Gianni mi ha svegliato scuotendomi la spalla. L’ha fatto con una gentilezza premurosa, come chi avverte qualcuno che gli è cascato il portafogli. L’estraneità di quel gesto mi ha infastidito.
Mi sentivo l’acido in bocca. Ho fatto uno sbadiglio al sapore di Zacapa, mi sono scrocchiato il collo e grattato la barba, poi mentre stavo per scendere ho riconosciuto il palazzo dei miei.
«Perché…» ho iniziato, fissandolo con gli occhi incollati e massaggiandomi le tempie.
«Perché cosa?» ha chiesto Gianni, buttando giù un colpo di tosse.
Ho fissato i muri ridipinti da poco, carezzando l’idea di dormire nella mia stanza dopo tanto tempo. Ma non avevo più le chiavi, e non potevo svegliare papà a quell’ora.
Gianni fissava l’orologio sul cruscotto. Io quelli così non li ho mai sopportati. Quelli che restano in attesa. Quelli che aspettano la grazia. Erano le tre di notte, ma invece di pretendere una risposta continuava a fissare quel maledetto orario. Sapevo bene che Gianni era sempre stato così, perché avrebbe dovuto cambiare? Ho cercato di essere gentile, in nome della nostra vecchia amicizia. O forse solo per compassione.
«È che io qui non ci abito più da tipo sette anni.»
«Come sarebbe?»
«Sarebbe che io vivo a Bologna ora.»
La sua faccia stupita era quasi patetica. «Scusa, come dovrei arrivarci a Bologna?»
«Volando» gli ho risposto godendomi un colpo di vento improvviso.
Lui ha staccato la mano dal volante e si è girato verso di me. «Ti prego Vale’: è stata una bella festa e tutto, ma io domani devo essere a studio alle otto.»
«Mi sento uno schifo» ho detto cercando di reprimere un rutto. «Comunque hai ragione, ho scordato di dirti che stanotte dormo da una tipa.»
«E dove abiterebbe questa ragazza?»
«Sulla Tuscolana.»
Lui ha sospirato, o forse sbuffato. «Riallacciati la cintura, va’.»
Ha fatto sgommare la macchina, ha controllato due volte che non venisse nessuno e infine si è reimmesso sulla Casilina. Siamo rimasti in silenzio mentre fuori si alternavano le luci dei lampioni e le ombre dei palazzi immersi nella notte. La testa aveva ripreso a ciondolare ma dovevo restare sveglio, così ho chiesto a Gianni una cosa a caso.
«Ma studio di che?»
«Eh?»
«Che lavoro fai?»
«Ah! Consulenza e segretariato da De Paoli.»
«De Paoli chi? Il prof di economia aziendale?»
«Proprio lui, te lo ricordi?»
«Avoglia! È ancora così rompicoglioni?»
«Con l’età è pure peggiorato. Giusto il mese scorso ha cacciato via una stagista perché aveva sbagliato a fotocopiare delle pratiche. Peggio di quella volta che cacciò Tumelli dall’aula perché stava flirtando con una. Te lo ricordi?»
«Tumelli. Chissà che fine ha fatto. E come» e qui ho iniziato a singhiozzare, e questo non era per niente un buon segno. «Come ci sei entrato a studio?»
«Perseveranza, caro mio. Tesi triennale e magistrale con lui – quella carogna mi ha fatto scrivere un mattone da trecento pagine quando ne sarebbero bastate un centinaio, pensa te –, poi apprendistato: anni di notti insonni, e ti assicuro non perché andavo a ballare. Ma ne è valsa la pena, tornando indietro non cambierei una virgola.»
«Sicuro.»
Gianni ha sorriso, aggiungendo qualcosa che non ho sentito perché intanto mi ero messo a fissare gli alberi neri del parco di Centocelle. L’occhio poi mi è caduto sulla traccia numero cinque che scorreva dentro lo stereo. Per qualche motivo il volume era a zero. Avevo tutta l’intenzione di chiedergli che canzoni ci fossero nel cd, però Gianni mi ha anticipato chiedendo che facessi nella vita. Una domanda che ho sentito centinaia di volte, e che puntualmente se n’è tirate appresso altre, una più rognosa dell’altra. Ma non c’è modo di sfuggire a quella domanda. Per quelli come lui è sempre un’informazione fondamentale.
«Hai presente i clown alle fiere?»
Lui mi ha guardato di sbieco e ha risposto che ce li aveva presenti. Allora gli ho detto che trasportavo le bombole di elio usate per i palloncini.
«Trasporti le bombole di elio» ha fatto lui. Non sembrava convinto neanche un po’.
«Sì. Ho un furgoncino rosso con tante bombole e le trasporto alle fiere. Milano, Rimini, Ravenna: me la sono fatta tutta l’Italia con quel Volkswagen.»
«Ah» ha fatto lui. «Non credevo ci fosse qualcuno addetto al trasporto delle bombole di elio per i palloncini dei clown.»
«Be’, pensaci» ho detto agitando le mani per rendere tutto più credibile. «Mica si materializzano da sole. Poi quelli hanno duemila cose a cui pensare, tipo truccarsi, ricordarsi i passaggi per fare il cane, la giraffa… resistere alla tentazione di bestemmiare davanti ai bambini che li prendono a calci o gli tirano il gelato addosso.»
«E capita spesso?»
«Avoglia. Pensa che una volta…»
E così ho continuato per un paio di minuti raccontando una cazzata inventata di sana pianta, come altre volte. Ho preferito la faccia perplessa di Gianni alle domande idiote che sarebbero seguite sentendo le parole ghost writer. La più stupida è stata di quel tizio in pullman. Se sei così bravo perché non scrivi libri tuoi invece di farlo per gli altri? Perché il mondo non è fatto di confettini rosa, macchine nuove e villette monofamiliari. Ecco perché.
«E si guadagna bene?» ha chiesto. «Cioè, puoi permetterti una casa eccetera?»
Avrei proprio voluto chiedergli cosa si nascondesse dietro quell’eccetera; cioè di quanta roba, secondo lui, ha bisogno uno per vivere. Ma non era proprio l’ora per una delle mie solite menate anticapitaliste, e comunque non l’avrebbe capito. Quando mai quelli come lui hanno capito qualcosa delle cose che contano veramente?
Così stavolta gli ho detto la verità. «Sto da dio: divido l’appartamento con due studenti e un nigeriano che di giorno vende calzini e di notte spaccia fumo.»
Gianni è sbottato a ridere e a prendere a pugni il volante. Per qualche motivo anche a me è scappata una risata isterica che m’ha fatto tornare su lo Jägermeister del dopo cena, quando erano iniziati i discorsi a base di come ve la passate, sapete che Mirko e Iolanda aspettano un bimbo, avete visto il derby domenica, io ho votato cinque stelle. Discorsi da over trentacinque ingabbiati in contratti a tempo indeterminato, che per carità ci stanno tutti ma no grazie. Solo a sentirli parlare mi si stringeva un cappio al collo. E intanto ridevamo, non si sa perché.
«Io invece ho preso una casa da queste parti» ha detto Gianni, indicando il palazzo all’incrocio fra via Casilina e via di Tor Pignattara. «Ecco, lì al quarto piano, vedi quella coi rampicanti?»
È stato nell’ospedale che ci stavamo lasciando alle spalle che un anno fa è morta mamma. In fondo era questo il motivo per cui ero tornato a Roma. Per andare al cimitero insieme a papà. Poi avevo incontrato Flavio. Come stai?, tutto bene, domani faccio una cena per il mio compleanno, ci stanno pure gli altri.
Ma invece di dirgli questa cosa gli ho dato una pacca sulla spalla. «Ma bravo, ci siamo fatti una vita seria, vedo. Hai una sigaretta per caso?»
«Nel portaoggetti, sotto gli Arbre Magique. Sono Camel light, vanno bene?»
«Di solito fumo l’American Spirit ma è uguale.»
«American Spirit?»
«Drum biologico, dovresti provarlo. Ha tutto un altro gusto.»
«Me lo segno allora» ha detto facendo l’espressione di chi cerca di memorizzare qualcosa. Poi si è schiarito la gola. «Senti, parlami di questa ragazza da cui stiamo andando: è la tua fidanzata?»
«No, macché» ho risposto aspirando una boccata piena e buttando il fumo fuori dal finestrino. «L’ho conosciuta ieri in treno. È salita a Firenze, parlando è uscito fuori che le sue coinquiline sarebbero state fuori nel weekend, così…»
«Ah» ha fatto Gianni.
«È sveglia, Clio» ho continuato. «Studia storia dell’arte a Roma Tre.»
«Studia? Ma quanti anni ha?»
«Sai che non lo so? Comunque sta preparando la magistrale, per cui penso ventitré o ventiquattro.»
«Ah» ha fatto Gianni.
«Non credo sia fuori corso» ho detto più a me che a lui. «Poi magari lo è, però non credo.»
«Capisco» ha fatto Gianni.
«La tesi è su Marina Abramovich.»
«Sembra interessante.»
Ho gettato fuori il mozzicone, mancando il secchio. «Ma davvero pensavi che fossi fidanzato?»
«Boh, immaginavo di sì.»
«Vade retro, non la voglio proprio una che mi rompe i coglioni tutto il tempo». Poi, fermandoci al semaforo, ho notato il suo sguardo, e solo dopo la fede al dito. «Tu da quanto invece?»
«Sei anni.»
«E con chi?»
«Te la ricordi Caterina?»
Aspetta, ho pensato. Aspetta. Parli di quella Caterina che spompinava i prof per passare gli esami?
«Ma dici la Baldini?»
«Ah, te la ricordi quindi!»
Quella Caterina, Gianni? Quella con cui io e il Fasciani abbiamo fatto una cosa a tre mentre lei era fidanzata con Pallotta?
«E me la ricordo sì. Grandi!» ho detto dandogli un’altra pacca. «Giovanni Angeletti e Caterina Baldini. Incredibili i casi della vita, porca puttana.»
«Non c’ho pensato a invitarti al matrimonio, mi dispiace.»
«Ma sì, tanto sei anni fa neanche ero a Roma.»
«Ah sì? E dov’eri?»
«In Nepal.»
«In Nepal?»
«E magari Gianni Angeletti c’ha pure un figlio.»
Ha composto un due con la mano. «Uno di quattro anni e l’altro di uno e mezzo.»
«Guarda tu che storia. E sei felice?»
«Scherzi? Sono al settimo cielo! Mia madre diceva sempre che niente ti riempie la vita come un figlio, ma io non ci avevo mai creduto finché non è nato Vincenzo.»
Sinceramente non sapevo cosa dire senza scatenare infinite polemiche. Allora sono rimasto zitto.
«Ma parlami di questo viaggio in Nepal» ha continuato lui, «ci sei stato in vacanza? Noi l’estate scorsa siamo stati a Santorini, ma cazzo: il Nepal!»
Le vacanze le fanno quelli che devono chiedere le ferie al padrone. Il mio è stato un viaggio durato tre anni. E la verità è che forse non ci sono mai tornato veramente da lì. Forse sono rimasto a Janakpur con Sunita. Ecco, se potessi a Gianni glielo direi che quello è stato il mio più grande errore; che darei via tutto per svegliarmi di nuovo con lei e meditare insieme. Ma lo sappiamo entrambi che non si può.
In ogni caso ho imparato che le persone come lui amano le risposte positive. Non vogliono pensare a quanto di brutto può accadere nella vita. Preferiscono la sicurezza a ogni costo.
Quindi gli ho detto: «Sì, un bel viaggetto di due settimane.»
«Solo o in dolce compagnia?»
«Con amici. Volevamo andare in Sardegna, sai, ma il Nepal costava di meno.»
«È vero, la Sardegna ormai è roba da ricchi. Ce l’hai qualche foto?»
«Sul pc, ma sta a Bologna.»
«Ah. Peccato.»
«Poi te le mando.»
Intanto eravamo quasi arrivati all’incrocio con la Tuscolana dopo Porta Furba. Altri duecento metri e avrei raggiunto casa di Clio. La chiave grande per il portone, la piccola per l’appartamento; il bagno in fondo a destra, così aveva detto. Dovevo solo ricordarmi di prenderle la bomba alla crema.
«Ma qui non ci abita Giulia?» ho chiesto a Gianni indicando un punto imprecisato fra i palazzi. C’erano un paio di quei negozi aperti tutta la notte, con liquori scadenti e tutto il resto.
«Giulia?»
Mi sono acceso un’altra Camel. «Quella che stava in classe con noi.»
«Ah, Minetti! Da mo che se n’è andata. S’è trasferita fuori Roma qualche anno fa con quel coglione del suo ex. Te lo ricordi, quello che si faceva di coca?»
«Me lo ricordo Daniele, sì.» Mi ha svoltato un sacco di serate.
«Poi si sono lasciati, ora lei sta insieme a uno dei Parioli ammanicato.»
«Buon per lei» ho detto. «Chissà che fine ha fatto Daniele.»
«Ho saputo che l’hanno arrestato quel pazzo.»
«Che ha combinato?» gli ho chiesto. «Si è fatto beccare?»
«Peggio. Praticamente dopo dieci anni lei si era stufata di fare da balia a un ragazzino. Lui continuava a dire che sarebbe cambiato ma non l’ha mai fatto.»
«Giulia è sempre stata una stronza con la puzza sotto il naso.»
Gianni mi ha guardato. «Lei si è laureata con lode in medicina e ora è una pediatra, lui invece era e resta un tossico. Non puoi costruirci niente con uno così.»
«Vabbè, ma quindi?»
«Quindi quando lei l’ha mollato è tornato nel loro appartamento e le ha ammazzato il cane.»
Non lo so perché – non lo so da quale antro del mio cervello è saltato fuori –, ma sono sbottato a ridere fra colpi di tosse secca e singhiozzi. Gianni mi guardava inorridito e non potevo dargli torto. Il fumo della Camel mi si incastrava in gola, continuavo a darmi colpi al petto.
«Scusami» gli ho detto dopo essermi ripreso. «È che l’hai detto in un modo così…»
«Veramente non c’è niente da ridere: lei c’è stata malissimo per questa storia, quando me l’ha raccontato stava a pezzi. Quel cane era tipo un figlio per lei.»
«Hai ragione, sono stato insensibile. Scusami.»
«Tranquillo. Però, magari, non sbottarle a ridere in faccia se la incontri.»
«Promesso. Al semaforo a destra, quando vedi il paninaro dall’altra parte della strada fermati lì.»
Gianni è rimasto in silenzio finché il semaforo è diventato verde, poi ha svoltato a destra. L’ho visto avvicinare la mano allo stereo come per alzare il volume, poi però ci ha ripensato. Ora che eravamo quasi arrivati cominciavo a sentire l’urgenza di una pisciata.
Alla fine ha messo la freccia – anche se dietro di noi non c’era un cazzo di nessuno – e ha accostato.
«Allora buona notte» ha detto.
«Oh, grazie del passaggio. A proposito, quanto ti devo per il regalo di Flavio?»
Lui mi ha guardato fingendo sorpresa. Chissà da quanto stava pensando a quei venti euro.
Ho insaccato le mani nel giacchetto e ne ho tirato fuori qualche banconota accartocciata. Ho preso due pezzi da dieci, li ho stesi per bene e glieli ho dati. Gianni mi ha ringraziato e ha messo via i soldi in un portafogli di pelle.
«È stata una bella serata, dovremmo rifarlo» ho aggiunto. Proprio non lo so come mi è uscito fuori. Forse per illudere Gianni che m’importasse ancora qualcosa di quello che c’era stato fra noi.
«Ma certo. Magari non facciamo passare altri dieci anni, ché secondo me tutto quell’alcol dopo i quaranta non lo reggiamo.»
Non l’ho capito quel plurale: ero io quello in procinto di sbrattare, eppure ha detto non lo reggiamo. Che cazzo c’entrasse lui con me proprio non lo so.
«Ci sei su Facebook?» gli ho chiesto.
«Certo!»
«Domani ti aggiungo allora.»
«Dai. Ci sentiamo.»
Stavo già pensando al culo di Clio, agli occhi verdi che m’avrebbero fissato durante il pompino che m’aveva promesso – dovevo solo ricordarmi di prenderle quella bomba alla crema, sennò potevo pure scordarmelo –, però dovevo togliermi quella curiosità.
«Ma che musica c’è nel cd?»
Lui è sembrato sorpreso, poi ha alzato il volume. «Me l’ha fatto Caterina: 883, Articolo 31 e Lùnapop» ma avevo già riconosciuto la voce nasale e il ritmo sincopato che uscivano dalle casse.
«È sempre forte Max Pezzali, eh?» ha aggiunto.
«Avoglia» ho risposto. Ci siamo guardati un istante ancora, poi ho dato un colpo al tettuccio e ho attraversato la strada per andare da Clio.
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