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Questo pezzo di Linda Kuehl è uscito originariamente su The Paris review ed è stato tradotto da Emanuele Giammarco per Altri Animali.

Con Eudora Welty ci siamo incontrate nella sua camera all’Hotel Algonquin,(( Celebre albergo di lusso a pochi metri da Times Square.)) più o meno un’ora dopo il suo arrivo in treno alla Penn Station. Mi aveva dato un numero di stanza sbagliato, così la prima volta che l’ho vista stava sbirciando dalla porta non appena aperto l’ascensore. Una donna alta, robusta, canuta mi è venuta incontro profondendosi in scuse. Essere intervistata, mi ha confessato, la rendeva nervosa, specialmente se registrata su nastro. Dopo avermi raccontato del suo viaggio in treno – non viaggia mai in aereo – si è fatta forza e mi ha chiesto se non volessi iniziare con le domande.

Una volta che l’intervista ha preso il via, piano piano ha cominciato a sbottonarsi. Come forse avrebbe detto lei: non si sentiva del tutto «reticente». Ha parlato deliberatamente con la tipica cantilena del Sud, soppesando le parole. È estremamente riservata e non intende rivelare niente di personale.

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Da qualche parte hai scritto che dovremmo ancora sopportare romanzi familiari alla Jane Austen. È uno spirito affine, quello della scrittrice?

Sopportare? Credo proprio di sì! Adoro e ammiro tutto quello che ha fatto, e profondamente, ma non leggo né lei né chiunque altro per una questione di «affinità». Il pezzo a cui ti riferisci l’avevo scritto per Brief Lives, un’antologia curata da Louis Kronenberger. Effettivamente mi aveva offerto sia Jane Austen sia Čechov, e credo di poter dire che Čechov mi sia più affine. Sono più vicina a lui nello spirito, ma non sapevo leggere il russo, cosa che ritengo necessaria per chiunque voglia scrivere di lui. Čechov è uno di noi – così vicino al mondo di oggi, al mio modo di pensare, e molto vicino al Sud – cosa che Stark Young aveva già messo bene in luce molto tempo prima di me.

Perché Čechov è così vicino al Sud di oggi?

Amava ciò che c’è di unico nelle persone, l’individualità. Dava per scontato lo spirito familiare. Aveva il senso di come il fato sia capace di determinare ogni scelta nella vita, e ho come l’impressione che il suo umorismo russo sia prossimo a quello delle persone del Sud. Il tipo di umorismo che in sostanza risiede nel carattere. Sai, in Zio Vanja e nel Giardino dei ciliegi, come le persone stanno sempre assieme e parlano e parlano, ma nessuno che ascolta davvero. E nonostante ciò l’amore e la comprensione ne pervadono tutta l’opera, e una conoscenza e un senso d’accettazione delle idiosincrasie di ognuno, un senso di tolleranza, e in più un godimento intenso per quanto c’è di più drammatico. Come in Le tre sorelle, quando è divampato l’incendio e tutti insistono a parlare nonostante siano esausti, e Veršinin dice: «Sento una strana eccitazione nell’aria», e si mette a ridere e a cantare, parlando del futuro. Quella capacità di reagire al mondo, accada quel che accada, grazie a quanto c’è di più profondo nel nostro carattere, mi pare molto del Sud. A ogni modo provo una passione viscerale per Čechov, un legame che mi è cresciuto dentro nel tempo.

Torni mai a Virginia Woolf?

Sì. È stata lei a spalancare la porta. Quando ho letto Gita al faro mi sono detta: caspita, e questo cos’è? Fu un’esperienza così eccitante che non riuscii né a dormire né a mangiare. Da allora l’ho letto molte volte, anche se ultimamente riprendo più spesso il suo Diario. Ogni giorno che apri ha del tragico, eppure tutte le cose meravigliose che dice riguardo la sua opera, la sua scrittura, ti lasciano colma di una gioia che è più forte della pena che provi per lei. Ricorda: «Non sono andata troppo lontano, ma credo di avere le mie statue contro il cielo».((Nell’intervista originale su The Paris Review: «I’m not very far along, but I think I have my statues against the sky». La citazione originale di Virginia Woolf è invece: «It is bound to be imperfect. But I think it possible that I have got my statues against the sky», secondo l’edizione Rizzoli: «È inevitabile che sia molto imperfetto. Ma forse sono riuscita a stagliare le mie statue contro il cielo». V. Woolf, Diari. 1925-1930, a cura di Bianca Tarozzi, BUR Rizzoli, Milano 2012.)) Non è bellissimo?

Riguardo la tua di opera, invece, sei sorpresa che Losing Battles((Non disponibile in italiano. Eudora Welty, Losing Battles, Random House, New York 1970.)) sia nella lista dei bestseller? È stata una prima volta per te, giusto?

All’inizio mi è passato per la mente che doveva essere un colpo di fortuna, che chiunque avesse il posto in quella lista si fosse semplicemente alzato per farmi posto – lasciate sedere la signora, non si tiene sulle gambe. In realtà qualsiasi tipo di accoglienza mi avrebbe sorpreso, o allo stesso modo si potrebbe dire che nulla mi poteva sorprendere, perché quando ho scritto il libro non pensavo a come sarebbe stato recepito. Avevo a cuore l’opinione di una manciata di amici che volevo apprezzassero il libro, non mi interessava il parere del pubblico.

Scrivi per i tuoi amici?

Nel momento in cui scrivo, non lo faccio per i miei amici o per me se stessa, lo faccio per il fatto in sé, per il piacere di farlo. Se mi fermassi a ragionare su cosa ne penserebbe tizio o caio, o su come mi sentirei se quello che scrivo fosse letto da un estraneo, credo che ne rimarrei paralizzata. Ho a cuore l’opinione dei miei amici, davvero molto – ed è solo dopo che hanno letto la stesura finale che riesco a riposare bene, di un sonno profondo. Ma mentre sto scrivendo, ho bisogno soltanto di andare avanti e continuare con in testa solo quella cosa, e ciò che quella mi comanda.

È qualcosa di così intimo che leggere le bozze, più tardi, può diventare effettivamente scioccante. Quando mi hanno consegnato quelle del mio primo libro – anzi, credo che fosse per Nozze sul delta, ((Delta Wedding, Harcourt, New York 1946; trad. it. V. Melegari, Nozze sul delta, Longanesi, Milano 1947; oppure S. Vertone, Editori riuniti, Roma 1984.))– ho pensato: non l’ho scritta io questa cosa. Era una pagina di dialoghi – era come se non l’avessi mai vista prima. Ho scritto al mio editor, John Woodburn, dicendogli che doveva essere successo qualcosa nell’impaginazione. Lui è stato carino, non era neanche sorpreso; forse succede a tutti gli scrittori. Mi ha richiamato al telefono e ha letto dal manoscritto: parola per parola quello che c’era nelle bozze. Ora le bozze non mi sconvolgono più, eppure quando cambio la prospettiva da scrittrice a lettrice accade sempre qualcosa di strano, e immediatamente vedo le mie parole con gli stessi occhi dell’algido pubblico. Mi fa sentire come se fossi terribilmente esposta, come scottata dal sole.

Fai qualche modifica sulle bozze preliminari?

Correggo o cambio le parole, ma non posso riscrivere una scena o fare grandi modifiche, perché a quel punto ho l’impressione che qualcuno stia lì a fissarmi alle spalle. Comunque bisogna fidarsi di quel momento in cui sei stata sicura, in definitiva, che hai fatto tutto il possibile, e che hai dato il meglio per arrivare fin lì. Quando finalmente il libro è stampato, sei come affrancata; non avrai mai più bisogno di riguardarlo. È troppo tardi per preoccuparsi delle sue lacune. Ogni lezione appresa da quel libro dovrà essere sfruttata scrivendo il prossimo.

Ritieni Losing Battles una deviazione rispetto a quanto hai scritto finora?

Volevo capire se ero in grado di fare qualcosa che per me era una novità: tradurre ogni pensiero e ogni sentimento in azioni e dialoghi – non essendo questi che un’altra forma d’azione –, portare tutto alla vita, per così dire, attraverso la gamma completa dei gesti. Ho avuto la sensazione di aver scritto troppo perseguendo la via della descrizione, dell’introspezione dalla parte dei miei personaggi. Ho provato a mostrare, a portare tutto alla luce senza avere più il vantaggio dell’autore che dice cosa sta succedendo all’interno della testa e del cuore dei personaggi. Per quanto mi riguarda, questo rende di più con la commedia – cosa che adoro scrivere più di ogni altra. Mi sono accorta che potrebbe essere un momento di transizione verso la sceneggiatura.

Sapevi già cosa avresti scritto prima di metterlo su pagina?

Sì, era tutto nella mia testa, ma gli eventi poi si sono moltiplicati lungo la strada. Per esempio, avevo pensato che tutta l’azione del romanzo dovesse svolgersi in un giorno e una notte, ma poi la cartella ha cominciato a riempirsi di cose con la dicitura «il mattino seguente». Non avevo previsto quelle storie che in seguito si sono sviluppate dalle prime – è stata una delle gioie che ho provato scrivendo quel romanzo. Pensavo che sarebbe stato un libro corto, invece si è rivelato tre o quattro volte più lungo di un mio lavoro normale. Non c’era modo di calcolarne la lunghezza, perché avevo ammassato enormi mucchi di fogli chiusi con le graffette che non sono stati numerati fino a poco prima di andare in stampa. E di quel libro devo aver buttato tante pagine quante ne ho tenute.

Hai imparato niente di nuovo su come scrivere i dialoghi?

Credo di sì. Quando si inizia, i dialoghi sono la cosa più semplice da scrivere se si possiede un buon orecchio, cosa che penso di avere. Ma andando avanti diventa la cosa più difficile, perché ci sono moltissime maniere in cui potrebbe funzionare. Qualche volta ho avuto bisogno che un dialogo dicesse tre o quattro, o cinque cose allo stesso tempo – rivelare cosa diceva il personaggio, ma anche cosa pensava di aver detto, cosa nascondeva, cosa gli altri avrebbero pensato che volesse dire, cosa avevano frainteso, e così via – tutto in un unico discorso. E quel discorso avrebbe dovuto trattenere l’essenza di quel personaggio, tutto il suo specifico carattere in forma concentrata. Non dico di esserci riuscita. Ma suppongo che ciò spieghi perché scrivere dialoghi per me sia così piacevole. Qualche volta mentre li scrivo mi capita di sbottare a ridere – così come si dice che accadesse a P.G. Wodehouse. Penso a qualche cosa che i miei personaggi potrebbero dire, e anche se non posso usarlo, butto giù la scena giusto per farli sfogare su qualcosa – il mio spettacolo privato.

Da dove spuntano fuori i dialoghi?

Dalla familiarità. Dal ricordarsi come si dicono le cose. Una volta che hai ascoltato certe espressioni, certe frasi, è difficile scordarle. È come mandare un secchio giù nel pozzo per tirarlo su ogni volta pieno. Non sai come hai fatto a ricordarti, ma lo hai fatto. E ti metti in ascolto per la parola giusta, sul momento, e la senti. Una volta che sei immersa nella storia tutto sembra trovare posto – le cose che si origliano sull’autobus sono esattamente quelle che direbbe il tuo personaggio sulla pagina che scrivi. Ovunque vai, incontri parte della storia. Credo che ci si possa sintonizzare per questo, e che le cose più adatte sono come magnetizzate, se si riesce a immaginare le orecchie come una sorta di magnete. Allora si può sentire qualcuno che dice – e questo l’ho dovuto tagliare – «Che? Non hai mai mangiato la capra?». E qualcun altro che risponde: «Capra! Ti prego non mi dire che serviranno carne di capra al ritrovo. Non mi ha detto nessuno che avrebbero servito della capra. Pensavo…» e avanti così, e poi parlava di ricette, e poi finiva con – ora non ricordo bene – finiva con: «Si possono cucinare un sacco di cose con l’aceto». Ecco, di tutte queste cose mi metterei a ridere, ci penserei su per molto tempo, e le metterei nel testo. Dopodiché penserei: Non è che puro autoappagamento, bisogna togliere! E dopo toglierei.

Sei una di quelle a cui piace origliare?

Non più come una volta, o come mi piacerebbe fare, perché non ci sento più bene come prima, oppure c’è troppo rumore dappertutto. Ma ho sentito dei commenti favolosi. Be’, al Sud, stanno sempre tutti a parlare – non gli dispiace se qualcuno si mette a sentire di straforo le loro storie. Non ho la sensazione, per darmi una mano, di aver fatto alcunché di subdolo. Piuttosto ho dato una mano.

Credi che questa tradizione orale, per così dire, giustifichi l’uso robusto dei dialoghi nei tuoi scritti?

Credo giustifichi il piacere che le persone traggono da una storia quando viene raccontata. È un tesoro di cui mi sono servita anch’io. Me ne servo per i miei scopi e con i miei mezzi, ed è cosa buona e giusta: è la nostra gente che parla così. Impara e insegna, e pensa e prova piacere a quel modo. La gente del Sud ha davvero, avendolo ereditato, un senso narrativo del destino dell’uomo. Questo può o non può venir fuori in Losing Battles. Un ritrovo non è altro che persone che ricordano assieme; che ricordano e si fanno testimoni di quel tempo in cui le persone a loro vicine sono nate, di cos’è successo nelle loro vite, ai loro figli, e di com’è che sono morti. Esiste qualcuno che può ricordare la vita intera di un uomo, ogni singolo pezzo lungo la strada. Credo sia una cosa magnifica, e sono grata per il fatto di poterne sapere qualcosa. A New York puoi anche avere come amico la persona più affabile e migliore del mondo, ma sarai fortunato se arriverai a conoscere qualcosa di lui che non sia solo quello spicchio di vita che combacia con la tua. Non avrai mai il senso di una linea narrativa continua. Non avrai mai una visione d’insieme. Ma al Sud, dove persino adesso la gente non si muove granché, ammesso che si sia mai mossa, ti ritrovi sempre di fronte all’intero disegno delle cose.

Diresti che la gente del Sud – del profondo Sud – è più aperta di quella del Nord?

Direi che abbiamo una sorta di linguaggio che tutti noi capiamo e parliamo – un codice di qualche genere, basato sulla familiarità – ma non so se siamo più aperti. Forse non la raccontiamo sempre tutta come ci piace pensare, ma forse nemmeno nascondiamo tanto le cose come si pensa. Siamo solo abituati a parlare di più – come puoi ben constatare – e nessun argomento in particolare ci fa star zitti.

E ciò influenza molto la tua narrativa?

Penso che le fornisca un disegno, e mi dia un senso della forma. Voglio aggiungere che parlo solo per me stessa quando parlo delle caratteristiche del Sud, non so come lavorano gli altri. Per un genio come William Faulkner potrebbe essere completamente diverso, ha una tale comprensione del passato più remoto e la formazione più vasta di chi è nato in campagna rispetto a me, il che è così ragguardevole, per non parlare di tutte le altre qualità che qui non ho bisogno di menzionare.

Conosci bene Faulkner?

Un po’ e da tanto tempo, ma non così bene. Mi è sempre piaciuto molto. Ci siamo incontrati durante un aperitivo a Oxford, c’erano solo vecchi amici suoi e miei – la cosa migliore che potesse accadere – ed è stato semplicemente fantastico. Abbiamo inneggiato canti religiosi, vecchie canzoni – e il giorno dopo mi ha invitato in barca a vela. Quando ci siamo incontrati a New York abbiamo sempre parlato di come si stava a Oxford. Non ha mai tirato fuori l’argomento scrittura, e se non lo faceva lui di certo non l’avrei fatto io! Ma mentre stava lavorando a Hollywood una volta mi scrisse due righe – questo molto prima di conoscerci – dicendomi che aveva apprezzato un mio libretto dal titolo The Robber Bridgeroom((Eudora Welty, The Robber Bridgeroom, Harcourt, Brace and co., New York 1942; trad. it. I. Zani Lo sposo brigante, Fazi, Roma 2007.))e pregandomi di dirgli se c’era qualsiasi cosa che potesse fare per me. Era su una piccola pagina di quaderno, scritto a penna con quella sua scrittura così sottile, netta, quasi illeggibile. E io l’ho perso.

La sua presenza ti ha per caso condizionata?

Non credo, onestamente. È difficile essere sicuri su queste cose. Naturalmente provavo soggezione e timore reverenziale nei suoi confronti. Non che sia stato d’aiuto per la mia scrittura però. Nessuno ci può aiutare tranne noi stessi. Mi hanno chiesto spesso come abbia fatto a scrivere anche solo una parola con William Faulkner anche lui del Mississippi, e questa domanda mi sbalordisce. Era come vivere vicino una grande montagna, qualcosa di maestoso – mi rendeva felice sapere che fosse lì, tutta l’opera della sua vita. Ma non è stata né d’aiuto né d’ostacolo la sua presenza. Ci ha pensato la sua grandezza, da sola, ad allontanarlo dalla mia vita da scrittrice. Ho pensato a Faulkner solo quando l’ho letto.

D’altra parte, non a tutti è sembrato così lontano, in quanto grande scrittore americano. Conosco una storia che lo riguarda, anche se scommetto che lui non sapeva che la sapesse qualcun altro. Il Mississippi è pieno di scrittori, e ho sentito questa storia da una persona che l’aveva ascoltata dalla diretta interessata. Una signora si era messa in testa che avrebbe scritto un romanzo ed era andata avanti tranquillamente finché non era arrivata una scena di sesso. «Quindi» ha detto lei al mio amico, «ho pensato: visto che William Faulkner se ne sta seduto a Oxford, perché non inviare la scena a William Faulkner e chiedere a lui?» Così l’ha fatto ed è passato un po’ di tempo e non ha mai ricevuto risposta e così l’ha chiamato. Perché lui era lì. E lei gli dice: «Mr Faulkner, ha mai ricevuto quella scena d’amore che le ho inviato?». Lui ha risposto di sì, l’aveva ricevuta. E lei gli ha detto: «Be’ cosa ne pensa?». E lui: «Be’, tesoro, non è come l’avrei scritta io – ma va’ avanti per la tua strada». Non è stato gentile da parte sua?

Ti mandano mai manoscritti da leggere? Le donne, specialmente, tendono a scrivere romanzoni storici, e mi chiedevo se non ce ne fosse qualcuna anche a Jackson, ecco.

Non mi sorprenderebbe. Non credo ci siano anfratti dove non si nascondano. Sì, mi mandano manoscritti, ma quei romanzi gotici o storici parlano di cose di cui davvero non so niente, e non ne faccio mistero. In realtà, in generale, nel nostro stato c’è un certo grado di talento adesso – molti giovani bravi, degni di nota.

Ti sei mai sentita parte di una comunità letteraria, accanto a personalità come Flannery O’Connor, Carson McCullers, Katherine Anne Porter, o Caroline Gordon?

Non sono certa che ci sia una qualche linea tratteggiata a connetterci, anche se ognuno di noi conosce l’altro, e tutti noi, credo, abbiamo rispettato, letto e compreso il lavoro dell’altro. Qualcuno fra noi è anche amico di lunga data. Non credo ci sia stato un vero e proprio scambio di influenze, ma fa effetto pensare a quali altre esistenze si sia affiancata la tua. Certo, Katherine Anne Porter è stata meravigliosamente generosa con me sin dall’inizio. Le prime volte che inviai i miei racconti alla Southern Review  fu lei a leggerli, e poi fu lei che mi scrisse da Baton Rouge invitandomi a scendere giù a trovarla. Mi ci sono voluti sei mesi o un anno, penso, per trovare davvero il coraggio. Per due volte non mi sono spinta oltre Natchez, mi sono voltata e sono tornata indietro. Però alla fine ci sono andata, e Katherine Anne non avrebbe potuto accogliermi meglio. Qualche anno dopo ha scritto l’introduzione al mio primo libro di racconti,((E. Welty, Una coltre di verde, Racconti, Roma 2017. Sul ruolo di Katherine Anne Porter per l’esordio letterario di Eudora Welty vd. l’introduzione al libro dal titolo: La coltre verde di Eudora Welty.)) e le sono molto riconoscente per questo. Siamo rimaste amiche per tutti questi anni.

Come ti sentiresti davanti a una tua biografia?

Timida, e scoraggiata al solo pensiero, perché di un autore, secondo me, non dovrebbe rimanere nient’altro che l’opera. Tutto il suo sentire, la forza di una vita, può trasformarsi in una storia – ma ciò per cui ha faticato è ottenere qualcosa di oggettivo su carta. Dovrebbe essere letto quello, e non qualche resoconto sulla sua vita, e in quella prospettiva: ecco qualcosa di concreto che è stato prodotto dalle mani di questa persona. Leggilo per quello che è. Non è nemmeno tanto importante di chi fossero quelle mani. O meglio, certo, è importante – stavo solo esagerando per dimostrare il mio punto –, ma la vita privata dovrebbe rimanere tale. La mia, poi, non credo sia di alcun interesse particolare, per una biografia. Però la proteggo; sento molto questa cosa. Farebbero un sacco di fatica per scoprire qualcosa su di me. Penso che sarebbe meglio se bruciassi tutto. La cosa migliore sarebbe bruciare le lettere, per fortuna non ho mai tenuto diari. Tutti i miei manoscritti li ho dati al Department of Archives and History di Jackson così come sono, perché è la mia città e il direttore è un caro amico. Ma a loro non do tutto quanto. Credo di avere un camion di roba che non do via, perché penso non sia affare di nessuno e che a nessuno interessi vedere i miei errori e i miei tentativi a vuoto. Proprio come quella cosa sulla carne di capra di cui parlavo prima e le milioni di cose che ho lasciato fuori dai miei testi.

Perché Losing Battles e Nozze sul Delta sono ambientati negli anni ’20 e ’30?

Bisognava impostare lo scenario e delimitare la storia. Entrambe sono storie familiari, e non volevo inibirle con eventi esterni che non fossi in grado di controllare. Nel caso di Nozze sul Delta, ricordo che feci un’attenta ricerca per scoprire l’anno in cui non fosse successo niente di così terribile nella regione – per via di alluvioni, d’incendi o di guerre – che avrebbe portato gli uomini altrove. Ho strutturato tutto attraverso gli almanacchi. Era un po’ sconveniente per me perché io stessa non ero che una bambina negli anni di cui volevo scrivere – ecco perché ho lasciato che parte del libro fosse scritta dal punto di vista di una bambina. Nel caso di Losing Battles invece volevo parlare di una famiglia che non possedesse niente. Uno scenario spoglio. Ho scelto l’epoca più dura, quando le persone avevano meno che mai e lo scenario poteva essere in assoluto il più spoglio di sempre: la Grande depressione, ovviamente.

Preferisci lavorare con scenari del genere?

In questo caso l’ho fatto per poterlo poi riempire di gente. Ho cominciato con delle idee sui personaggi e sulla situazione, e la tecnica è scaturita da questi due aspetti man mano che scrivevo. Ogni volta è diverso, ovviamente, a seconda della storia. In Losing Battles volevo scrivere di quelle persone che pur non avendo niente di niente riescono a trarre il massimo da loro stessi e dalla situazione per andare avanti.

Avevi dimestichezza con la vita delle piantagioni quando hai scritto Nozze sul Delta?

No, ma avevo alcuni amici che venivano da lì, e mi capitava di sentire le loro storie, e mi portavano a fare picnic e a visitare quei posti. Visite di famiglia. Il Delta è impressionante a vedersi, ma completamente piano. Sarebbe esasperante, per me, dopo giorni con davanti nient’altro che l’orizzonte. Poco prima di raggiungere il Delta ci sono alti promontori, e per entrarci bisogna tuffarsi giù per una collina scoscesa, ma da lì in avanti non c’è nient’altro che piattezza. Alcune delle cose che ho visto e sentito col tempo mi si sono appicciate addosso. Alcuni aneddoti e qualche modo di dire sono finiti dritti nel libro, anche se al momento non riesco a ricordare quali siano quelli veri e quali inventati di sana pianta.

In una recensione John Crowe Ransom ha scritto che Nozze sul Delta è probabilmente «uno degli ultimi romanzi nella tradizione del Vecchio Sud».

Ammiro molto Mr Ranson, ma non mi è molto chiaro cosa volesse dire in quel frangente. Non ho tentato di scrivere un romanzo del Vecchio Sud. Non mi vedo come qualcuno che scrive a partire da una qualche tradizione in particolare, ed esiterei ad accettare questa etichetta per Nozze sul Delta. Esiterei ancora più oggi, perché il termine stesso, «Vecchio Sud», mantiene la connotazione di qualcosa di irreale e non esattamente trasparente.

I tuoi erano originari del Profondo Sud. Credi che il tuo sguardo ironico provenga da loro?

Mi hanno dato equilibrio, più che altro, credo che ci siano fattori che hanno contato di più, però. Il padre di mio padre possedeva una fattoria nell’Ohio del sud, e il padre di mia madre faceva l’avvocato del paese ed era un contadino del West Virginia, ed entrambi i genitori di mia madre venivano da famiglie del Virginia composte perlopiù da professori e predicatori. Fra loro qualcuno scriveva nei giornali o teneva diari, anche se nessuno scriveva narrativa. Ma tutti loro amavano leggere e sono cresciuta fra i libri, questo è ciò che mi ha influenzato di più. D’altra parte i miei genitori sarebbero stati le persone che erano, persone di carattere, ovunque fossero nati, e io sarei stata figlia loro ovunque fossi nata. Sono una persona del Sud, ma in quanto scrittrice credo che l’ambiente conti di più per come ti insegna a guardarti attorno e a vedere più chiaramente cos’è che c’è, e in quanto a fondo l’ambiente stimola la tua immaginazione.

Where Is the Voice Coming From?,((Uscito il 6 luglio 1963 sul New Yorker, è il racconto narrato in prima persona dal punto di vista dell’assassinio di Medgar Evers. Presidente della NACCP (National Association for the Advance of Colored People) Evers fu ucciso a Jackson il 12 giugno dello stesso anno. L’assassino, Byron De La Beckwith, era membro del White Citizens’ Council, gruppo formatosi nel 1954 in opposizione ai movimenti per l’integrazione e i diritti civili dei neri americani.)) sull’assassinio di Medgar Evers, credo sia il tuo unico racconto su temi d’attualità.

Lo è, te l’assicuro. Il racconto si è insinuato in qualcosa di diverso su cui stavo lavorando. Provavo un certo malessere per le cose che si scrivevano sul Sud all’epoca, perché la maggior parte di queste veniva scritta da altre parti del paese, e mi sembravano troppo grossolane. Erano storie perfettamente in buona fede, ma anche generalizzazioni scritte da lontano per illustrare altrettante generalizzazioni. Quando venne commesso l’omicidio, nella mia coscienza si palesò subito la sensazione di sapere cosa fosse passato per la testa a quell’uomo, perché avevo passato tutta la vita proprio nel posto dov’era successo. Fu una sensazione stranissima, ne provai orrore e ne fui attratta allo stesso tempo. Ho provato a scrivere dal profondo Sud di me stessa, ed ecco perché mi sono azzardata a scriverlo in prima persona. Il titolo non è un granché, e mi piacerebbe fosse un altro. Al tempo in cui lo scrissi – era notte fonda – nessuno sapeva chi fosse l’assassino, e con il titolo volevo intendere che chiunque fosse a parlare, io – il narratore – sapevo, ero nella posizione di sapere, cosa l’assassino avesse potuto dire e perché.

I fatti di cronaca ti sono d’ostacolo alla scrittura?

Be’ quando si scrive di un fatto di cronaca non gli si può dar forma nello stesso modo in cui lo si fa con qualcosa di inventato. In The Voice ho scritto di un fatto reale, e proprio nelle ore in cui se ne parlava. Ero come una vera detective alla ricerca del colpevole. Non della sua identità, intendo, ma della sua natura. Non è proprio una prerogativa degli scrittori di racconti, no? O forse sì? Comunque mentre i nodi venivano al pettine credo di essere andata vicina all’individuazione della mentalità della persona che poi avrebbero arrestato, ma fuori strada per quanto riguarda il suo retroterra sociale. Come ha detto un mio amico: «Credevi fosse uno Snopes, e invece era un Compson».((Eudora Welty si riferisce ai nomi delle due famiglie descritte nei racconti di William Faulkner ambientati a Yoknapatawpha Country, nel Mississippi. La trilogia degli Snopes consiste nei tre racconti The Hamlet, The Town e The Mansion, mentre la famiglia Compson appare in Requiem for a Nun e Absalom! Absalom!, in racconti come That Evening Sun, e principalmente in The Sound and the Fury.)) Anche se, a dirla tutta, non si tratta più di una distinzione così netta.

Vedi delle differenze fra i tuoi primi racconti raccolti in Una coltre di verde o in Primo amore e altri racconti,((The Wide Net and Other Stories, Harcourt, New York 1943, trad. it. di V. Melegari, Primo amore e altri racconti, Longanesi, Milano 1947.)) nei quali affrontavi più il tema del grottesco, rispetto a quelli di Non è posto per te, amore mio?((The Bride of the Innisfallen and Other Stories, Harcourt, New York 1955, trad. it. di D. Fink, Non è posto per te, amore mio, Leonardo, Milano 1990.))

Sì, una differenza che non riposa nel contenuto ma nel modo di trattarlo. In quei primi anni avevo sicuramente bisogno di quel congegno che si potrebbe definire il «grottesco». Ovvero: ho sperato che modificare i personaggi in base alle loro caratteristiche fisiche avrebbe rivelato com’erano dentro – allora mi sembrava il modo più diretto per farlo. Questo col senno di poi, però. Non credo di aver agito così in coscienza allora, non avevo nemmeno idea che quello fosse il modo più spedito. Per rendere qualcuno solo in effetti è più facile farlo sordomuto e scemo piuttosto che avanzare a tentoni fra i suoi pensieri. Il ragazzo di Primo amore((Primo racconto della raccolta eponima. )) è sordo, poi, anche per un’altra ragione: uno degli altri personaggi, Aaron Burr, era un persona realmente esistente. Non riuscivo a concepire una conversazione con lui così come avrei potuto farlo con un personaggio immaginario, di conseguenza ho pensato che potesse parlare con un sordo, che poi l’avrebbe interpretato e preso a modo suo; per farne una storia, più che altro. È istintivo per uno scrittore mostrare sensazioni forti e intensi stati emotivi traducendoli in qualcosa di visibile; farne capelli rossi, per capirci. Eppure non è necessario. Posso dire di scrivere di quel medesimo mondo interiore, adesso, senza ricorrere a congegni così scontati. Tutti i congegni comunque – e l’uso di simboli è un altro – devono fuoriuscire organicamente e direttamente dal racconto. Su questo insisto parecchio.

Ti stai riferendo anche ai tuoi primi racconti come Lily Daw e le tre signore e L’uomo di pietra?((Lily Daw and The Three Ladies e Petrified Man, entrambi pubblicati in Una coltre di verde, tradotti in italiano da Isabella Zani.))

Be’ i miei primi racconti li scrissi molto più velocemente, e non mi passava neanche per la testa che avrei potuto scriverli in un’altra maniera, e persino meglio con una seconda stesura. Dimostrano tutte le debolezze dell’essere troppo avventati. Non li ho mai rivisti, ho buttato giù e basta. Le loro trame sono deboli perché non ne sapevo abbastanza per preoccuparmene. Quelli dialogati sono finiti per diventare esattamente come il dialogo aveva deciso che fossero. Non mi sono resa conto della loro vera debolezza finché non li ho letti in pubblico; sono state le mie orecchie a dirmelo. Avrei potuto renderli più forti molto facilmente. Qualche volta li risistemo un po’ per i miei reading – li taglio, li combino diversamente – piccole cose, solo per vedere la differenza.

Che cosa ha ispirato Powerhouse?((Altro racconto di Una coltre di verde, tradotto in italiano da Isabella Zani.))

L’ho scritto tutto in una notte, dopo che ero stata a un concerto danzante a Jackson in cui suonava Fats Waller. Ho tentato di trascrivere l’idea che avevo degli artisti e dei musicisti erranti e della vita che conducono – non di Fats Waller in particolare, ma di tutti gli artisti – in un mondo a loro estraneo, e ho tentato di tradurre in parole e trama quello che mi aveva suggerito la musica che avevo ascoltato. Fu un tentativo azzardato per una scrittrice come me – azzardato come lo è stato scrivere di Medgar Evers in quella notte – perché non sono qualificata per scrivere di musica e in generale di chi fa intrattenimento. Ma provarci è stato piacevole, come lo è ancora adesso.

Hai mai avuto problemi a terminare un racconto?

Fin qui no, ma potrei aver fatto errori senza che me ne sia resa ancora conto. Conoscere il momento esatto in cui dover finire è parte integrante dell’abilità nel costruire una trama. Quando leggo, ascolto ciò che sta sulla pagina. Non ho idea di chi sia la voce, ma è la voce di qualcuno a leggere per me, e quando scrivo i miei racconti, anche lì sento la stessa voce. Ho una mente visiva, e posso vedere tutto ciò che scrivo, ma quando le parole vengono buttate giù ho bisogno di ascoltarle. Oh, potrà suonare assurdo. E non è la stessa cosa con i dialoghi, che ovviamente sono tutto un altro tipo, più specifico, di ascolto.

I primi racconti che hai scritto erano ambientati a Parigi.

Non vale la pena ricordarlo. Ero ancora una matricola al college, avevo sedici anni. Be’, sai, scrivevo del grande mondo, un mondo di cui conoscevo solo Jackson, nel Mississippi. Tutto però è radicato nel mio senso del mistero, riguardo le persone e i posti, che è legittimo e irriducibile. Riguardo Parigi, mi ricordo l’incipit di un racconto, giusto per capire quant’ero scarsa: «Monsieur Boule inserì un delicato pugnale al fianco sinistro della Mademoiselle e quella morì con pronta immediatezza». Mi piace pensare che non mi prendessi molto sul serio allora, ma non è vero.

Quando uscì Morte di un commesso viaggiatore,((Death of a Traveling Salesman, è stato il primo racconto di Eudora Welty a trovare pubblicazione, sulla rivista letteraria Manuscript. Poco dopo Welty avrebbe pubblicato altri racconti su The New Yorker e su The Sewanee Review. Il racconto in questione fa parte della raccolta Una coltre di verde.)) come avevi capito che il tuo periodo d’apprendistato era giunto alla fine?

Non ero che all’inizio! E fremevo dalla voglia di scoprirlo. Prima, l’idea che un mio racconto potesse essere preso in considerazione neanche la concepivo. Un ragazzo che abitava qualche isolato più su, un vecchio amico di nome Hubert Creekmore, che ora è morto, sapeva tutto su come fare per inviare un racconto. Aveva iniziato prima di me a scrivere e aveva pubblicato molte buone poesie e romanzi. Non volevo fargli leggere niente di quello che avevo scritto però gli chiesi: «Hubert, sai per caso dove posso inviare questa cosa?», e lui mi disse a John Rood del Manuscript. Così lo mandai e John Rood lo lesse e ovviamente ci rimasi di stucco. E pure Hubert! Credo di esser stata sempre fortunata: tutte le mie cose sono sempre atterrate sul morbido e fra mani amiche.

Sei stata fortunata a eludere il primo romanzo come prerequisito, cosa che gli editori sembrano imporre ai giovani scrittori. Con le raccolte di racconti sono sempre sospettosi.

Devo tutto a John Woodburn, il mio primo editor, che allora era alla Doubleday,((Storica casa editrice americana, oggi una divisione della Random House.)) e a Diarmuid Russell,((A Russell è dedicato Una coltre di verde.)) il mio agente e ormai un amico da tanti anni. E devo tutto anche alla mia natura, perché non ho mai scritto nulla che non sia sprigionato naturalmente dalla mia testa e che non abbia coinvolto la mia immaginazione.

Paragonati ai tuoi racconti, ritengo che i tuoi romanzi siano più sciolti, più liberi, e più felici, come se traessero beneficio dalle riconciliazioni e da un senso ultimo di comunione.

Di carattere solitamente sono una positiva e mi adopero sempre affinché i racconti si risolvano in qualche modo. Non penso che la vita ci regali spesso una qualche risoluzione, almeno non nel senso del raggiungimento di una perfezione, ma mi piace come gli scrittori di narrativa riescano attraverso il loro sentire a confrontarsi con l’esperienza trasformandola in arte – non importa quanto rapido e imperfetto sia il modo in cui ciò avvenga – come le diano una forma provando a incarnarla, a fissarla ed esprimerla nelle modalità del racconto. Con un romanzo hai più chance per provarci. I racconti invece sono tutti racchiusi in un singolo umore, al quale tutto, nella storia, deve adeguarsi. Personaggi, scenario, tempo, eventi, sono tutti soggetti a quell’umore. E si possono tentare le cose più effimere, più fugaci, in un racconto, si può suggerire di più, rispetto a un romanzo. Forse si risolve di meno, ma si suggerisce di più.

Riservi l’effimero per i racconti e la risoluzione per i romanzi?

Posso dirlo solo a cose fatte. Se avessi saputo che Losing Battles sarebbe stato un romanzo così lungo non so se l’avrei iniziato. Sono una scrittrice di racconti che scrive romanzi suo malgrado, e per caso. Vedi, tutto quello che scrivo viene fuori dalla scrittura stessa. Sembra che prenda le sue sembianze a partire da una forma, e il senso della forma è come riempire un vaso pian piano fino all’orlo. È qualcosa che si ha in mente fin dall’inizio, e non mi rendo conto quanto a lungo posso divagare per poi tornare indietro. Flessibilità e libertà sono due aspetti eccitanti per me, non essendoci molto abituata, due aspetti che non ti vengono a trovare molto spesso. Ma nessuno può essersi divertito più di me a imparare questo tipo di lezione. Non c’è fine a quello che si può provare a fare, non è vero? Perciò sarò più fortunata la prossima volta.

Credi che la critica abbia fatto di te una scrittrice troppo regionale, estrapolandolo dai tuoi saggi sull’argomento?

Essere additata come scrittrice regionale non mi scoccia. Giudicare e dare etichette fa parte del lavoro di un critico. Ma la critica non può mettere bocca su ciò che un autore sceglie o meno di scrivere; quella è responsabilità del solo scrittore. Mi vedo come una che scrive dell’essere umano, che per caso vive in una specifica regione, come tutti noi, perciò scrivo di quel che so: è lo stesso per qualsiasi scrittore, di qualsiasi posto. E si dà anche il caso che io ami la mia terra. E se questo si nota non mi scoccia.

Il luogo: può essere una fonte d’ispirazione?

Non solo, è la fonte stessa di tutto quello che so. Mi suggerisce le cose importanti. Mi indirizza e fa in modo che continui dritta per la mia strada, perché il luogo è ciò che definisce e circoscrive ciò che faccio. Mi aiuta a identificare, riconoscere e spiegare. Molto di me viene da lì. Mi salva. Non si può scrivere un racconto che non è ambientato da nessuna parte, no? Io almeno non potrei. Non sarei in grado di scrivere niente di così astratto. E niente di così astratto alla fine mi interesserebbe.

Che funzione ha il posto in Non è posto per te, amore mio?((Primo racconto di Non è posto per te, amore mio.))

È il racconto per cui il «posto» ha contato di più. L’ha praticamente scritto da sé. Quello scenario l’ho visto solamente una volta – il delta del Mississippi inteso come fiume, sotto New Orleans, dove vira verso il golfo – una volta soltanto. Però mi ha letteralmente smottato. Il luogo è come minimo essenziale. Tempo e luogo costituiscono la struttura su cui costruire ogni racconto. Per come la vedo io, l’onestà che muove uno scrittore di narrativa è tutta qui, nell’essere autentico di fronte a questi due elementi: tempo e luogo. A partire da lì, l’immaginazione può portarlo dappertutto.

Ho la sensazione poi che si possa essere ugualmente autentici con davanti solo l’impressione di un luogo. Un luogo mai visto, apparso in un flash, può avere un impatto tanto forte quanto quello di un luogo a noi familiare fino al midollo, che conosciamo bene senza doverci pensar su. Ho descritto luoghi dell’uno e dell’altro caso ma mai luoghi familiari solo a metà o di cui ho tirato a indovinare – in quel caso non ci sono punti saldi.

Music from Spain((Racconto contenuto in Golden Apples, Harcourt, New York 1955, trad. it. di I. Zani, Mele d’oro, Fazi, Roma 2006.))si svolge a San Francisco.

Ecco cosa significa adoperare l’impressione di un posto. Sono stata a San Francisco solo tre o quattro mesi – è come vederla in un flash. Tutto il racconto non è stato altro che il mio responso a quel luogo, un atto d’amore, di un amore a prima vista. L’ho scritto dalla prospettiva di uno straniero, ovviamente – è l’unico modo per scrivere di posti così stravaganti. Eppure non potrei ambientare un racconto a New York, dove sono andata così tante volte – perché è insieme familiare e non familiare, una terra di nessuno.

Dove si trova Morgana, la città di Mele d’oro?

È una cittadina immaginaria del Delta. Ero attratta dal nome perché ho sempre amato l’idea che c’è dietro fata Morgana – il profilo illusorio, questo miraggio che ci viene incontro dal mare. Nel Delta tutti i posti prendono il nome da persone, quindi poteva essere benissimo che una città di nome Morgana fosse stata chiamata così da una famiglia di nome Morgan. I paesani avrebbero potuto anche non conoscere per niente la fata, le illusioni però non gli sarebbero state estranee e gli sarebbero venute incontro dai campi di cotone.

Vedi qualche relazione fra Miss Eckhart di Mele d’oro e Julia Mortimer di Losing Battles? Sono entrambe insegnanti che esprimono una forza civilizzatrice, e che per questo vengono emarginate.

Non dev’essere necessariamente «per questo», anche se emarginate lo sono, in effetti. Credo che siano imparentate, ma di insegnanti così ce ne sono in tutto il Sud e forse in tutto il mondo, addirittura – persone molto dedite che perdono le loro battaglie, anche se non sempre. Per tutte le elementari ho avuto un’unica preside di cui tutti noi ex-studenti ci ricordiamo e parliamo ancora: Miss Lorena Duling. Ora, non è per dire che ho basato i miei personaggi su di lei, però mi ha dato davvero un’immagine di cosa significhi essere una grande insegnante. Anche mia madre era una di loro. Ha insegnato fino a poco prima che nascessi, però mi ha raccontato delle storie su quel periodo. Insegnava in montagna, su nel West Virginia, andando a scuola a cavallo e guadando il fiume su una barchetta. Aveva iniziato a quindici anni, facendo lezione a ragazzi che erano più grandi di lei. Credo sia stata mia madre a guadagnare diciassette dollari d’argento durante il primo mese d’insegnamento senza poi però guadagnare mai più quella cifra: come capita a Julia Mortimer. L’influenza formativa di insegnanti così ti rimane tutta la vita.

C’è un altro gruppo di personaggi, secondo me, che sembrano ritornare all’interno dei tuoi lavori. Virgie Rainey, in Mele d’oro, è un’individualista e un’emarginata, ed è in questo senso molto simile a Robbie Reid di Nozze sul Delta e a Gloria Short di Losing Battles.

Anch’io riesco a intravedere questi modelli, col senno di poi. È curioso: mentre scrivo non mi accorgo mai dei rimandi che faccio, grandi o piccoli che siano. Sono costretta a constatarlo più tardi. Recentemente, appena dopo aver terminato Losing Battles, hanno allestito a Jackson una pièce teatrale ispirata a Il cuore di Ponder. Quel romanzo mi pareva così fresco, quando invece su Cuore di Ponder non riflettevo da anni. Ma assistendo alle prove ho iniziato a vedere pezzi e stralci che pensavo di aver inventato con Losing Battles e che invece erano presenti sotto mentite spoglie già nel romanzo precedente. E allora ho pensato: sono sgomenta, però è così. La mente funziona a quel modo. Ogni volta ci sono cose però che mi sembrano nuove.

Scrivi mai lontano da casa?

Sono riuscita a scrivere praticamente ovunque abbia provato a farlo. Mi piace scrivere a casa mia perché per i mattinieri come me è molto più conveniente. Ed è l’unico posto in cui puoi ritagliarti del tempo tenendo fuori ogni distrazione. L’ideale per i miei gusti sarebbe stendere la prima bozza in una sola seduta, poi lavorare alla revisione per tutto il tempo necessario, e poi scrivere la versione finale tutta in una volta, in modo che alla fine l’intero racconto viene steso attraverso un unico grande sforzo. Non lo si riesce a fare in nessun posto, però a casa ci si avvicina di più.

Scrivi a macchina?

Sì, ed è utile: mi aiuta ad avere la percezione che quello che sto scrivendo sia oggettivo. Riesco a correggere meglio se vedo la pagina battuta a macchina. Dopo avergli dato un’occhiata, faccio la revisione con forbici e puntine. Incollare è troppo lento, e non puoi sottolineare, invece con le puntine puoi spostare i pezzi come e dove vuoi, ed è quello che mi piace fare di più: mettere le cose al posto giusto e che più gli compete, rivelandole proprio al momento migliore. Spesso sposto delle cose dall’inizio alla fine. Piccole cose anche – un fatto, una parola –, ma cose che sono importanti per me. È possibile che abbia una mente al contrario e che faccia le cose all’inverso, essendo una destra forzata, così da rimediare a questo difetto.

Riscrivi parecchio?

Sì. Ci sono cose che lascio intatte dall’inizio alla fine: il nocciolo della storia. Se qualcosa va bene è cosa giusta non toccarla. L’aspetto più difficile per me è portare i personaggi dentro e fuori da una stanza; la meccanica di un racconto. Il semplice cambiarsi d’abito per me è quasi impossibile da descrivere senza false partenze. Bisogna essere veloci e puntuali nel delineare un’azione o un fatto del genere, e in modo tanto più diretto e pacato possibile perché non si imponga al lettore. Per me è davvero una sfida, specialmente quando devo descrivere qualcosa che non sono brava a fare, come cucire. In Losing Battles ho fatto in modo che Zia Lexie non fosse una brava cucitrice, così non ho dovuto descriverla troppo accuratamente. La cosa più facile da descrivere invece sono le emozioni.

Eppure la cosa più difficile sembrerebbero essere i meandri più segreti dell’animo umano, i suoi misteri, quel tipo di emozioni impalpabili.

Per uno scrittore, sono queste le cose con cui si inizia. Senza quella consapevolezza non si inizia un racconto; è quella la cosa che ti fa cominciare. Quella è la cosa da cui si costruiscono i personaggi, che ti fa strutturare la trama. Perché scrivi a partire da quello che hai dentro. Non puoi iniziare con l’aspetto dei personaggi e da come si esprimono e si comportano e solo più tardi arrivare a sapere cosa sentono. Devi sapere esattamente cosa c’è nei loro cuori e nella loro testa già prima che poggino solo un piede sul palco. Devi sapere già tutto, e non dirlo tutto, o non dirlo troppo in una volta sola: dire la cosa giusta al momento giusto, semplicemente. E lo stesso personaggio verrebbe descritto in modo totalmente differente se fosse in un romanzo e non in un racconto. In un racconto non entri dentro un personaggio con l’idea di svilupparlo. È nato già adulto, ed è lì presente per giocare il suo ruolo nella storia. È subordinato alla sua funzione, e al di fuori di questa non può esistere. Invece in un romanzo sì. Potresti gestire la sua crescita e tenerlo lì fermo trattenendoti dal dire tutto quello che sai, oppure al contrario lasciare che sfoghi tutto il suo influsso; persino creare una stanza per un eroe, se c’è abbastanza spazio.

Sei capace di parlarci oggettivamente della tua lingua, dell’uso che fai della metafora, per esempio?

Non saprei come fare, perché penso che l’atto di scrivere esista soltanto nel racconto. Quando penso a qualcosa, questo qualcosa lo metto in forma narrativa, non in forma analitica, quindi tutto quello che potrei dire risulterebbe artificioso. Il che mi riporta alla mente un mio amico armeno, un artista, che mi disse una volta che i suoi sogni accadevano tutti nello stesso posto. Quando andava a letto, si immaginava di scendere su una slitta giù da una collina scoscesa; ai piedi di questa collina c’era un piccolo paese, e per quando l’aveva raggiunto ormai si era addormentato, e tutti i suoi sogni avevano luogo lì. Non sapeva come e perché. E se si vuole andare sul ridicolo, e tuttavia sublime, c’è W.C. Fields che lesse un’analisi di come faceva il giocoliere. Dopo aver letto, non riuscì più a farlo per sei anni. Non aveva mai saputo com’era che si faceva. Aveva solo tirato le palline in aria e c’era riuscito.

The Art of Fiction no. 47 © The Paris Review, 1972

© Traduzione italiana di Emanuele Giammarco

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