso di fare di te un perfetto nessuno. E quando lo fa nemmeno se ne rende conto.

Scrivere ha rappresentato una sorta di salvazione per te?

Non ne sono tanto sicuro! Non sono sicuro di averla scampata del tutto. Certe cose te le porti appresso, in molti modi diversi. Continuano ad accadere intorno a noi ogni giorno. A me in particolare non più alla stessa maniera, perché io mi chiamo James Baldwin; non giro in metropolitana io, e non me ne vado in cerca di un posto dove passare la notte. Ma certe cose accadono tutt’ora. Difficile usare il termine «salvazione» in un contesto come questo. In un certo senso, descrivendola, sono stato costretto a convivere con la mia condizione. Non significa che me ne sia fatto una ragione.

C’è stato un momento in cui hai capito che avresti scritto nella vita? In cui hai capito che saresti stato uno scrittore e non un’altra cosa?

Sì, la morte di mio padre. Finché mio padre non è morto pensavo di poter fare altro. Avevo desiderato fare il musicista, avevo pensato di diventare un pittore, di diventare un attore. Tutto questo prima di compiere diciannove anni. Date le condizioni, in questo paese era impossibile essere scrittore e nero allo stesso tempo. Quand’ero ragazzo non è che la gente pensasse questo granché di te, diciamo che non ti stimolavano, ecco. Mio padre pensava fosse impossibile; pensava che mi avrebbero fatto fuori, che mi avrebbero sparato. Diceva che contestavo le categorie dell’uomo bianco, il che era abbastanza vero. Ma da mio padre avevo anche imparato cosa pensava lui delle categorie dell’uomo bianco. Era un timorato di Dio, un uomo molto religioso, per certi versi meraviglioso, per altri terribile. Morì quando gli nacque l’ultimo figlio. Allora mi resi conto che avrei dovuto fare un salto, un balzo in avanti. Ho fatto il predicatore per tre anni, dai quattordici ai diciassette. Furono quelli, probabilmente, gli anni che mi trasformarono in uno scrittore.

I sermoni che pronunciavi dal pulpito erano preparati meticolosamente o ti venivano in testa lì per lì?

Improvvisavo a partire dai testi, come fa un musicista di jazz a partire dal tema di un pezzo. Non ho mai scritto un sermone; studiavo i testi. Non ho mai scritto un mio discorso. Non sono in grado di leggere un discorso. È un dare-avere. Devi percepire le persone a cui ti stai rivolgendo. Devi rispondere a ciò che sentono.

C’è un lettore nella tua testa quando scrivi?

No, non è possibile.

Quindi non è come predicare?

Per niente. I due ruoli sono del tutto slegati. Quando sei sul pulpito devi dare l’idea di conoscere la materia. Quando stai scrivendo, invece, sei alla ricerca di qualcosa che ancora non conosci. La lingua della scrittura è per me tutta in questa ricerca verso ciò che non vuoi conoscere, verso ciò che non vuoi scoprire. Perché qualcosa ti obbliga a farlo comunque.

Quindi è questa una delle ragioni per cui hai deciso di diventare scrittore: per scoprire qualcosa di te stesso?

Non sono sicuro di averlo deciso. Piuttosto era «o quello o niente», dal momento che, nella mia testa, ero l’uomo di casa. Non era esattamente la maniera in cui la vedevano loro, ma comunque ero il fratello più vecchio, e presi la cosa molto sul serio, dovevo essere d’esempio. Non potevo permettere che mi accadesse niente perché poi cosa ne sarebbe stato di loro? Sarei potuto diventare un tossico. Lungo i percorsi che ho dovuto fare e le strade da cui sono dovuto scappare, sarebbe potuto accadere di tutto a un ragazzo come me, a New York. Dormendo sui tetti e sotto la metro. Ancora oggi sono terrorizzato dai bagni pubblici. In ogni caso… mio padre morì, quindi mi misi un attimo seduto a capire il da farsi.

Quando trovavi il tempo per scrivere?

Ero molto giovane allora. Potevo scrivere e allo stesso tempo tenermi un paio di lavori. Per un certo periodo feci il cameriere… come George Orwell in Senza un soldo a Parigi e a Londra. Ora non ci riuscirei. Ho lavorato nel Lower East Side e in quello che adesso chiamano Soho.

Hai avuto qualcuno a farti da mentore?

Una volta ero all’angolo di una strada, mi ricordo, con il pittore nero Beauford Delaney(( La persona a cui è dedicato Going to Meet the Man.)), giù al Village, in attesa che facesse buio. Beauford indicò in basso e disse: «Guarda». Guardai, e tutto ciò che vidi fu acqua. Quindi mi disse «Guarda ancora», cosa che feci, e vidi la benzina sulla superficie e la città riflessa nella pozzanghera. Fu una grande rivelazione, per me. Non so spiegarlo. Mi insegnò come guardare, e come credere in ciò che vedevo. Spesso i pittori hanno insegnato agli scrittori come si guarda. E una volta che hai fatto quell’esperienza, cominci a guardare le cose in modo diverso.

Credi che un pittore possa aiutare uno scrittore alle prime armi più di quanto possa fare un altro scrittore? Leggevi molto?

Leggevo di tutto. A tredici anni mi ero già letto tutte e due le biblioteche che c’erano a Harlem. Impari molto sulla scrittura in questo modo. Prima di tutto, impari quanto poco ne sai. È proprio vero che più si impara e meno si conosce. Io sto ancora imparando come si scrive. Non conosco la tecnica. Tutto ciò che so è che devi fare in modo che il lettore veda le cose. È quanto ho imparato da Dostoevskij, da Balzac. Sono sicuro che in Francia la mia vita sarebbe stata molto diversa se non avessi incrociato Balzac per la mia strada. Anche prima di averlo visto con i miei occhi, capii qualcosa del contesto francese, di tutte le istituzioni e le personalità. Del modo in cui funzionavano il paese e la società. Come trovare la mia strada, come non perdermi e non sentirmi respinto dall’uno e dall’altra. La Francia mi ha dato ciò che non potevo avere in America, quel senso per cui «se sono in grado di farlo, posso farlo». Non voglio generalizzare, ma durante gli anni in cui sono cresciuto negli Stati Uniti, non era pensabile. Mi avevano già inquadrato.

Ti è venuto fuori subito, con facilità, quello di cui volevi scrivere?

Bisognava che mi liberassi da una terribile timidezza, l’illusione che avrei potuto nascondere qualunque cosa a chicchessia.

Pensavo che chiunque riuscisse col tempo a rivolgersi a una congregazione, e per di più senza usare gli appunti, non potesse essere timido.

Ero spaventato allora e sono spaventato adesso. La comunicazione è una strada a doppio senso, davvero, è tutta una questione di saper ascoltare. Una volta, durante le battaglie per i diritti civili, mi trovavo in chiesa a Tallahassee e il pastore, riconoscendomi, mi chiamò per nome e mi chiese di dire due parole. Avevo trentaquattro anni allora e l’ultima volta che ero salito sul pulpito era stato diciassette anni prima. Il momento in cui dovetti alzarmi in piedi e camminare per la navata e salire su quel pulpito fu il più strano che mi fosse mai capitato fino ad allora. Mi impegnai per uscirne bene e quando scesi giù dal pulpito, e fui di nuovo in mezzo alla navata, una vecchia e minuta signora nera in mezzo alla congregazione fece a una sua amica: «È piccolo, ma parla forte!».

Come sei diventato capace di scrivere? Ci spieghi il processo?

Sono dovuto passare attraverso un periodo di isolamento per venire a patti con chi e con cosa fossi, indipendentemente da tutto quello che mi avevano detto di essere. All’inizio degli anni Cinquanta mi ricordo di questa sensazione come di essermene uscito da qualcosa, di aver cambiato pelle ritrovandomi di nuovo nudo. Non lo ero, forse, ma di certo mi sentivo più a mio agio con me stesso. Quindi potevo scrivere. Per tutto il 1948 e il 1949 avevo solo stracciato carta.

Quegli anni furono difficili, eppure fra il 1945 e il 1956 ricevesti quattro borse. Quanto furono di incoraggiamento?

Be’, il primo assegno fu il più importante in quanto a morale: Il Saxton Fellowship del 1945. Avevo ventun anni. Ero lanciato nel mondo editoriale, per così dire. Era il periodo di quel romanzo che diversi anni dopo sarebbe diventato Gridalo forte.

Il Saxton avrebbe dovuto aiutarti a finire il romanzo a cui stavi lavorando?

Mi aiutò a finire il romanzo, mi tenne in vita. Il romanzo non funzionava, ma iniziai a stilare recensioni per il New Leader a dieci o venti dollari l’una. Dovevo leggere un mucchio di cose e scrivere per tutto il tempo, e quello fu un grande apprendistato. Le persone per cui lavoravo erano trotzkisti moderati, socialisti di ispirazione trozkista. Io stesso ero un giovane socialista. Quella fu una bella atmosfera per me; nel senso che mi salvò dal baratro. Ma la maggior parte dei libri di cui facevo la recensione erano tutti un «sii carino con i negri», «sii carino con gli ebrei», mentre l’America stava passando attraverso i suoi spasmi liberali. Le persone si accorsero di avere un problema con gli ebrei, con libri come Gentleman’s Agreement(( L.Z. Hobson, Gentleman’s Agreement, Simon & Schuster, New York 1947; inedito in Italia.)), Earth and High Heaven(( G. Graham, Earth and High Heaven, J.B. Lippincott, Philadelphia 1944; inedito in Italia.)), oppure si accorsero che esistevano i negri, con libri come Kingsblood Royal(( S. Lewis, Kingsblood Royal, Random House, New York 1947; trad. it. di N. Zoia, Sangue Reale, Mondadori, Milano 1951.)) e Quality(( C.R. Sumner, Quality, Bantam Books, New York 1947; inedito in Italia.)).

Migliaia di libri simili furono pubblicati durante quegli anni e sentivo il bisogno di leggerli tutti, uno per uno; era il colore della mia pelle a fare di me un esperto. Così quando andai a Parigi mi dovetti liberare da tutto ciò, il che fu pressoché il motivo per cui scrissi il saggio Everybody’s Protest Novel(( Saggio incluso in Appunti americani.)). Ero convinto – e lo sono tuttora – che libri di quel genere non fanno altro che alimentare un’immagine stereotipata. Tutto ciò un po’ aveva a che fare con la direzione che avevo preso come scrittore, perché mi sembrava che se avessi giocato il ruolo della vittima, allora stavo soltanto rassicurando i difensori dello status quo; più ero una vittima più potevano avere pietà di me e aggiungere qualche penny al loro assegno per il welfare abitativo. Sentivo che niente sarebbe cambiato a quella maniera, e quel saggio fu per me l’inizio di una ricerca che mi portò a un nuovo vocabolario e a un diverso punto di vista.

Se avevi la sensazione di trovarti in un mondo di bianchi, cosa ti faceva credere che scrivere avesse senso? E perché secondo te la scrittura è un mondo di bianchi?

Perché gestiscono il mercato. Be’, ripensandoci, giunsi alla conclusione che non avrei permesso a me stesso di farmi inquadrare dagli altri, bianchi o neri che fossero. Mi era entrato fin dentro le vene: dare la colpa a chiunque per quanto mi era successo. La responsabilità era mia. Non volevo nessuna pietà. «Lasciami in pace, ci penso io.» Ero molto ferito ed ero pericoloso, perché si diventa ciò che si odia. Era accaduto a mio padre e non volevo che accadesse anche a me. Avevano annichilito il suo disprezzo così gli si era ritorto contro. Non poteva sfogarsi, poteva farlo soltanto a casa, attraverso la rabbia, e mi accorsi che stava succedendo anche a me. E dopo che il mio migliore amico si gettò dal ponte, capii che sarei stato il prossimo. Quindi: Parigi. Con quaranta dollari e un biglietto di sola andata.

Una volta arrivato a Parigi, hai passato molto tempo al Café de Flore. È lì che sono stati scritti Gridalo forte e La stanza di Giovanni?

Molto di Gridalo forte è stato scritto lì. Lì e all’hotel Verneuil, dove ho passato molto tempo quando sono stato a Parigi. Dopo dieci anni in cui mi ero portato appresso il libro in giro, finalmente in tre mesi riuscii a finirlo in Svizzera. Ascoltavo tutto il tempo Bessie Smith, ancora mi ricordo, quando ero fra le montagne, l’ascoltavo finché non mi addormentavo. Il libro era difficile da scrivere perché l’avevo iniziato troppo giovane, a diciassette anni; in buona sostanza riguardava me e mio padre. Tecnicamente c’erano alcune cose con cui non ero ancora in grado di confrontarmi, all’inizio. Più di ogni cosa, però, non ero in grado di confrontarmi con me stesso. Ecco dove mi ha aiutato Henry James, tutto quello che pensava sulla centralità della coscienza e sull’utilizzo di un’unica intelligenza per raccontare la storia. Mi ha suggerito l’idea di inscenare il romanzo durante il compleanno di John.

Sei d’accordo con quello che dice Alberto Moravia, ovvero che si dovrebbe scrivere solamente in prima persona, perché la terza parla sempre da un punto di vista borghese?

Non saprei. La prima persona è la prospettiva più terribile di tutte. Tendo a essere d’accordo con James, il quale odiava la prima persona, una prospettiva di cui il lettore non ha alcuna ragione di fidarsi; perché dovrei aver bisogno di questo Io? Quanto può diventare reale, questa persona, a forza di blaterale così lungo le pagine?

Quando hai concepito per la prima volta l’idea di lasciare fuori personaggi neri da La stanza di Giovanni?

Credo che l’unica risposta onesta a questa domanda sia che La stanza di Giovanni è uscito fuori da qualcosa che dovevo per forza affrontare. Non so bene quando sia successo, però so che mi ha preso d’assalto da quando iniziai a scrivere quello che poi è diventato Un altro mondo. Giovanni si trovava a una festa ed era sul miglio verde verso la ghigliottina. Si è preso tutta la luce del libro, dopodiché il libro si è arenato e nessuno dei personaggi voleva più parlarmi. Pensai di rinchiudere Giovanni in un racconto, ma poi si è trasformato in La stanza di Giovanni. Di certo non sarei mai stato in grado – non a quel punto della mia vita – di affrontare l’altro grande peso, il problema razziale. Era già difficile confrontarsi con la prospettiva sessuale e morale, non avrei potuto gestire entrambi i temi. Non c’erano abbastanza stanze. Forse oggi farei diversamente, ma allora, avere una presenza nera in quel momento, e a Parigi, sarebbe stato davvero al di là delle mie possibilità.

È stato David il primo a palesarsi nella Stanza di Giovanni?

Sì, ma il libro ha una storia curiosa. Ho scritto quattro romanzi prima di pubblicarne uno; prima che avessi lasciato l’America, persino. Non ho idea di che fine abbiano fatto. Quando sono arrivato erano in una sacca da viaggio che poi ho perso, e questo è quanto. La genesi della Stanza di Giovanni però è avvenuta in America. David è stata la prima persona che ho immaginato, ma è dovuto tutto a questo strano caso, un assassinio, compiuto da un ragazzo di nome Lucien Carr. Personalmente non lo conoscevo, ma lo conoscevano alcuni miei amici. Rimasi affascinato dal processo, che includeva un ricco playboy e sua moglie, entrambi dell’alta società. Da queste suggestioni ne venne fuori la prima versione della Stanza di Giovanni, un canovaccio chiamato Ignorant Armies (Eserciti di ignoranti), romanzo che non ho mai terminato. Lì c’era l’ossatura tanto della Stanza di Giovanni quanto di Un altro mondo.

Non è stato dopo i tuoi primi due romanzi, entrambi per molti versi estremamente personali, che hai iniziato a introdurre quel contrappunto politico e sociologico (evidente nei tuoi saggi) dentro Un altro mondo?

Dal mio punto di vista non è così che funziona, non si compiono tentativi cercando da una parte di risultare personali e dall’altra di portare una visione più ampia. Nessuno sa come scrive il suo libro. Gridalo forte riguardava il rapporto con mio padre e con la chiesa, che in effetti è la medesima cosa. Era il tentativo di esorcizzare qualcosa, di scoprire cosa fosse successo a lui, cosa a tutti noi, cosa a me – ovvero John – e perché eravamo arrivati a doverci spostare da un posto per andarcene altrove. È ovvio che il libro sembri piuttosto personale, ma non è su John, e non su me.

«Si scrive a partire da una cosa soltanto, la propria esperienza» hai detto una volta.

Sì, e la propria esperienza non è necessariamente la realtà che si vive tutti i giorni. Tutto accade a te, è ciò che intende Whitman nella poesia Heroes quando dice: «Sono io l’uomo, Io a soffrire, Io a essere lì». Tutto dipende da cosa intendi per «esperienza».

Ciò nonostante, sembra che i tuoi sforzi contro l’ingiustizia sociale siano stati messi da parte come materiale per i tuoi saggi, mentre la narrativa tratta in maniera predominante del tuo passato.

Se volevo sopravvivere come scrittore prima o poi avrei dovuto scrivere un libro come Un altro mondo. D’altra parte, racconti come Blues per Sonny e Previous Condition(( J. Baldwin, Going to Meet the Man, Dial Press, New York 1965; trad. it. di L. Ballerini, Stamattina stasera troppo presto, Racconti, Roma 2016.)), apparsi prima di Un altro mondo, erano altamente personali e comunque andavano molto più in là dei dilemmi tipici di un giovane attore del Village in difficoltà,(( Tema del racconto Previous Condition.)) o di quelli di Sonny in Blues per Sonny.

Ralph Ellison, nella sua intervista a The Paris Review, ha detto che i suoi scritti «non hanno a che fare in primo luogo con l’ingiustizia, ma con l’arte», quando invece qualcuno potrebbe quasi dipingerti come il portavoce dei neri.

Non mi considero un portavoce. Ho sempre pensato che sarebbe piuttosto presuntuoso.

Però sei cosciente del fatto che molte persone leggono e sono stimolate dai tuoi saggi, così come accade con i tuoi discorsi e con le tue lezioni…

Andiamo un attimo indietro. Quei saggi risalgono davvero all’inizio dei miei vent’anni, e furono scritti per il New Leader e per The Nation tanti anni fa. Erano un tentativo di lasciarmi alle spalle quel caos di cui parlavo prima. Ho vissuto a Parigi abbastanza a lungo per finire il mio primo romanzo, cosa molto importante per me (altrimenti non sarei neanche qui). Più tardi dovetti passare per un periodo di separazione nella vita privata, cosa che mi trattenne a Parigi dal 1955 al 1957, ma sapevo che sarei dovuto tornare in America. E così feci. Una volta che mi ritrovai nel movimento per i diritti civili, una volta conosciuti Martin Luther King Jr, e Malcolm X e Medgar Evers e tutti gli altri, ebbi la conferma del ruolo che dovevo giocare. Non mi vedevo come qualcuno che doveva parlare in pubblico, o come un portavoce, ma sapevo come portare una storia oltre la scrivania dei caporedattori. E una volta che ti rendi conto di poter fare qualcosa, diventa difficile vivere con te stesso se non lo fai.

Quando eri molto più giovane, quali differenze pensavi ci fossero fra l’arte e la protesta?

Le consideravo entrambe letteratura e lo faccio tutt’ora. Non vedo quella contraddizione che qualcuno invece considera sostanziale, sebbene capisca cos’è che intende Ralph, così come tanti altri. L’unico modo di giocarmela, una volta che mi sono trovato davvero su quella strada, è stato stabilire che se avevo talento, e questo mio talento fosse qualcosa di importante, allora sarebbe semplicemente sopravvissuto a qualsiasi cosa mi avrebbe poi riservato la vita. Non avrei potuto restarmene seduto da qualche parte a raffinare il mio talento e a raggiungere un buon livello dopo che ero stato in tutti quei posti al sud e dopo aver visto tutti quei ragazzi e quelle ragazze, uomini e donne, neri e bianchi, così desiderosi di un cambiamento. Mi era impossibile farci giusto una capatina di tanto in tanto per poi tornarmene come nulla fosse al mio mondo.

Dopo la morte di Martin Luther King Jr eri davvero a terra. Per te è stato difficile scriverne, allora? O dall’angoscia riesci a tirare fuori il meglio?

Nessuno tira fuori il meglio dall’angoscia, per niente; si tratta di una mirabolante presunzione letteraria. Non pensavo proprio di poter scrivere. Non ne scorgevo il senso. Faceva male… Non riesco neanche a parlarne. Non sapevo come andare avanti, il mio cammino non era chiaro.

Alla fine come hai trovato la tua via d’uscita dal dolore?

Penso che fu grazie a David, mio fratello. Stavo lavorando a No Name in the Street(( J. Baldwin, No Name in The Street, Dial Press, New York 1972.))ma dopo l’assassinio non l’avevo più toccato. Lui mi ha chiamato e io gli ho detto: «Non ce la faccio a finirlo. Non so che farci», e a quel punto ha attraversato l’oceano. Ero qui a St. Paul, vivevo a Le Hameau dall’altra parte della strada. Ero malato ed ero andato in quattro o cinque ospedali. Fui anche fortunato, perché sarei potuto impazzire. Vedi, avevo lasciato l’America dopo il funerale per andare a Istanbul. Lì mi ero messo a lavorare, o almeno ci provai. A Istanbul mi sono ammalato, sono andato a Londra, sono stato male anche lì, e volevo morire. Ero al collasso. Mi hanno spedito qui dall’ospedale americano di Parigi. Ero già venuto in questa regione nel 1949 ma non avevo mai immaginato di venire a vivere a St. Paul. Una volta arrivato qui, poi sono rimasto. Non avevo letteralmente altro posto dove andare. Be’, avrei potuto tornare in America, e lo feci, per fare Una conversazione sulla razza(( J. Baldwin, M. Mead, A Rap on Race, trad. it. V. Mantovani, Dibattito sulla razza, Rizzoli, Milano 1973.)) che mi aiutò molto. Ma principalmente mi aiutò David. Venne qui, lesse No Name in the Street e lo inviò a New York.

In un saggio per Esquire una volta hai scritto di esser stato «formato nelle avversità e cresciuto nel compromesso». Riflette forse i tuoi sforzi per vedere il tuo lavoro pubblicato?

No, anche se è stata davvero una carriera tormentata. È un modo terribile di guadagnarsi da vivere. Trovo che scrivere col tempo diventi più difficile. Intendo il processo stesso, che richiede una certa dose di energia e di coraggio (anche se non uso questa parola volentieri), e una certa dose di incoscienza. Non lo so, mi domando se ci sia qualcuno – compreso me stesso – che sia in grado di parlare di scrittura. Forse ho paura di farlo.

Concezione, gestazione, parto: tu la vedi così?

Non la vedo così, no. L’intero processo in cui si concepisce: se ne può parlare col senno di poi, se proprio se ne deve discutere. Ma davvero è imperscrutabile. Col senno di poi posso anche discutere in merito a un’opera, eppure rimango molto scettico sul fatto che le mie parole possano essere prese come la Bibbia.

Un critico ha suggerito che la migliore opera di James Baldwin deve ancora venire e che sarà un romanzo autobiografico, cosa che Sulla mia testa era solo in parte.

Forse non ha parlato a sproposito. Certo, spero che la mia migliore opera debba ancora venire. Dipende da quello che si intende per «autobiografico». Di sicuro non ho ancora raccontato la mia storia, questo lo so, anche se ne ho rivelato alcuni frammenti.

Sei, o sei rimasto, legato ai tuoi personaggi?

Non so se mi sento legato a loro, adesso. Del resto dopo un po’ di tempo scopri che i personaggi per te si sono come dispersi, cosa che rende impossibile giudicarli. «Questa è l’ultima fermata, devi scendere qui», ecco cosa significa finire un romanzo. Alla fine non ottieni mai quello che volevi, scendi a patti con il libro così com’è uscito. Provo sempre la sensazione come se ci fosse qualcosa che non ho visto, quando finisco di scrivere un libro, e di solito me ne rendo conto solo quando è troppo tardi per rimediare.

Cioè, quando il libro è già stato pubblicato?

No, succede proprio qui, quando sei sulla scrivania. Quando viene pubblicato succede qualcos’altro ancora. A quel punto è fuori dal tuo controllo. Parlo di quando ti rendi conto che, se provassi a rivedere delle cose, finiresti per rovinare tutto il resto. Però, se un libro ti ha portato da un posto a un altro, di modo che ora riesci a vedere qualcosa che prima non potevi vedere, allora hai fatto un passo in più. È tutta la consolazione che se ne può trarre: ora sai che devi procedere oltre.

È pieno di tuoi personaggi che passeggiano qui intorno?

No, cominciano a camminarti intorno prima che tu li metta su carta. E dopo che li hai messi su carta non li vedi più. In effetti, forse, stanno ancora qui. Sei tu quello che li può vedere.

Quindi, una volta intrappolato nella tua opera, un personaggio finisce di essere un fantasma?

In realtà quello che accade è che i personaggi ti tiranneggiano per tutto il tempo che ci vuole e, quando il romanzo è finito, lui o lei ti fa: «Ciao ciao, grazie tante». Pointe finale. Prima che finissi Un altro mondo, Ida mi ha parlato per anni. Adesso andiamo molto d’accordo.

Dopo quanto tempo, una volta concepito Rufus, in Un altro mondo, hai capito che si sarebbe suicidato? Forse era modellato sul tuo amico di quando eri giovane, quello che si buttò dal Washington Bridge a New York?

Oh, venne preso direttamente dal mio amico, eppure, abbastanza stranamente, fu l’ultima persona a presentarsi nel romanzo. Ho scritto il libro molte volte e ho pensato che non sarebbe mai venuto come volevo io. Ida era importante, ma non ero sicuro che potessi gestirla. Ida e Vivaldo furono le prime persone con cui ho dovuto confrontarmi, ma non riuscivo a rendere Ida credibile. Poi è venuto fuori Rufus e tutto l’intreccio ha trovato un senso.

Invece Richard, lo scrittore più o meno idealista?

Neanche ce la faccio a ricordarlo. Allora, c’era Vivaldo, di cui non seppi il nome per un po’ di tempo. All’inizio si chiamava Daniel e a un certo punto era nero. Ida, invece, è sempre stata lei. Richard e Cass facevano parte dell’arredamento. Dal mio punto di vista, non c’era niente di idealistico in Richard alla fine. Era modellato su diversi attivisti liberali americani, sia di allora sia di adesso. A ogni modo, per mostrare Ida al lettore, dovevo darle un fratello, che alla fine si rivelò essere Rufus. È affascinante dal punto di vista dello stile, e per come gli esseri umani rispondono alle sofferenze, che mi ci ci sia voluto così tanto – dal 1946 al 1960 – per accettare il fatto che avevo perso il mio amico. Dal momento che Rufus se n’era andato, ho capito che se sapevi cos’era successo a Ida, avresti allo stesso modo capito Rufus, e avresti capito perché Ida per tutto il libro era stata così difficile con Vivaldo e con chiunque altro; con se stessa soprattutto, perché non era capace di vivere con il dolore. Il motore principale del libro, secondo me, è questo viaggio di Ida e Vivaldo verso una qualche forma di coerenza.

C’è davvero un cambio di marcia fra lo scrivere narrativa e saggistica?

Cambio di marcia, dici? Ognuna delle due forme è complicata, nessuna è più facile dell’altra. Entrambe ti rompono il culo. Nessuna delle due riesce facile.

Quanto pagine scrivi al giorno?

Scrivo di notte. Quando la giornata finisce, e la cena è finita, io inizio. E lavoro fino alle tre o alle quattro di mattina.

È piuttosto raro, no? Dato che la maggior parte delle persone scrive la mattina quando è fresca.

Inizio a lavorare quando gli altri vanno a dormire. Ho dovuto farlo sin da quando ero giovane: dovevo aspettare finché i bambini non si fossero addormentati. E poi di giorno lavoravo. Ho sempre dovuto scrivere la notte. Ma adesso che mi sono sistemato lo faccio perché di notte sto da solo.

Come capisci che qualcosa è come la vuoi?

Riscrivo tanto, ed è molto doloroso. Un libro è finito quando non puoi più rimetterci mano, è lì che te ne accorgi, anche se non è mai esattamente come tu vorresti che sia. Non a caso, la cosa più difficile che abbia mai scritto è stata la scena del suicidio in Un altro mondo. Sapevo da tempo, da subito, che Rufus si sarebbe suicidato, perché era la chiave del libro. Ma ho continuato a rimandare la stesura. Non poteva che essere così, del resto, dato che mi avrebbe fatto rivivere il suicidio del mio amico che si era buttato giù dal ponte. In più, dal punto di vista tecnico, era davvero pericolosa perché il personaggio centrale muore entro le prime cento pagine, e con un altro paio di centinaia ancora da leggere. Il climax che porta al suicidio è come un lungo prologo, ed è l’unica luce puntata su Ida. Non si entra mai dentro la sua testa, quello che le accade in testa devo mostrartelo facendoti sentire il colpo della morte di suo fratello; la chiave per capire il perché si relaziona a quel modo con tutti quanti. Cerca di farla pagare a tutti. Ma non funziona così, la vita non è fatta a quel modo, così non fai che distruggere te stesso.

È così che inizia un libro per te, allora? Qualcosa del genere?

Probabilmente è così per tutti: qualcosa che ti irrita e che non vuole lasciarti andare. È piuttosto angosciante. Fa’ questo libro o muori. Devi andare fino in fondo.

Ha un effetto purificante per te?

Non ne sono molto sicuro. Per me è come un viaggio, e l’unica cosa che sai è che, quando il libro è terminato, sei pronto per andare avanti; che non hai barato.

Cosa significherebbe «barare», invece?

Evitare di dire, mentire.

Quindi diventa quasi un’esigenza liberarsene?

Oh sì, liberarsene e farlo nel modo giusto. Esigenza è la parola giusta. Ed è valida anche per quanto riguarda i saggi.

Per i saggi è un po’ più semplice però, no? Se non altro perché sei arrabbiato per qualcosa su cui puoi direttamente puntare il dito…

Scrivere un saggio non è più semplice, sebbene possa sembrare così. Un saggio è essenzialmente un’argomentazione. Il punto di vista dello scrittore, in un saggio, è assolutamente chiaro. Lo scrittore tenta di far capire qualcosa al lettore, tenta di convincerlo di qualcosa. In un romanzo, o in un’opera teatrale, tenta invece di mostrare qualcosa. I rischi, in ogni caso, sono esattamente gli stessi.

Come sono le tue brutte copie?

Molto scarabocchiate. La maggior parte della riscrittura, pertanto, è pulizia. Non descrivere, mostra. Ecco cosa cerco di insegnare ai giovani scrittori: togliere! Non descrivere un tramonto viola, fa’ in modo che io veda che è viola.

Avendo maturato esperienza nello scrivere, cos’è migliorato secondo te grazie alla consapevolezza raggiunta?

Ti rendi conto di quanto poco tu sappia. Diventa sempre più arduo perché la cosa più difficile del mondo è la semplicità. E la cosa più spaventosa, tra l’altro. Diventa sempre più arduo perché devi spogliarti di tutte le tue maschere, alcune delle quali non sapevi nemmeno di avere. Scrivere una frase pulita come un osso: ecco dove vuoi arrivare.

Ti preoccupa quello che pensa la gente del tuo lavoro?

In fin dei conti no. Mi preoccupava quand’ero più giovane. Ciò che ti interessa è il parere delle persone a cui tu sei interessato a tua volta, quello che dicono loro. Ti interessano le recensioni perché così qualcuno leggerà il libro. Sono cose importanti, quindi, ma non così tanto alla fine.

La mentalità che hai trovato in America, quella che ti ha fatto andare in Francia, è ancora fra noi? È esattamente la stessa di allora?

Ho sempre saputo che prima o poi sarei tornato. Se avessi ventiquattro anni adesso, non saprei dove andare e se farlo o meno. Non saprei se andare in Francia, forse andrei in Africa. Devi tenere presente che quando avevo ventiquattro anni non c’era davvero nessuna Africa dove andare, eccetto forse per la Liberia. Pensai di andare in Israele, ma non l’ho mai fatto, e a ragione. Oggi, però, un ragazzo di oggi… be’, vedi, è successo qualcosa di cui nessuno si è veramente accorto ma che è molto importante: l’Europa non è più il punto di riferimento, il portabandiera, il paradigma classico per la letteratura e per la civiltà. Non rappresenta più il metro con cui misurare. Ci sono altri modelli nel mondo. Sono tempi affascinanti da vivere. Esiste un intero mondo che adesso non è più com’era prima, quando ero più giovane. Quand’ero un ragazzo il mondo era bianco, negli intenti e negli obiettivi, e adesso invece si sta sforzando di rimanere bianco, il che è assai diverso.

Molti hanno detto di te che sei un maestro per i personaggi secondari. Come ti poni a riguardo?

Be’, i personaggi secondari sono il sottotesto, illustrazioni di ciò che stai cercando di comunicare. Sono rimasto sempre colpito dai personaggi secondari in Dostoevskij e Dickens. Hanno una certa libertà che i personaggi principali non hanno. Possono fare dei commenti, possono muoversi, eppure non hanno lo stesso peso, o la stessa intensità.

Intendi dire che devono rendere meno conto delle loro azioni?

Oh no, se mandi a puttane un personaggio minore ne mandi a puttane uno più importante. Sono più un semplice arredamento, una specie di coro greco. Si caricano di tensione in un modo più esplicito dei personaggi maggiori.

Perdona la domanda, ma senti tua madre alle tue spalle mentre scrivi? C’è forse lei dietro molti dei tuoi personaggi?

Non credo ma, a dirti la verità, non lo posso sapere. Ho cinque sorelle e, per uno strano caso della vita, ci sono state molte donne nella mia vita, quindi potrebbe anche non essere mia madre.

Sei ma stato in analisi?

Dio santo, no. Non mi hanno mai «raddrizzato».

Sia tu sia William Styron (intenzionalmente o meno) scrivete sulle vittime e sul vittimismo. Styron ha detto che non si è mai sentito una vittima. Tu?

Be’, io mi rifiuto di farlo. Forse il punto di svolta nella vita di ognuno avviene quando ci si rende conto che essere trattato come una vittima non significa necessariamente diventarla.

Credi in una comunità di scrittori? Ti importa come cosa?

No. Non ne ho mai vista nessuna… e non credo sia successo ad altri scrittori.

Non hai detto però che William Styron e Richard Wright sono stati importanti per il concepimento di una tua prospettiva?

Richard è stato molto importante per me. Era molto più vecchio. È stato molto carino nei miei confronti. Mi ha aiutato con il mio primo romanzo, e molto. È stato fra il 1944 e il 1945. Ho letteralmente bussato alla porta di casa sua a Brooklyn! Mi sono presentato, e ovviamente non aveva idea di chi fossi. Allora non avevo ancora scritto neanche un saggio, nessun romanzo; era il 1944. Lo idolatravo. Amavo quello che scriveva. Eravamo molto diversi, io e lui, come scrittori, e anche come persone probabilmente. Mano a mano che sono cresciuto è stato sempre più evidente. Dopodiché fu Parigi.

E Styron?

Be’, come dicevo, Bill era un amico che solo per coincidenza era anche uno scrittore.

Hai preso posizione sul suo libro su Nat Turner?

Sì l’ho fatto. La mia posizione, però, è che non dirò mai a un altro scrittore cosa scrivere. Se non ti piace quel punto di vista, scrivine uno tuo. Lo ammiro molto per essersi confrontato col tema, e anche per il risultato. Si è sobbarcato per intero l’enormità della questione della «storia contro la narrativa», della «narrativa contro la storia», di quali siano i limiti dell’una e dell’altra… Parla a partire da ragioni non così lontane dalle mie: da qualcosa che lo colpisce e che lo spaventa. Mentre lavoravo a Un altro mondo e Bill lavorava a Nat Turner(( W. Styron, The Confession of Nat Turner, Random House, New York 1967; trad. it. di B. Fonzi, Le confessioni di Nat Turner, Einaudi, Torino 1967.)), sono stato suo ospite per cinque mesi. I suoi orari sono molto differenti dai miei. Io me ne andavo a dormire all’alba, Bill entrava nel suo studio per lavorare; la sua giornata iniziava quando la mia era al capolinea. Ci incrociavamo giusto per mangiare.

Che tipo di conversazioni avevate?

Non parlavamo mai di lavoro, o molto raramente. È stato un periodo meraviglioso della mia vita, ma non in senso strettamente letterario. Cantavamo, bevevamo un po’ troppo, e di quando in quando chiacchieravamo con chi ci veniva a trovare. In termini musicali condividevamo lo stesso retaggio.

Che tipo di musica ascolti quando sei immerso nella scrittura? Provi qualcosa di emotivo o di fisico?

No. Sono molto freddo, «freddo» probabilmente non è la parola che cercavo: controllato. Scrivere per me è un esercizio molto controllato, fatto di passioni e speranze. È l’unica ragione per cui ci si mette a farlo, altrimenti si farebbe altro. L’atto stesso di scrivere è freddo.

Adesso mi tocca fare una premessa alla mia stessa domanda. Molti scrittori con cui ho parlato hanno dichiarato di leggere molto meno i romanzi contemporanei e di scoprirsi attratti piuttosto dalle opere teatrali, dai libri di storia, dalle memorie e le biografie, dalla poesia. Posso pensare che questo sia vero anche per te?

Nel mio caso è dovuto al fatto che faccio sempre qualche tipo di ricerca. E sì, leggo molto teatro e molta poesia come fosse una sorta di apprendistato. Si è affascinati, io sono affascinato, da una certa ottica; il processo con cui si vedono le cose. Per esempio leggendo Emily Dickinson o altri che sembrano abbastanza lontani da quelle che sembrano le nostre ordinarie preoccupazioni, o dai nostri obblighi. Sono più liberi di noi, in quei momenti, in parte perché sono morti. Al contempo possono darti forza. I romanzi contemporanei sono parte di un universo in cui tu hai un certo ruolo e una certa responsabilità. E una curiosità inevitabile, certo.

Leggi romanzi contemporanei solo per quel senso di responsabilità?

Forse, in un certo senso. In ogni caso mi interessano pochi scrittori; il che ha poco a che vedere con la loro bravura. Molti di loro li sento troppo distanti. Il mondo di John Updike, per dire, non ha punti di contatto con il mio. D’altra parte, il mondo di John Cheever è riuscito invece a coinvolgermi. È tutto molto soggettivo, quello di cui parlo. In linea generale, gli argomenti trattati dalla maggior parte degli americani bianchi (per usare quella espressione) sono noiosi e terribilmente, terribilmente autoreferenziali. Nel modo peggiore, per giunta. Certo, poi è tutto relativo a come vedi te stesso.

Stai forse suggerendo che, in qualche modo, si concentrano meno sulle ingiustizie sociali?

No, no, vedi, non ho intenzione di fare questo genere di dicotomie. Non chiedo a nessuno di prendere posto in un picchetto o di prendere posizione su alcunché. Queste sono questioni strettamente private. Ciò di cui parlo ha a che vedere con il concetto che si ha di sé, e con la natura di auto-indulgenza che ai miei occhi sembra così soffocante, e limitata, da divenire infine sterile.

Eppure nei tuoi scritti ti confronti con la tua esperienza personale abbastanza spesso.

Sì ma – e qui un’altra volta entro in conflitto con il linguaggio – dipende tutto da come concepisci te stesso. Questo si risolve, certamente, intorno alla molteplicità delle tue connessioni. È ovvio che puoi confrontarti solo con la tua vita e lavorare dalla visuale privilegiata del tuo sé. Non ce n’è altra, non c’è un altro punto di vista. Di nessuno dei miei personaggi posso affermare che sia interamente fittizio. È vero, ho bene in mente cos’è che ha stuzzicato la mia attenzione, dove e quando sia successo. Anche se in modo totalmente confuso so per certo come un personaggio ha avuto impatto su di me nella realtà, in quella che chiamiamo realtà, la quotidianità. Ma tutto questo deve essere innescato da qualcosa, non la si può innescare da soli.

Cosa ti ha colpito di Emily Dickinson?

L’uso che fa del linguaggio, senza dubbio. La sua solitudine, allo stesso modo, e lo stile di questa solitudine. C’è qualcosa di davvero commovente e, nel senso migliore del termine, divertente. Non è solenne. Se davvero vuoi sapere qualcosa della solitudine, devi diventare famoso. Questo è il giro di vite. Quel genere di solitudine è praticamente insormontabile. Anni fa pensavo che essere famoso sarebbe stata come una piccola vacanza, e che poi sarei tornato alla vita di prima. Ma le persone ti trattano in modo diverso prima che tu te ne possa accorgere. Puoi capirlo dalla meraviglia e dalle preoccupazioni delle persone più care. L’altra faccia della medaglia è che si tratta di una grande responsabilità.

Quanto può essere ingombrante il passato di uno scrittore rinomato?

In molti sono stati testimoni del mio passato, persone che sono scomparse, persone che sono morte, che ho amato. Non ho alcun rimpianto, però, non devo convivere con alcun fantasma. Quel tipo di malinconia non mi appartiene. Nessuna nostalgia. Ti stanno tutti attorno, e davanti: i romanzi che non hanno funzionato, gli amori, i dolori. Eppure tutto ciò ti comunica ancora una forza incommensurabile.

Questo ci porta al tuo interesse per la realtà dal punto di vista storico, per la prospettiva secondo cui dietro il presente di una persona si nasconde l’ombra di tutto ciò che gli è accaduto in passato. James Baldwin è sempre stato indissolubilmente legato al suo passato, e al suo futuro. A quarant’anni suonati hai detto di sentirti molto più vecchio.

Una di quelle cose che si dice a quarant’anni, specialmente a quarant’anni. È stato particolarmente scioccante per me: quaranta. Ed è vero, mi sono sentito più vecchio. Per rispondere sulla storicità, penso che una persona a quell’età cominci a scorgere la propria morte. La vedi arrivare. Non puoi farlo a trenta, ancora meno a venticinque. Ti scontri con la tua mortalità, con il fatto che devi morire e che vivere altri quarant’anni è piuttosto improbabile. Il tempo allora finisce per cambiarti, diventando a tutti gli effetti o un amico o un nemico.

Tu che sembri così tormentato, non lo sei dalla morte?

Sì lo sono, è vero, ma in nessun modo vengo tormentato dalla morte. Finire il mio lavoro mi tormenta, e tutto ciò che non ho ancora imparato. Non serve a niente farsi tormentare dalla morte perché quando verrà, ovviamente, non saremo più vivi.

Quando è uscito Sulla mia testa hai detto al New York Times: «In sostanza, l’America non è cambiata un granché».

In un certo senso sono cambiato precisamente perché l’America non lo ha fatto. Sono stato costretto a cambiare. Nutrivo alcune speranze per il mio paese anni fa, adesso non più.

Sì, prima del 1968 hai detto: «Io amo l’America».

Anche molto prima. E la amo ancora, anche se quel sentimento ha cambiato volto. Credo rappresenti un disastro spirituale pretendere di non amare il proprio paese. Puoi trovarti in disaccordo, puoi essere costretto a lasciarlo, puoi anche vivere tutta la tua vita in conflitto, ma non penso si possa sfuggirgli. Non c’è altro posto dove andare; non puoi tirar fuori le radici per metterle su da qualche altra parte. Non in una sola vita, almeno. Oppure, se lo fai, ti accorgerai precisamente cosa comporta, sapere che le tue radici sono sempre altrove. Se tenti di ignorare quella realtà che ti ha visto crescere, la più immediata, finirai per diventare cieco.

Come scrittore, c’è qualche battaglia che senti di aver vinto?

Quella di diventare scrittore, senz’altro! «Da grande voglio diventare un grande scrittore», lo dicevo sempre a mia madre quando ero piccolo. E ancora oggi, da grande, voglio diventare un grande scrittore.

Cosa dici agli aspiranti che vengono da te con la solita, disperata domanda: «Come faccio a diventare uno scrittore?».

Scrivi. Trova un modo per sopravvivere e scrivi. Non c’è nient’altro da dire. Se diventerai davvero uno scrittore non c’è niente che possa dirti per fermarti; se non diventerai uno scrittore, invece, non c’è niente che possa dirti per aiutarti. Ciò di cui davvero hai bisogno quando sei agli inizi è qualcuno in grado di dirti che c’è da faticare.

Riesci a scovare il talento in qualcuno?

Il talento è insignificante. Conosco molti talenti andati in rovina. Dietro il talento ci sono sempre le solite cose: disciplina, passione, fortuna e, più di ogni altra cosa, perseveranza.

Consiglieresti a uno scrittore che appartiene a una minoranza di consacrarsi a quella minoranza a cui appartiene? Oppure il suo primo obbligo lo deve alla propria realizzazione?

Il tuo sé e il tuo popolo sono due cose indistinguibili, in realtà, per quanto tu possa essere in conflitto con esso. E il tuo popolo sono tutte le persone.

La stanza di Giovanni era in parte il tentativo di rompere con queste divisioni, dimostrando che David poteva essere tanto bianco quanto nero, o giallo?

Senza dubbio, per ciò che concerne le sue vicissitudini, il colore non avrebbe cambiato niente.

Però, andando avanti, in particolare nel caso di Rufus in Un altro mondo, l’appartenenza razziale dei personaggi diviene essenziale per la tua storia.

In quel romanzo nello specifico sì, è importante, ma Un altro mondo si chiama così perché prova a declinare la realtà di un paese in particolare. In Francia la storia sarebbe stata diversa, persino in Inghilterra.

Che rapporto hai adesso con scrittori come Ralph Ellison, Imamu Baraka (LeRoi Jones) ed Eldridge Cleaver?

Non ho mai avuto alcun tipo di rapporto con Cleaver. Mi sono trovato in difficoltà a causa sua, cosa di cui non ho voluto parlare allora e di cui non desidero discutere adesso. Il disagio che ho avuto con Cleaver, tristemente, mi si presentò attraverso i ragazzini al suo seguito, mentre lui mi stava chiamando finocchio e tutto il resto. Ero andato a parlare in una città, poniamo che sia Cleveland, e un paio di giorni prima era stato sullo stesso palco. Dovevo provare a riparare ai danni che credevo mi stesse procurando. Con Soul on Ice mi sentivo come handicappato, perché quello che potevo aver detto in quegli anni riguardo Eldridge era stato preso come una risposta ai suoi attacchi nei miei confronti. Quindi non ho mai replicato, e non ho intenzione di farlo adesso. Cleaver mi ricordava un vecchio ministro battista con cui lavorai per un certo periodo quando salivo sul pulpito. Non mi sono mai fidato di lui, per niente. Quanto a Baraka, anche con lui abbiamo avuto i nostri momenti di burrasca, ma adesso siamo buoni amici.

Vi leggete a vicenda?

Sì, almeno io leggo lui. E quanto a Ralph, non lo vedo da anni.

Non vi siete mai scritti?

No. Ne deduco che a Ralph non piaceva quello che pensava stessi facendo durante la battaglia per i diritti civili. E quindi, non ci siamo più visti.

Se doveste incontravi a pranzo domani, di cosa parlereste?

Sarei felice di pranzare con lui domani, di scolarci una bottiglia di bourbon in due, e di parlare magari degli ultimi vent’anni in cui non ci siamo visti. Non ho niente contro di lui, comunque. E adoro il suo bellissimo libro. Eravamo in disaccordo riguardo le strategie, suppongo. Ma dovevo passare attraverso il movimento per i diritti civili e non rimpiango per niente la mia scelta. C’erano persone che avevano fiducia in me. Qualcosa di molto bello in quel periodo, qualcosa che a star lì mi dava la gioia di vivere, manifestare, fare i sit-in, vederlo con i miei stessi occhi.

Credi che bianchi e neri adesso possano scrivere l’uno dell’altro, in modo onesto e convincente?

Sì, anche se non posso dimostrarlo con schiacciante evidenza. Ma penso all’impatto che hanno avuto rappresentanti come Toni Morrison e altri giovani scrittori. Penso che come nero americano la cosa da fare sia prendere la storia dei bianchi, o la storia com’è stata scritta dai bianchi, e rivendicarla per intero, compreso Shakespeare.

«Quello che la gente scrive nei miei riguardi per me è irrilevante» hai scritto una volta su Essence. Pensavi sarebbe passata inosservata? Non consideri per niente le critiche?

Non è mai completamente vero che non te ne frega un cazzo di quello che gli altri dicono di te, però è necessario non pensarci. Ho passato un periodo assai impegnativo, dopotutto, in cui per una parte della città ero uno Zio Tom e per l’altra ero il Giovane arrabbiato. Fa girare la testa, il numero di etichette che mi sono state affibbiate. Ed è stato doloroso, inevitabilmente, come pure sorprendente, e disorientante, davvero. Mi importa quello che certe persone pensano di me.

Ma non la critica letteraria.

La critica letteraria non può costituire un problema. Idealmente, tuttavia, ciò che un critico può fare è indicare dove sei stato eccessivo o dove poco chiaro. Ma dal momento che ogni opinione pone anche una questione, non è materialmente possibile rispondere a ognuna di esse. Qualcuno potrebbe dire cose spiacevoli, e potrebbero non piacerti, ma cosa ci puoi fare? Scrivere un Libro Bianco, o un Libro Nero, per difenderti? Non puoi farlo.

Hai lasciato spesso casa tua a St. Paul per tornare in America e riprendere i tuoi tour. Ti senti a tuo agio come oratore?

Non mi sono mai sentito a mio agio come oratore, no.

Ti senti più felice dietro la macchina da scrivere?

Be’, senz’altro, sebbene sia stato un predicatore in passato. Cosa che aiuta, nei miei giri.

Puoi dirci qualcosa in più riguardo il tuo rapporto con Richard Wright, sotto la cui egida sei riuscito a ottenere il tuo primo assegno?

Come ho detto prima, ho semplicemente bussato alla sua porta a New York. Avevo diciannove anni. E fu molto gentile. L’unico problema era che in quegli anni ancora non bevevo. Lui invece beveva bourbon. Adesso ti tolgo dall’impaccio di chiedermi sul rapporto degli scrittori con l’alcol: non conosco nessuno scrittore che non beva. Tutti quelli a cui sono vicino bevono. Ma non bevi mentre scrivi. È buffo, perché non è nient’altro che un riflesso, come accendersi una sigaretta. Ti prepari un drink e non ci pensi più. Quando poi torni al tuo drink è rimasta solo acqua. E la sigaretta è finita. Tornando a Richard e al nostro primo periodo di ostilità, che consideravo fosse esageratamente sproporzionato, devo ammettere che quando pensavo di confrontarmi con lui stavo più che altro pensando a Harriet Beecher Stowe e a La capanna dello zio Tom. Ragazzo negro di Richard era allora l’unica rappresentazione di un nero nell’America contemporanea. Una delle ragioni per cui scrissi quello che scrissi era un’obiezione di natura tecnica, che sostengo ancora oggi. Non potevo accettare l’arringa dell’avvocato alla fine del libro. Lo dissi esplicitamente. Penso che sia semplicemente assurdo parlare di un mostro creato dal pubblico americano e poi aspettarsi che questo stesso pubblico lo salvi! Nel complesso, lo trovai molto banale. Dal momento che il pubblico americano aveva creato il mostro, non avrebbero dovuto riconoscerlo. Crei il mostro e lo distruggi. È parte dello stile di vita americano, se vuoi. Comunque per Richard professo il massimo del rispetto, specialmente alla luce della sua opera postuma Ghetto Negro(( R. Wright, Lawd Today, Walker, New York 1963; trad. it. di A.P. Sanavio, Bur, Milano 1972.)). È il suo miglior romanzo, dacci un’occhiata.

C’è una certa ritrosia delle case editrici, oggi, nei confronti degli scrittori neri?

Un’enorme ritrosia, anche se diversa rispetto ai tempi di Wright. Quand’ero giovane la battuta era: «Quanti negri hai nella tua piantagione?». Però se volevi far ridere davvero chiedevi: «Quanti negri nella tua casa editrice?». E qualcuno ne aveva uno solo, la maggior parte nessuno. Ora non è più così.

In che modo ti colpisce il fatto che in molti circoli James Baldwin è considerato uno scrittore profetico?

Non provo a essere profetico, così come non mi siedo con l’intento di scrivere letteratura. La metterei in questi termini: quando uno scrittore vuole buttare giù ciò che vede, deve prendersi tutti i rischi. Nessuno può dirgli nulla al riguardo. Nessuno può controllare la realtà. Mi ricorda qualcosa che si pensa Picasso abbia risposto a Gertrude Stein mentre stava dipingendo un quadro. Gertrude gli disse: «Io non sono così». E Picasso le rispose: «Lo sarai». E aveva ragione.

 

The Art of Fiction no. 78 © The Paris Review, 1984

© Traduzione italiana di Emanuele Giammarco

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