Vista dal basso sembrava bella e i suoi movimenti facili, compiuti senza sforzo. Ora rapito dalla sua grazia, ora invidioso del suo dominio di sé, non applaudivo – unico tra tutto il pubblico – ai suoi numeri.
Il suo profilo, le sue fattezze avevano qualcosa di familiare. Era un corpo già visto altrove, erano muscoli che si tendevano e rilassavano secondo un ritmo che non mi era nuovo. In tutto ciò che faceva c’era il riverbero di qualcuno che mi pareva di conoscere. Lentamente la identificai. Giunsi alla conclusione che non poteva essere altro che la sorella gemella di un amico perso di vista parecchi anni prima. In seguito la mia deduzione si rivelò del tutto infondata, ma sul momento fece nascere in me il desiderio di avvicinarla, o meglio, rafforzò e sospinse un desiderio già esistente e che altrimenti sarebbe rimasto allo stato larvale e non si sarebbe mai tradotto in iniziativa concreta. Le avrei chiesto notizie del fratello, questo era il pretesto. Il problema era trovare quel tanto di fiducia nelle mie capacità di seduzione che mi avrebbe consentito di presentarmi al suo camerino con amabile e non ostentata disinvoltura.
Cominciò così un periodo di appostamenti. Le facevo una corte impercettibile andando allo spettacolo e restando a contemplarla mentre danzava sulla corda d’acciaio sospesa a venti metri da terra. Il dispendio di tempo e di denaro non era indifferente, e questo mi spingeva a stringere. Ma, pur fortificandomi ogni giorno di più, ero sempre debole e questo significava sospendere regolarmente la mia marcia d’avvicinamento al momento cruciale, rimandando l’approccio. Seduto su una poltroncina della prima fila, aspettavo di cogliere un segno d’incoraggiamento da parte sua, un ammicco, un’occhiata che dicesse: «Ti ho notato e sono lusingata della tua costanza». Vedevo dei piccoli cambiamenti nel suo acrobatico itinerario, messaggi in codice, una sorta di alfabeto morse fatto di passi più indugiati, di giravolte più rapide, di palpebre sbattute più volte di seguito. Non ero nuovo a questi innamoramenti a distanza, tutt’altro che platonici, anzi molto sensuali, ma inespressi, coltivati nel silenzio.
Avrei dato ascolto a queste voci di rivolta che mi parlavano dentro e mi facevano bollire il sangue, e smaniare la notte come il giorno, camminare frenetico, divorare pranzi smisurati, leggere romanzi fiume in poche ore, voci d’enciclopedia, dizionari e poi la Bibbia, il Corano, i trattati antichi d’erotismo. Tra uno spettacolo circense e l’altro cominciai a scrivere attorno a quest’acrobata, dipinsi il suo ritratto, modellai il suo corpo con la creta. Mi espandevo tumultuosamente, proliferavo e presto anche lei sarebbe stata investita dall’onda d’urto della mia vita rinascente. Tutti avrebbero dovuto assistere al trionfo che avrei riportato su me stesso. Così ruppi gli indugi.
Eccomi anch’io sul cavo d’acciaio a cercare col piede un difficile equilibrio, librato sopra le teste degli spettatori stupefatti. Un vasto oooooh! di sorpresa e timore si leva dagli astanti. L’acrobata mi guarda rabbiosa:
«Via di lì, stronzo!» grida. E io, come se nulla fosse:
«Scusi, lei è la sorella di Opicino Canistri, vero?».
«Non dire cazzate e scendi!»
«Comunque, posso invitarla a cena?»
«Va’ via, ti dico!»
La corda ondeggia paurosamente ma io sono partito e non posso fermarmi certo ora. Cerco di avanzare. Il piede sprofonda nel vuoto. L’acrobata pure. Cadiamo tra le urla generali. Rimbalziamo più volte sulla rete e mi ritrovo la bella tra le braccia. Cosa volere di più? Adesso posso parlare con calma.
Non fu così. Non ci fu alcun colloquio intimo. Ricordo un risonante ceffone, lei che si libera dalla mia dolce stretta e nerborute braccia circensi che mi sbatacchiano in un carrozzone. Rimasi al buio per alcune ore. Sentii a lungo parlare concitatamente. Pareri contrastanti: qualcuno voleva consegnarmi alla polizia; altri erano d’accordo ma non volevano togliersi la sacrosanta soddisfazione di spezzarmi preventivamente le ossa; altri ancora prediligevano solo quest’ultimo punto e se ne fregavano della giustizia; c’era poi chi proponeva di sfruttarmi come attrazione.
Oggi l’acrobata esegue il suo numero raffinato e spettacolare, strappando ogni volta applausi entusiasti e richieste di bis. Poi, secondo un copione ormai collaudato, quando lei si appresta a soddisfare i desideri del pubblico, entro in scena io recitando me stesso. Vestito da comune spettatore mi avventuro incoscientemente sul cavo e pongo all’acrobata la mia ridicola e innocente domanda. Anche il pubblico sembra pagato piuttosto che pagante, tanta è la prevedibilità delle sue reazioni e sfodera il suo rituale oooooh! di trepidazione. L’acrobata mi risponde per le rime, io avanzo, cadiamo, rimbalziamo e ci abbracciamo. Segue, purtroppo, il solito fortissimo ceffone che, ogni volta, aumenta d’intensità, quasi che la prima donna cui faccio da spalla trovi un gusto sempre nuovo nel menarmi. A conclusione del numero intervengono i brutali inservienti. La paga è da fame. Non è una bella vita e la mia immagine pubblica non ne riceve benefici. Ho provato a scappare ma non ci sono riuscito. Quando mi hanno riacciuffato, oltre a darmele di santa ragione – ormai sono una voce importante delle loro entrate – hanno minacciato di denunciarmi davvero alle autorità per tentata violenza carnale e tentato omicidio. Accuse pesanti, davanti alle quali certo soccomberei, visto l’elevato numero di persone pronte a testimoniare contro di me.
Ma c’è una cosa che mi spinge a restare più ancora delle botte e delle minacce di ritorsioni: lo schiaffo dell’acrobata non è così spiacevole come si potrebbe pensare. Credo che la veemenza sempre maggiore con cui mi viene somministrato sia di buon auspicio anche se, inutile negarlo, per ora non mi dà alcun motivo per gioire. La crescente forza delle cinque dita sulla guancia è il segno di un inconfessato desiderio di avvicinamento, di contatto fisico, di unione dei corpi. L’amore di un’acrobata viene su nell’ombra, ha tempi lunghi di maturazione, deve superare barriere interne, pedaggi, rompere le mille scorze accresciutesi intorno al suo cuore in anni di ferrea disciplina, esercizio dopo esercizio, caduta dopo caduta, umiliazione dopo umiliazione. Mette a dura prova la pazienza dello spasimante, ma poi fiorisce d’improvviso – già lo vedo – e ripaga dell’attesa.
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