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Un Proust americano, senza rivali da quando è morto Faulkner.
Il più famoso scrittore non pubblicato d’America.

Sono due definizioni, probabilmente le più note, riferite a Harold Brodkey.

Molto impegnativa la prima, soprattutto se si considera che viene dalla penna di un altro Harold, Bloom – uno che non è solito lasciarsi andare a eccessivi entusiasmi.

Più maliziosa la seconda, che sottolinea il lungo silenzio – ben trent’anni – che seguì al suo fortunato esordio, la raccolta di storie brevi Primo amore e altri affanni (uscita in Italia per Fandango, nella traduzione di G. Rattazzi Gambelli).

Primo amore e altri affanni

Nel mezzo, una manciata di racconti pubblicata sul New Yorker (dove lavorò anche come redattore), l’annuncio di un romanzo destinato a diventare quasi un oggetto misterioso e a non venire pubblicato fino al 1991, alcuni lavori come sceneggiatore e una cattedra alla Cornell University.

Personaggio schivo – larga parte della sua intervista pubblicata su Paris Review ruota attorno alla fama, alle sue seduzioni e ai suoi rischi – Brodkey morì di AIDS nel 1996, lasciando una bibliografia tutto sommato striminzita, se la si spalma su quasi quarant’anni: tre raccolte di racconti, due romanzi, un memoir dedicato alla malattia che se l’è portato via, e poco altro.

E adesso, torniamo indietro.

Torniamo al 1958, alla raccolta che lo rese famoso prima ancora di essere pronto per essere famoso.
In Primo amore e altri affanni ci sono dieci racconti, che condividono alcuni elementi (un accenno biografico, un personaggio in comune, una città) e che però resistono alla tentazione – editoriale, prima ancora che letteraria – a presentarsi come un romanzo; che restano lì, vicini ma isolati l’uno dall’altro come spicchi di uno stesso frutto.

Ne finisci uno, ci pensi un po’ su, e, come diceva Holden, ti piacerebbe che Brodkey fosse un tuo amico per potergli telefonare e chiedergli cosa sia successo ai personaggi dopo l’ultima parola del racconto.

Ci sono una giovane coppia alle prese con le prime esperienze sessuali, due amici che si imbarcano per un viaggio in Europa scoprendo col passare dei giorni di detestarsi e volersi bene allo stesso tempo, neo-madri soffocate dall’ansia di non saper crescere i figli, e madri che dopo averli cresciuti non riescono a smettere di intromettersi nella loro vita.

I repentini cambiamenti d’umore di tutti («Sei un essere orribile, pensò e volò allo specchio, ma no, la sua faccia era sempre la stessa, dolce, gentile e infinitamente calma»), la costante preoccupazione per l’immagine che danno di loro stessi, l’instancabile altalena emotiva tra l’amore e gli affanni (sorrows nell’originale, parola che dice forse qualcosa di diverso, qualcosa in più di quella scelta per l’edizione italiana) li fanno apparire frangibili e forse proprio per questo così vivi, di quella presenza che spetta solo ai personaggi letterari davvero riusciti.

E quell’amore, poi, declinato in forme più oblique di quelle che riguardano i rapporti familiari o di coppia; basta forse seguire gli indizi, seminati qua e là nei racconti, per raggiungere una concezione di amore differente, più ampia e inclusiva, capace di abbracciare con nostalgia anche due robinie o una particolare gradazione di mattoni rossi.

Non sono mai stato bravo a trovare aggettivi per descrivere la prosa di qualcuno. Mi sembrano sempre tutti parziali, limitanti, a volte anche inconsapevolmente comici, come quelli che usa il sommelier troppo fantasioso – o dai sensi sviluppati oltre le umane capacità.

Quella di Brodkey, se proprio qualcuno mi costringesse a definirla, mi pare allo stesso tempo densa e trasparente.

Volendomi spingere un passo più in là – e fare come il sommelier troppo fantasioso – mi fa pensare alla resina che intrappola un insetto. Per quante mosche vive tu abbia visto, vederne una lì, cristallizzata e immobile, te la fa apparire diversa. Ed è un po’ quello che succede con i sentimenti di cui parla Brodkey, che sono universali e quasi banali nella loro quotidianità, eppure acquistano sfumature a cui non avevi mai fatto caso.

Dice Brodkey, nell’intervista a Paris Review di cui sopra, che spesso un editor bolla un personaggio come troppo vago, e che questa notazione maschera il timore che il personaggio non venga capito dal lettore che comprerà il libro.

Si tratta di un’intrusione a cui bisogna resistere, continua Brodkey, e pare che a lui questo sia riuscito piuttosto bene se si considera quanto sia difficile predire cosa un personaggio farà nel paragrafo successivo, la moltitudine di stimoli contraddittori che ne guiderà le reazioni.

Non sembra esserci spazio, qui, per un personaggio che sia monoliticamente arrogante, o insicuro. Esistono però l’arroganza e l’insicurezza, miscelate e in continua lotta tra loro.

Siamo fatti così, diceva quel cartone animato.

Siamo proprio fatti così.

Leggendo Primo amore e altri affanni viene il fondato sospetto che Brodkey, come il personaggio di uno dei racconti, molto semplicemente creda nella Bellezza; che sia in grado, come un altro personaggio, di scorgerla anche nel più piccolo particolare («un colore, il gesto di saluto di una bella donna, un’automobile, il modo in cui ondeggiavano i capelli di una ragazza»). E infine, che al contrario di quest’ultimo personaggio, davanti alla Bellezza non resti senza parole, ma anzi trovi quelle giuste per distillarla e comunicarla in una forma, come dire, pura.

Ed è molto, molto difficile non lasciarsi contagiare dal suo sguardo; almeno per un po’, prima che anche la nostra altalena inizi la sua discesa, e sia di nuovo il momento di quel che bello non è.

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