Certi beveraggi presentano questa particolarità: perdono il loro sapore, il loro gusto, la loro ragion d’essere, quando non li si beve nei café. Da un amico, a casa propria, divengono apocrifi, come grossolani, quasi sconcertanti, e così gli aperitivi. Chiunque – in caso non sia un alcolista – capisce che l’assenzio, se preparato in sala da pranzo, non soddisfa il palato, è sconveniente e fatuo. Tolti dal loro ambiente essenziale, i derivati dell’assenzio e dell’arancia, i vermut e i bitter feriscono per la brutalità del loro sapore ardente e forte. E chi narrerà del liquido orrore di tali misture! Servite in squallide bettole o in opulenti café, queste bevande hanno il sapore dei più temibili venefici. Anche se affinato dall’anisetta, ammorbidito dall’orzata o dalla resina, addolcito sciogliendovi dello zucchero, l’assenzio odora comunque di sali di rame, lascia sul palato lo stesso gusto di un pezzo di metallo succhiato a lungo e col brutto tempo. Gli amari sembrano estratti di aloe, irrobustiti dal succo di coloquintide e carichi di fiele; i bitter ricordano delle acque di Botot mal riuscite e rese aspre dalla macerazione di quassia e di nerofumo; i malaga non sono che salse di prugne troppo cotte e abbandonate lì per troppo tempo; i madera e i vermut sono vini bianchi imputriditi, aceti trattati con gommagutta e aromatizzati con chissà quale infame decozione di piante!
E pure questi aperitivi, che tolgono l’appetito – tutti quelli a cui hanno rovinato lo stomaco lo confessano –, davanti a un tavolino asciugato male, di marmo, finiscono sempre per imporsi a quegli imprudenti che li degustano almeno una volta. Inevitabilmente questi ritornano di nuovo, ogni giorno alla stessa ora, e consumano corrosivi che potrebbero comunque procurarsi, di qualità meno nociva e a prezzo più basso, dai mercanti, e assaporandoli seduti più comodamente, a casa propria. Hanno la mania del luogo pubblico, però: è qui che comincia il mistero del café.
Nell’immensa popolazione di Parigi, asservita, dannata da questa abitudine, ne esistono di parecchie categorie.
Alcuni frequentano regolarmente un certo café per intrattenere una clientela che va là a dissetarsi, per piazzare degli ordini o per preparare con altri habitué alcuni degli speciosi furtarelli che la lingua commerciale definisce «buoni affari».
Altri ci vanno per soddisfare la propria passione per il gioco, spingendo palle rumorose sul prato raso di un biliardo, o muovono pungenti tessere di domino, chiassose pedine di tric trac oppure sporcano di grasso, litigando fra loro, carte silenziose.
Altri fuggono in queste riunioni la malinconia di una vita matrimoniale in cui la cena non è mai pronta, in cui la moglie borbotta sopra un bambino che strilla.
Altri vengono semplicemente per ingurgitare i vari contenuti di numerosi bicchieri.
Altri ancora cercano persone rassegnate sulle quali riversare le chiacchiere politiche di cui sono carichi.
Infine altri, scapoli, quasi si rifiutano di consumare a casa propria dell’olio, del carbone, un giornale, e provano a fare economia, indugiando in eterno davanti a una consumazione, dal sapore indebolito da caraffe d’acqua.
Chi non li conosce? Sotto diverse livree da café, questi habitué sono tutti, ricchi o meno che siano, di una medesima povertà intellettuale: uguali i negozianti scappati per un’ora o due dalle loro boutique, uguali i commercianti fedeli alle vicine osterie dei boulevard, uguali gli intermediari che raccattano affari analoghi dietro la Borsa, uguali i giornalisti alla ricerca di articoli, uguali gli artisti bohèmien a caccia di soldi, uguali gli impiegati gonfi di lamentele; tutti che serrando gli occhi nel fumo si cercano fra loro, mentre il cameriere che chiamano per nome fugge via. Una volta accomodati, fumano, sputano fra le proprie gambe, si scambiano idee senza originalità fra due partite a carte. Una certa cordialità diffidente si manifesta fra gente dello stesso campo; una sorta di cortesia commerciale disciplina questo amalgama umano, a proprio agio lontano dalle donne. I mediatori in beni mobili fanno tuttavia eccezione; entrano nei loro café durante l’apertura della Borsa, non dicono né buongiorno né buonasera, non si salutano neppure, chiacchierano senza rivolgersi a un interlocutore preciso, bevono un sorso di fango verde e, senza nemmeno portare la mano al cappello, si accalcano ed escono senza chiudere la porta.
L’attrattiva che i café esercitano su questo genere di habitué è chiara, è fatta di progetti in ballo, bisogno di lucro, riposo ebbro e stupide gioie. Eppure oltre a questi habitué, la cui psicologia è infantile e la cui cultura intellettuale è inesistente, ve ne sono altri su cui agisce un’influenza dispotica: habitué ricchi o benestanti, scapoli impenitenti senza una relazione da cui fuggire, gente sobria che detesta il gioco, che non parla affatto, che legge appena i giornali. Sono i cultori disinteressati, gli habitué che amano i café, al di là di qualsiasi preoccupazione, al di là di qualsiasi profitto, per quello che sono [oppure «il café in sé, aldilà…].
Questa clientela si raccoglie fra vecchi, soprattutto fra studiosi e artisti, se non addirittura fra preti. Inevitabilmente gli eccentrici e i maniaci abbondano in questa piccola casta di individui riuniti isolati in un’unica passione. A osservarli, si guardano di sottecchi, senza il desiderio di conoscersi, ma hanno la benevolenza provvisoria dei complici. Ciascuno di loro ha adottato un posto che non lascia più e, di tacito accordo, tutti si siedono davanti al proprio tavolo prediletto, si passano la caraffa d’acqua ghiacciata e i giornali, e si salutano sorridendo, poi indossano una maschera burbera per prevenire approcci cortesi e delle avance. Involontariamente, guardano l’orologio, constatano che il vicino di solito così puntuale è in ritardo, provano un certo sollievo quando arriva, una vaga apprensione se non viene. Quasi si preoccupano, non per la persona in sé, ma per il posto che occupa vicino a loro, per la sua figura la cui assenza li contraria, per l’accessorio che essa rappresenta in questo café, il cui ambiente fatto di mille dettagli si disgrega se uno di questi si modifica o manca.
Talvolta, quando per parecchi giorni e per ragioni di sicuro impellenti il vicino non si presenta, l’habitué si azzarda, quando paga la consumazione, a chiedere sue notizie al cameriere – e se questo sconosciuto poi ritorna, gli fa un inchino, poi si concentra, tacendo la preoccupazione che questo ritorno, desiderato da tutti, alleggerisce.
Va da sé che questi clienti eccezionali non si riuniscono né nelle birrerie affollate da persone trasandate e ammorbate dal fumo della pipa, né nelle osterie dei commercianti o nei café di gala in cui questi eccezionali clienti si radunano. Hanno bisogno, loro, di café speciali, café in cui sopravvive la tenuta antiquata delle epoche passate, café in cui lavorano immutabili camerieri che, a frequentarli, si scolorano e che per servire meglio, per piaggeria, si fanno persino più vecchi.
E di questi café d’annata, questi café impassibili ai tumulti del secolo, ne esistono a Parigi, sulla riva sinistra della Senna dove i quartieri emanano un intimo sentore clericale, antico e dolce. È sul limitare del sesto arrondissement, popolato di preti e di rilegatori, di venditori di immagini religiose e di librai, che questi habitué si concentrano e modellano a propria immagine le osterie in cui non si gioca, in cui si parla appena, in cui ci si comporta un po’ come in un salotto antiquato di un vecchio vedovo.
Il più curioso, il più tipico di tutti si trova in rue des Saints-Pères, all’angolo con rue de l’Université, non lontano dal lungosenna. Come una premiata ditta, che accoglie a prezzi esosi un ristorante con cucina raffinata in una sala a pannelli bianchi e oro, tappezzata di stoffe di damasco verde, in stile Impero, il café Caron si estende lungo una sala un po’ scura, propizia agli occhi stanchi che, come la stanzetta in cui si mangia, è bordata da filetti dorati su fondo bianco. Le pareti sono rivestite da specchi, separati fra loro da sottili colonne piatte, a righe d’oro. Tutta la sala è bordata, dietro i tavoli di marmo, da divani di liso velluto amaranto.
Vicino a una scala a chiocciola che conduce al deserto di un piano sempre vuoto, sotto una finestra a occhio di bue, un bancone in mogano ornato da colonne a capitelli di rame e da una mitologia da secrétaire stile Impero, una Cerere di rame su un carro scortato da donne agghindate da stoffe a cilindri e a pieghe che danzano su un piede, con le braccia in aria, è sormontata dal libro contabile corrente su cui, tra due vasi disargentati, una signora in nero allinea le identiche ricette che ogni giorno vi mette.
Di primo acchito, questo café non sembra diverso dai buoni vecchi circoli di provincia; ma la sua clientela che è vecchiotta e bizzarra, e che non esala il pettegolezzo né l’ozio meschino di una provincia, ha influenzato la fisionomia e segnato di un’impronta particolare la senilità dei suoi elementi.
Qui si rivelano abitudini ormai scomparse; i camerieri canuti, che esercitano da lungo tempo il mestiere, servono in silenzio, vi ringraziano della mancia, vi mettono il cappotto, vi precedono all’uscita, aprono e chiudono la porta, ringraziandovi di essere venuti. Non appaiono strane, queste maniere, in un’epoca in cui tutti i camerieri dei café non rispondono quando li si chiama o fanno versi destreggiandosi con le caraffe e le tazze? In cui fanno piroette con i piatti e i bicchieri, e fuggono quando si domanda loro un giornale?
Come i camerieri che sembrano più vecchi della loro età, le bottiglie dei liquori, ovunque così appariscenti, in questo café si addolciscono, smorzano le loro etichette sgargianti, invecchiano senza attirare lo sguardo, sul tavolino su cui bivaccano.
Solamente là, riunite, e facendosi valere in un gruppo non allineato sulle mensole, fanno gentilmente risaltare le loro forme diverse, quasi femminili, quasi umane: assenzi ricoperti da un cappuccio d’argento e incisi da una croce rossa, con il nome di Pernod su fondo cobalto; amari Picon avviluppati come le domestiche di casa Duval, dal collo ai piedi, nel grembiule bianco della loro etichetta; flaconi di sciroppi e di resine dai colli bitorzoluti, dal busto coperto dal tovagliolo colorato di una piccola etichetta; bambinaie con pettino di carta rossa e grossi seni, piene di menta verde; comari dal ventre rotondo per il curaçao; ragazzine brune e nude, ornate da un pampino al basso ventre, giovinette grandicelle, senza petto e senza fianchi, riservate alle presuntuose imposture dei raffinati champagne e dei grandi cognac!
Ed è in questo ambiente accogliente, dai toni tranquilli, che bisogna osservare il vero habitué di cui ho parlato, l’uomo libero che va al café senza interesse per il gioco poiché là non si gioca, né per gli affari, poiché nessun commerciante lo frequenta, né desiderio di conversazione, poiché là quasi non si parla, senza nemmeno il bisogno di fumare la pipa, poiché l’uso della pipa è vietato.
Molto poco frequentato alla sera, è quasi pieno dalle cinque alle sette. Al fondo, spesso, due giovani preti che bisbigliano bevendo un vermut annacquato; talvolta un altro prete più anziano, con le spalle larghe, legge il Corrispondant e prende appunti. Si fa prossimo a una testa socratica, con un naso ad asso di fiori, baffi grigi a spazzolino, occhi liquidi, tamponati, che guizzano su una faccia ruvida punteggiata di lentiggini e natte, una faccia gialla da mongolo. Obeso, ondeggiante malgrado il ventre stretto in pantaloni a fisarmonica, vestito con abiti sgualciti e unti, con in testa un gibus sbiadito di cui si vedono le molle, si accascia sulla panca, toglie da una cartelletta in tessuto cerato un manoscritto asiatico e, piegato in due sul tavolo, aspirando da un bocchino in gesso che imita la schiuma, sbuffa, solleva la testa, prepara lungamente il suo assenzio come se fosse un bagno di Barèges, beve un sorso, fa delle smorfie, aggiunge dell’acqua, tira su i pantaloni, scarabocchia, con una matita di cui inumidisce la punta, sui margini del manoscritto su cui tamburellano le sue dita.
E vicino a quest’uomo che deve essere un professore o un istitutore alla vicina Scuola di scienze orientali, spunta fuori da una massa di capelli bianchi la testa di un dotto ebreo; con la sua barba dritta, appuntita, i suoi occhiali rotondi, la sua calotta di velluto nero, si direbbe, se portasse la facciola bianca, un antico rabbino. Costui beve una tazza di café e sogna, senza muoversi, gli occhi persi nel vuoto, per delle ore; poi si toglie la calotta, la immerge nella profondità di un’immensa tasca e, molto educatamente, salutando a voce bassissima con uno di quei vecchi cappelli neri allargati come dei vasini per bambini, scompare sempre nella via, a sinistra. Membro di una delle sezioni scientifiche dell’Istituto, non si accanisce, diversamente da quanto supponevo, sul testo accomodato del Talmud, ma evoca senza dubbio, sulle pareti della sala, un salterello di segni algebrici, decanta i numeri che scorrazzano davanti a lui, in un miraggio di scarabocchi illeggibili, gli uni sotto gli altri. E nel momento in cui esce, appare sulla soglia una testa porcina, un grugno che si muove fra due occhietti furbi, al di sopra di una bocca molto grande con labbra grosse ed entra un vecchio dalle spalle larghe da borgognone, l’aria accomodante e canzonatoria, golosa e spilorcia. Costui porta ancora il colletto montante, la cravatta bianca a tre giri, l’antica gorgiera, fissata sul davanti con un piccolissimo nodo, e sfoggia la redingote degli avi, la redingote verde del portiere. Depone con cura l’ombrello rosso a scatto che porta sempre con sé e si fa servire il bitter speciale della casa, il bitter da esportazione olandese. Professore di diritto feudale, inquisitore dei capitolari e dei diritti consuetudinari, questo giureconsulto di nome Coquille scrive sui giornali religiosi degli articoli smisurati, pii e pesanti. Con un gesto sprezzante, respinge i fogli che i camerieri portano solleciti, ritira la testa nel collo, sonnecchia o pensa, tamburellando talvolta la pancia tonda del bicchiere con le dita a spatola. Talvolta, fa delle smorfie con un sorriso deferente, mentre Eugène Veuillot viene a sedersi vicino a lui e ride, guardandolo profondamente negli occhi chiari. Altre volte, con un traduttore di Walter Scott impiegato presso la casa editrice Didot, un ometto grassottello e gelido il cui cranio è ecclesiasticamente contornato da capelli bianchissimi, cavilla e il suo grugno si sbigottisce gioiosamente, mentre l’altro, succhiando un piccolissimo sigaro, risponde abbassando lo sguardo, con un tono dotto.
Qua e là persone adorne che leggono giornali e riviste, bevono tutte dei bitter, e poi, in fondo al café, una coppia misteriosa.
Un uomo e una donna ancora giovani. L’uomo, una figura da ufficiale – uscito dai ranghi – allungato a destra dalla «O» maiuscola di un monocolo; la donna, una borghese senza enfasi e senza smancerie, forse gentile. Appena seduto, l’uomo spiega un rotolo, estrae dei disegni o delle stampe, e li guarda a lungo, attorcigliandosi i baffi. Poi, una parola esitante, a voce bassissima, alla sua compagna che li scruta e li ripiega; allora senza più parlare l’uomo si allunga, a gambe tese, il cappello nero dai bordi piatti, a forma di portaburro, in testa, le mani nelle tasche, e fuma una sigaretta con gli occhi al cielo, mentre la donna versa dell’acqua ghiacciata nei bitter. Sono collezionisti o mercanti? Ma se acquistassero e vendessero disegni e stampe, almeno uno dei due rimarrebbe al negozio, e come immaginare, d’altronde, collezionisti che trovano affari tutti i giorni? – Come sono venuti, silenziosi, così partono, sottobraccio, una coppia unita che si ama, l’uomo che rumina non si sa che, la donna che sorride di un sorriso vago.
Ecco gli habitué di questo café, ai quali si può aggiungere una sorta di scatola da tabacco, di grosso yankee muto che si assorbe nelle nuvole di fumo prodotte dal tronco d’albero che ha in bocca; poi, davanti a una resinosa poltiglia grigio verde, il triste paesaggista Harpignies che sonnecchia, congestionato, su delle illustrazioni; infine, un uomo più giovane, pallido e secco, con capelli color polvere, spettinato, con un naso a sciabola turca, la barba bionda, e con occhi che, sotto folte sopracciglia, esplorano i vicini, mentre le magre dita arrotolano macchinalmente le sigarette che si accende.
Un anno, questo ambiente placido si rattristò, emanò odore di ospizio, puzzò di Bicêtre; un vecchio emiplegico e rimbambito veniva accompagnato da una domestica che lo faceva sedere, tagliava del pane in una tazza di caffellatte, poi se ne andava e tornava a prendere il suo padrone dopo un’ora.
Questo sventurato era sinistro. Trasportato da momenti di rabbie silenziose, sollevava tempeste nel suo café, che sferzava bofonchiando con le fettine di pane. Che veniva a fare là, quando, senza muoversi, avrebbe potuto bere a casa sua da una scodella simile l’acqua salmastra? Nessuno lo seppe mai.
Si assentò, non venne più, e tutti pensarono che fosse morto.
Sparito così un tipo dei più bizzarri, un ometto, gottoso, con la testa nelle spalle, vestito con qualsiasi tempo con una mantella e un cappello moscio. Aveva una faccia barbuta, sormontata da un lungo cranio, che sembrava lucidato al siccativo, uno sguardo pungente e sulla difensiva, una fisionomia attenta e cattiva. Cenava nella sala del ristorante, fra le quattro e le cinque, e rientrava nella sala comune, tenendo un pezzo di pane. Venivano portati allora un piatto bianco su cui posava il sigaro, poi una tazza di caffè e una caraffa.
In piedi, misurando il pavimento da un capo all’altro, scioglieva la cravatta e sbottonava il gilet. Andava quindi a sedersi, degustava il caffè, vi sbriciolava dentro il pane, mangiava, vuotava poco per volta la caraffa nella tazza, riaccendeva il sigaro che si spegneva. Reclamava infine un bicchiere e vecchi giornali che riduceva in strisce con cui asciugava le dita che immergeva nell’acqua. I camerieri lo chiamavano «signor conte», e subivano sorridendo delle sgarbataggini che biascicava con voce balbettante, facendo scorrere sulla fronte la pelle scivolosa, come fosse insaponata all’interno, del cranio.
Questo vegliardo trasandato, vestito con abiti sordidi, possedeva ottantamila lire di rendita e alloggiava in un albergo vicino, dove era odiato per le sue esigenze. Era italiano, conte, ed era stato camerlengo segreto di Papa Pio XI ed esiliato dal cardinale Antonelli; rientrato nelle grazie, è partito di recente per Roma dove, sessantenne e maniaco, ha sposato una giovane donna di diciotto anni, che deve trascinare nei café con la sua mantella.
Ha lasciato qui una sorta di leggenda. Florentin, il vecchissimo cameriere che ha sopportato così a lungo le sue acrimonie e i suoi capricci, perde ogni solennità, ringiovanisce, si risveglia quando ne parla.
Anche supponendo che questo vecchio diplomatico fosse a Parigi una delle spie più astute del Vaticano – così almeno correva voce – non era di certo in questo café che poteva carpire dei preziosi segreti. Allora, perché ci veniva? Ma perché quelle persone che con cui stava gomito a gomito, tutti i giorni, ci venivano regolarmente, anche loro? L’attrattiva di un bitter rigenerante, cordiale, sicuro, non basta per spiegare questa abitudine, tanto più che fra questi habitué molti non assaporavano affatto le delizie corrucciate di questo amaro rosato.
In una delle sue boutade riportate dal signor Bergerat, Théophile Gautier afferma che il fascino dei café è triplo. – Innanzitutto soddisfa, diceva, un bisogno di vita pubblica, e si sostituisce alla vita famigliare di cui si è stanchi. – Poi il café è il tempio del dio Tabacco, ed è là, e non altrove, che si fuma bene. – Infine, aggiungeva, la sua seduzione non sta che nel gusto dell’abbrutimento attraverso il bere.
Motivi come questi mi sembrano applicabili solamente agli ubriaconi e agli stolti. Sono, in ogni caso, sussidiari. L’attrattiva delle folle su certe persone può essere effettivamente dimostrata, e l’orrore della solitudine esiste; ma non è la stessa cosa per il tabacco o per l’assenzio o per i vermut; tutti fumano una sigaretta a casa propria e non hanno alcun bisogno dell’odore di un’osteria per aspirarla. E fra gli habitué, quante persone sobrie ci sono e che bevono senza abbrutirsi, come il buon Gautier!
Il contrario sarebbe forse più corretto. L’habitué intelligente, colto, inconsueto, ne convengo, quello di cui parlo e il solo che sia interessante, grazie alla sua stessa cultura, ha bisogno di osservarsi, di raccogliersi in se stesso, di restare solo per alcuni minuti, lontano da amici, se è scapolo; lontano da sua moglie, se è sposato. Questo diversivo dalla sua vita, lo assapora in un’atmosfera quieta, su un argine propizio, in questo café morto. D’altronde, persone così sono visibilmente delle persone molto ben educate, ma non amano la gente. Il loro modo di vestire e un certo lasciarsi andare lo rivelano. Forse la soluzione dell’enigma sta là. Questi habitué trovano una specie di salotto, ma un salotto in cui non si è costretti ad agghindarsi, a parlare, a subire le chiacchiere estenuanti delle salottiere. Essi realizzano senza dubbio l’ideale di poter sognare e viaggiare in pace, lontano, nel tiepido ambiente di una silenziosa compagnia decorosa.
Si deve credere, tuttavia, che questa clientela ristretta di sognatori non basti a far vivere i café che frequentano, poiché il café Caron è morto di miseria ed è stato ovviamente sostituito a rue des Saints-Pères da un bar di basso livello; i suoi habitué vagarono per giorni, non sapendo più che fare, poi emigrarono in un luogo quasi simile, seppure rovinato da un elemento militare, al café d’Orsay, situato all’angolo fra rue du Bac e il lungosenna; questo café era già moribondo quando arrivarono e gli diedero il colpo di grazia; un ineluttabile fallimento lo travolse; fu la fine di tutto. E da allora l’anima degli habitué è disorientata.
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