Tutti, le ripeto, andiamo nella stessa direzione, verso una società dove lavoro e salario saranno una cosa completamente differente. Solo che non ce ne accorgiamo.
Robledo, l’ultimo libro di Daniele Zito (che ho intervistato qui), edito da Fazi, è un romanzo che si presenta in forma di saggio, nel quale si cerca di ricostruire nel modo più oggettivo e ampio possibile il fenomeno LPL (Lavoro per il Lavoro), sviluppatosi nell’arco di circa cinque anni dal 2009 al 2014 e studiato per primo dal giornalista Michele Robledo.
Il fenomeno è così riassumibile: si sviluppa una rete para statale che coinvolge precari e disoccupati di ogni etnia, sesso, religione ed estrazione sociale col solo scopo di infiltrarsi nelle grandi imprese per lavorare gratis; poi, quando le risorse economiche si esauriscono, questi lavoratori non convenzionali (da Robledo chiamati ghost worker) si suicidano sul luogo di lavoro. I suicidi inizialmente avvengono in solitaria, ma nel corso del tempo divengono veri e propri suicidi di massa.
Questo processo viene chiamato percorso di liberazione, una perifrasi che richiama da vicino certi fenomeni religiosi nonché, più di recente, l’inquietante pseudo gioco Blue whale (la cui veridicità è ancora tutta da dimostrare).
Qui arriviamo subito a un punto fondamentale: concentrandoci non tanto sul percorso – che, proprio come nelle sette religiose, prevede un’iniziazione, dei riti di passaggio e delle figure mentoriali – quanto sulla liberazione, bisogna evidenziare come non si tratti di liberazione dal lavoro, bensì dal salario. La tesi sociologica alla base di Robledo è che, parafrasando Aristotele nel libro A della Metafisica, tutti gli uomini tendono per natura al lavoro: l’essere umano ha bisogno di un lavoro tramite il quale realizzarsi; ha bisogno di un’occupazione che dia senso alla sua vita; insomma, ha bisogno di fare.
L’emergenza primaria degli uomini e delle donne di Robledo (che vivono nella nostra Italia, non in un universo inventato) è sentirsi utili, apprezzati, coinvolti e appartenenti a una società che, come recita l’articolo 1 della nostra Costituzione, è fondata sul lavoro. Il lavoro nobilita. Il lavoro è il fine verso cui tutto tende.
Il lavoro, non il salario. Eppure bisogna guadagnare soldi per vivere, per pagare le bollette, per costruire e mantenere una famiglia. Zito è abilissimo nel cambiare le carte in tavola, o forse semplicemente nel mostrare come stanno le cose: nella società reale si lavora per guadagnare, ma si guadagna per vivere; nella sua società il salario viene visto come mero strumento di necessità, e il lavoro come obiettivo superiore per dare senso all’esistenza. Il messaggio di fondo è che il salario (i soldi, il denaro) è e deve restare qualcosa di secondario nella vita delle persone, mentre nella società del capitale ha assunto il ruolo di fine supremo.
Sono bellissime a tal proposito le ultime pagine, quelle dei Biglietti dell’addio dei ghost worker, scritti quando ormai LPL si è evoluto a tal punto da essere diventato per i fedeli una religione, per i detrattori una rete terroristica pericolosa quanto le Brigate rosse o le cosche mafiose. Qui la filosofia di Robledo tocca il vertice. Prendiamo queste tre citazioni:
«Non provo più nemmeno paura, soltanto tristezza; tristezza per tutto il tempo che ho sprecato e per tutto il dolore che ho provocato quando ancora credevo che il salario fosse l’unica ragione di vita.»
«Prima di iniziare ero un esubero. Adesso perlomeno sono un eroe.»
«Un salario non può costituire l’unico fine di ogni attività umana.»
Poco importa se la liberazione dal salario coincide con la propria morte: come i martiri cristiani, ma anche come quelli jihadisti, l’immolazione e il sacrificio di sé diventano il simbolo dell’autodeterminazione; di quell’unica scelta che, pur prevedendo l’autodistruzione, è quantomeno propria dopo una vita priva di senso fatta di lavori precari, disoccupazione, nulla: «So già che queste parole ti faranno ridere ma, credimi, è così: gli devo la vita» confessa Gianni a Robledo durante un’intervista riferendosi a Nicola, che l’ha iniziato a LPL.
In questi Biglietti dell’addio è possibile leggere la disperazione di persone volte al disastro, ma anche l’amore verso la vita e le persone. Sono pagine piene di meraviglia e di senso, al punto che si fa quasi fatica a pensare che siano inventate. Sembrano storie vere di persone vere, così come sembrano veri gli articoli di giornale e le inchieste che vengono raccontati in Robledo.
Questo mi porta a un punto fondamentale della recensione: lo stile. Presentandosi come saggio onnicomprensivo, il romanzo di Zito è composto di varie parti: quaderni e diari personali di Robledo, ritagli di giornale e comunicati stampa, biglietti, saggi. Ogni parte, così come ogni voce, ha una sua propria personalità. Il risultato è un testo post moderno, frastagliato e caotico anche (soprattutto) nel tentativo di voler rappresentare nella sua interezza un fenomeno complesso quale LPL. Come qualsiasi fenomeno sociale e politico di un certo livello, infatti, anche LPL esplode sui mezzi d’informazione e viene veicolato tramite social network, giornali, telegiornali. Chi lo avoca a sé e chi vuole demolirlo se ne appropria e ne parla tramite il linguaggio che gli è proprio: la Chiesa lo demonizza, vedendolo come «tappa di un percorso più ampio che non si conclude come dovrebbe (nel Regno dei Cieli), ma nel suo opposto: il nulla»; l’estrema destra «ritiene che dietro LPL si celi la longa manus del complotto internazionale pluto-giudaico-massonico»; l’estrema sinistra considera il «Lavoro per il Lavoro […] l’ultima frontiera del marxismo».
Trattando del precariato (in senso ampio: lavorativo ma anche esistenziale), Zito sviluppa tutta una serie di micro temi attinenti al grande calderone tematico del lavoro: si parla di discriminazioni sessuali e razziali, di raccomandazioni, di mafia e caporalato. Con una voce potente, distruttiva e totalizzante, Zito sembra voler aprire il vaso di Pandora e tirare fuori tutta la rabbia e la disperazione verso il sistema capitalistico avanzato che, elevando il denaro a nuova e onnipotente divinità, ha ridotto l’essere umano e le sue relazioni affettive al nulla.
Il risultato è un libro eclettico e visionario, in grado di analizzare con estrema lucidità la nostra contemporaneità e il nostro disagio. Un libro consigliatissimo, soprattutto a chi ama autori come Aldo Nove (Superwoobinda) e Chuck Palahniuk (Fight club), ma anche film come L’esercito delle dodici scimmie.
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