Pietro è un ragazzino timido e solitario e ha difficoltà a relazionarsi con gli altri. È nato a Milano, figlio unico di una coppia di veneti emigrati nella metropoli all’età di trent’anni. Il padre – un chimico un po’ burbero e spavaldo – e la madre – un’assistente sanitaria dolce e premurosa – sono accomunati dall’amore per la montagna.
«Poi in certi rari giorni di vento, in autunno o in primavera, in fondo ai viali di Milano comparivano le montagne. Succedeva dopo una curva, sopra un cavalcavia, all’improvviso, e gli occhi dei miei genitori, senza bisogno che uno indicasse all’altra, correvano subito lì. Le cime erano bianche, il cielo insolitamente azzurro, una sensazione di miracolo.»
So bene cosa significa una giornata di sole in pianura padana, nelle mezze stagioni o d’inverno, magari dopo un mese intero di nebbia: vera e propria sensazione di miracolo, come Cognetti descrive nelle prime pagine del libro, di resurrezione. Mi piace ricordare che di questo prodigio è stato testimone persino un grossetano, Luciano Bianciardi, che ne La vita agra (Feltrinelli) registra così il felice accadimento:
«Succede a volte che in città arrivi il vento, un vento senza odore e senza nome, perché nessuno si dà la pena di fiutarlo e di chiamarlo in qualche modo. Arriva non sai da dove, anzi da ogni parte, ti ripesca a tutti i cantoni, non ti dà agio di appoventarti. Arriva e spazza via la cupola fuligginosa, e per qualche ora ti sembra di esserti messo gli occhiali, il disegno delle case si fa netto, i lumi a sera brillanti, vedi persino le stelle, e il Monte Rosa dal terrazzino».
Quindi grazie ai genitori, Pietro passa quasi tutte le estati a Grana, un paese alpino di poche anime che «sembrava fatto della stessa pietra grigia della montagna, e le stava addosso come un affioramento di rocce, un’antica frana», e proprio a Grana, spronato dalla madre, riesce a fare amicizia con Bruno, un ragazzino del posto che si occupa del pascolo e delle mucche. Guidato da Bruno, Pietro inizia così a battere la zona, scoprendo ogni giorno qualcosa di mai visto. Si sente come al centro di una storia scritta da Conrad, Twain o London, autori con cui è cresciuto.
Andare in montagna con Bruno non significa scalare le cime: si tratta magari di prendere un sentiero nel bosco, salire di corsa attraverso le conifere e poi, in un punto noto soltanto a Bruno, come se un presentimento lo illuminasse, lasciare la strada battuta per altre vie che a Pietro sembravano di primo acchito inesistenti o quantomeno impraticabili.
Fin dalle prime pagine mi sono reso conto che io quel Pietro lo conoscevo già: l’ultima volta che l’ho visto, se ne stava con la faccia incollata al lunotto posteriore della Panda dei suoi genitori; tornava a casa mentre l’alluvione sommergeva il campeggio in cui aveva trascorso l’estate, spazzava via le roulotte, metteva fine all’amicizia col custode Tito – un montanaro di mezza età che avrebbe voluto come padre. Me l’ha presentato lo stesso Cognetti, nel bellissimo racconto La stagione delle piogge, presente nella raccolta Una cosa piccola che sta per esplodere (minimum fax). E sono contento per Pietro, se lo merita, perché in questa occasione la montagna non è solo un contorno, un’ambientazione, ma il ventre di un’amicizia granitica e sempiterna. Nel racconto La stagione delle piogge il quadro è però caratterizzato dall’incomunicabilità tra i genitori, da una disgregazione familiare prossima, dall’assenza fisica e spirituale di un padre-guida; al contrario di Le otto montagne, dove Pietro cresce in una famiglia calda, solida, affettuosa, e la montagna è parte fondamentale del percorso educativo.
La vita scorre e arriva il momento in cui bisogna togliersi i panni adolescenziali per indossare quelli di qualche taglia più grande. Pietro si allontana per anni da Grana, cerca di costruirsi un futuro in città, deve diventare adulto. Milano, Torino, il Nepal – vaga in solitaria per le otto montagne senza sapere più nulla del suo amico, eppure conservandone lo spirito:
«Mi capitò di lasciare il sentiero, risalire un pendio e raggiungere un crinale solo per la curiosità di scoprire che cosa c’era di là, e di fermarmi senza averlo previsto in un villaggio che mi piaceva, passando un pomeriggio intero tra le pozze di un torrente. Quello era il modo di andare in montagna mio e di Bruno».
Cosa sono le otto montagne? Pietro lo scopre in Nepal, da un vecchio indigeno:
«Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi».
E arriva il giorno in cui gli è chiara l’idea che il suo posto nel mondo è lì, a Grana, sulla montagna più alta di tutte.
La scrittura che ci accompagna è chiara, limpida come i torrenti che l’autore descrive, il tono delicato, quasi sommesso, malinconico. Carver diceva che «le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste», e Cognetti ne è un ottimo esempio. Non solo conosce la montagna come pochi altri scrittori – e quindi sa quel che fa – ma ogni parola sembra scavata nella barma per resistere nei secoli. Tanto che, a un certo punto della storia, mi è parso che Cognetti non ci fosse più, e che fosse la stessa montagna a volermi raccontare un segreto.
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