«Fatteli da solo, gli immaginari; fatteli come vuoi, fatteli con chi vuoi, fatteli infiniti.»
La Stanza Profonda di Vanni Santoni
«…»
C’è un passaggio nella Stanza Profonda, l’ultimo libro di Vanni Santoni pubblicato da Laterza, che vede il protagonista (Tu? Il narratore usa la seconda persona singolare) partire per l’America, diretto al Tlaloc Rising, un festival musicale in mezzo al deserto, insieme ad altri due personaggi, il Paride e il Silli, in occasione dell’addio al celibato di quest’ultimo. Durante la traversata americana, il Silli propone una deviazione: andare a Lake Geneva a trovare Gary Gigax, uno degli ideatori di Dungeons & Dragons, il gioco di ruolo cartaceo che li aveva fatti unire e portati giù, nelle profondità della Stanza.
I tre avanzano in un paesaggio che si fa sempre più residuale, i cui contorni diventano a ogni nuovo passo più fantasmatici, raggiungono la casettina sperduta di Gigax e riescono a farsi accogliere al suo interno, non prima di superare una prova preliminare – per attirare l’attenzione del proprietario mostrano alla piccola videocamera del citofono la woodgrain box, un’edizione di D&D da veri adepti. Consumati i dovuti convenevoli, i membri della compagnia appena formatasi si inabissano nella WARGAME ROOM, niente altro che la Stanza Profonda di Gigax – del creatore del gioco, di chi ha scritto le regole –, si sistemano intorno a un tavolo, indossano le loro schede del personaggio – usano quelle precompilate dei personaggi di base, quindi quelle archetipiche – e infine, dopo una necessaria introduzione allo scenario, cominciano il gioco vero e proprio, descritto, unicamente, mediante tre segni: i puntini di sospensione.
«La storia di questo medium è quella delle centinaia di milioni di campagne svoltesi in stanze come questa, che nessuno ha registrato.»
Lo troviamo scritto pagine prima ed è il motivo per cui quello che succede di preciso all’interno della/e Stanza/e Profonda/e, in particolare di quella situata nel sottoscala di un paesello toscano, non viene mai descritto, se non per accenni, sommi capi, parole catturate di sfuggita o brevi schegge narrative. Non avrebbe senso descrivere il gioco, o meglio, il gioco non consiste nella successione delle giocate, dei lanci di dadi, dei tiri salvezza superati, persi o delle invettive – sempre numerose – scagliate contro il Master; il gioco è ciò a cui si partecipa, che si va creando insieme, nel momento stesso in cui vive. L’unico tempo del gioco è il presente. Non esiste in altri tempi o in altri spazi.In questa sua unicità risiede la potenza demiurgica: se il gioco fosse replicabile e l’esperienza vissuta prefabbricata, standardizzata, non potrebbe allora generare immaginari; perché tale è la tesi di fondo perseguita da questo ibrido narrativo-saggistico.
Il gioco squarcia il reale, lo fende come una lama impugnata da più mani, perché il colpo lo muovono tutti, giocatori e Master, con ruoli diversi ma su un livello paritetico; nella fenditura che si viene a creare germogliano gli immaginari, si dipanano avventure in uno sharing che anticipa di decenni l’avvento dei vari social, Cloud o Drive – la stessa scheda del personaggio cosa altro è se non un profilo prima ancora di Facebook?
Ci sono echi di Baudrillard piuttosto forti che risuonano negli interstizi della Stanza Profonda e infatti uno degli acceleratori creativi di D&D e dell’esperienza del gioco è l’esiguità dei supporti materiali attraverso cui si esperisce: matite, gomme, carta. Il fuoco è diretto verso la fantasia e i sentieri che questa percorre quando si ritrova slegata in mezzo al nulla: nel gioco tutto deve essere creato da zero; mondi devono essere generati, città erette e dungeon scavati; inoltre, presupposto fondamentale, tutto deve essere abbastanza saldo da riuscire a supportare fantasie, identità, percorsi neurali diversi.
Provate a pensare alla scena di Matrix – il primo seminale capitolo della saga delle sorelle Wachowski, del 1999 – in cui Neo e Trinity si stanno preparando per andare a salvare il loro mentore, Morpheus, e, una volta compiuto l’accesso alla matrice, evocano. William Dafoe, noto attore, sostiene che il cinema faccia rivivere, il teatro evocare; nella Stanza Profonda si dice che quando si vuole descrivere il gioco a una ragazza, con l’intento di fare colpo, le si dice che «si tratta di una specie di teatro». Se più indizi fanno una prova si dovrebbe cominciare a sospettare qualcosa… un’armeria, dal nulla, dalla quale si riforniscono di ogni arma che immaginano utile allo scopo.
Neo e Trinity, in quel momento, stanno giocando.
D&D concede le medesime possibilità demiurgiche, lavorando in maniera opposta: non si avvale di macchine imponderabili, capaci di calcolare universi vivibili, ma sottrae il superfluo; leva costumi, stage, strumentazione specifica, prosciuga addirittura la carica agonistica, solitamente presente nei giochi come nelle discipline sportive, perché non si vince né si perde in D&D, quando va bene si sopravvive, nel migliore dei casi tutti insieme: ci rimangono solo una matita per creare, una gomma per cancellare – o per cancellarsi – e un foglio in cui viaggiare.
In questi termini La Stanza Profonda descrive il gioco di ruolo cartaceo come una reale controcultura, definendosi così testo gemello del precedente lavoro di Santoni per Laterza, dedicato al mondo dei ravers, Muro di Casse: come può un qualcosa di gratuito, non competitivo, liberamente accessibile – a patto di sottostare alle regole di gioco che altro non sono se non la forma indispensabili per definirlo –, proteiforme, essere accettato in una società retta dal profitto, divisa da barriere di classe, genere, nazionalità, che incita all’ottimizzazione sintetica mediante categorie (inserire tags all’articolo, prego)?
«Guarda che il gioco era più reale del fuori. Presente Plotino?»
Chi cerca nella Stanza Profonda un revival nostalgico, un’ulteriore incarnazione del meme Non ce la faccio, troppi ricordi – come se già non ne fossimo soverchiati – l’esaltazione di un’infanzia idealizzata o di un passato che non è mai esistito, verrà deluso. Quello compiuto da Vanni Santoni è un tentativo di aprire il gioco sceverandone le diverse costituenti, così da comprenderne la natura e il portato.
Si cerca di indagare la dimensione rituale della pratica: quando il protagonista sistema la Stanza in vista di un’ultima, definitiva sessione, ogni gesto, dall’organizzazione delle schede alla disposizione di matite e pennarelli sul tavolo, è descritto con meticolosità esiziale e gravità liturgica.
«Non fumi più da anni, ma dal pacchetto di Chesterfield dimenticato sullo scaffale ne tiri fuori una, la accendi e inspiri, rimirando quanto fatto, e vedi che è cosa buona.»
Ci si appresta a varcare la soglia – per usare una terminologia cara a Van Gennep –, a entrare in un’altra dimensione. Non è un caso che per accedere alle Stanze sia sempre necessario scendere, inabissarsi, fare ritorno in noi stessi fino ad accedere a quel serbatoio condiviso di immagini archetipiche di junghiana memoria. Perché squarciare il reale è sempre una cosa maledettamente seria.
Si incede così verso la fine, scorrendo parole transitorie, da pronunciare al crepuscolo, in un tempo dai connotati progressivamente meno realistici che va a dissolversi nel non-tempo – come del resto sono non-luoghi quelli percorsi dal trio di ragazzotti toscani durante la traversata del deserto assoluto americano.
Cosa è più reale e cosa no? Quanto è profonda la breccia? Siamo proprio sicuri che il tempo non sia già collassato al suo interno? Il finale, venato di surrealismo kafkiano – Il processo è un riflesso nitido nelle ultime pagine – non risponde a nessuna di queste domande, lasciandoti, lettore sventurato, in balia di troppe domande. Allora chiudi il libro, ti perdi nel soffitto bianco con sguardo vuoto, poi lo riapri, lo scorri alla ricerca di un appunto che sai di avere messo e così finisci, ancora, a fissare quei tre segni incisi uno di seguito all’altro: i puntini di sospensione. Perché in fondo, ne sei certo, sta tutto lì.
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