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Yiyun Li è nata a Pechino nel 1972. Nel 1996, una volta laureata in Medicina, si è trasferita negli Stati Uniti, dove vive tuttora. Ha scritto su The Paris Review e sul New Yorker, che nel 2010 l’ha nominata tra i venti migliori scrittori americani con meno di quarant’anni. Ha scritto due libri di racconti: Mille anni di preghiere (con cui ha vinto il Frank O’Connor Short Story Award, il PEN/Hemingway Award e il Guardian First Book Award; traduzione di Eva Kampmann, Einaudi, 2007) e Gold Boy, Emerald Girl (uscirà il prossimo anno sempre per Einaudi); e due romanzi: I girovaghi (traduzione di Eva Kampmann, Einaudi 2010) e Più gentile della solitudine (traduzione di Laura Noulian, Einaudi 2015), che le sono valsi l’apprezzamento di autori come Salman Rushdie, Colum McCann e Franco Cordelli, che per l’ultimo aveva scomodato a suo tempo la categoria di libro dell’anno.

Unknown

Le abbiamo estorto quest’intervista dopo aver letto il suo memoir Dear Friend, from My Life I Write to You in Your Life (pubblicato da Penguin Random House e in uscita prossimamente per NN in Italia), in cui dà conto del suo apprendistato come scrittrice, dei suoi due tentativi di suicidio e del suo ritrovarsi e guarire grazie alla letteratura, il tutto scritto mediante una lettera indirizzata ai suoi lettori. Marilynne Robinson ha definito il libro «una meditazione sul fatto che la letteratura ha vita propria e essa stessa ha la capacità di donare la vita».

In letteratura, il dibattito attorno alla questione fiction e autofiction è sempre scottante, ma ancor di più in questi tempi quando sono in molti a scrivere testi narrativi non facilmente classificabili, in cui i confini tra cosa è fiction e cosa non lo è sono sempre più sfumati e volutamente confusi. Prima di pubblicare Dear Friend, from My Life I Write to You in Your Life (il titolo è una citazione dai diari di Katherine Mansfield), negavi fermamente e non accettavi di essere una scrittrice autobiografica. In che modo scrivere questo memoir ti ha fatto cambiare prospettiva? Come hai superato la tua risaputa reticenza e il desiderio di essere anonima e invisibile?

Potremmo arrivare al punto di dire che tutta la narrativa è autobiografica, o perlomeno che nessuna letteratura è esentata dall’essere autobiografica. Penso piuttosto che scrivere questo memoir sia stato più un processo di riconciliazione con il fatto che qualsiasi cosa sia scritta è scritta all’interno della cornice percettiva dell’autore. E si possono congegnare plot o personaggi e tante altre cose in narrativa, ma di sicuro non ci si può inventare una percezione.

Non penso di aver superato del tutto il mio desiderio di essere anonima e invisibile, ma sono arrivata anche a capire che non sempre ciò che si desidera può essere ottenuto.

Come Nabokov o più di recente Jhumpa Lahiri, tu non scrivi nella tua lingua natia e, anzi, l’inglese lo hai imparato solo una volta raggiunti gli Stati Uniti. Di recente hai scritto un bellissimo pezzo sul New Yorker in cui spieghi il perché di questa scelta. Scriveresti le stesse cose se scrivessi in cinese? O scrivere in inglese inevitabilmente forgia la natura di ciò che scrivi? È vero quello che dice Mr Shi in uno dei tuoi racconti che un paese straniero fa venire pensieri stranieri?

Il passaggio dal russo all’inglese di Nabokov è stato per certi versi obbligato: aveva perso la sua lingua naturale perché aveva smarrito la fisicità di quella lingua. La decisione di Jhumpa Lahiri di passare dall’inglese all’italiano mi affascina. Aveva la possibilità di fare una scelta, perché magari, in questo momento, l’opzione della sua lingua madre non funzionava più per lei. Per me è difficile immaginarmi a scrivere in cinese. Avrei gli stessi pensieri, la stessa precisione, o addirittura sentirei la stessa necessità di scrivere? Probabilmente no. Talvolta, un paese straniero fa venire pensieri stranieri, e nel mio caso particolare, anche la possibilità di scrivere pensieri pensati in una nuova lingua.

Prima di Dear Friend, hai scritto due raccolte di racconti e due romanzi. È vero come vuole il cliché che le short stories sono più difficili da scrivere o in realtà sono i romanzi a esercitare la pressione maggiore sul narratore? E – dovendone proprio scegliere una delle due – ti diresti più una scrittrice di racconti o ti vedi più come una romanziera?

Mi dedico a entrambe le forme nella stessa misura, ed entrambe portano con sé umori e gioie differenti. I racconti non sono più difficili da scrivere, ma è una forma che richiede il tipo di precisione che in un romanzo puoi trascurare, magari facendola anche franca se riesci a mascherarla bene. Devo per forza sceglierne una? Spalle al muro, la metterei come usava dire il mio mentore William Trevor: sono uno scrittore di racconti che scrive romanzi.

Molti autori di short stories come te – e penso a Chimamanda Ngozi Adichie, a Altaf Tyrewala, a Mia Alvar – hanno perfezionato una certa abilità nello scrivere racconti alla prima persona plurale. Personalmente, uno dei miei preferiti della tua produzione è Immortalità (ma anche Cachi!) ed è scritto con quella prospettiva. Che opportunità offre a un narratore scrivere da quel punto di vista? Hai mai pensato di cimentarti con quella prospettiva in un romanzo come hanno fatto Jeffrey Eugenides, Joshua Ferris, Chang-Rae Lee, Jennifer Egan e Julie Otsuka?

Che bella domanda! Adoro scrivere alla prima plurale: quella voce comune, pettegola, irresponsabile, alle volte timida, e altre volte inaffidabile. Chiunque venga da una cultura antica o semplicemente da una cultura che esercita una pressione costante sulla vita comunitaria ha presente quella voce! Scriverei mai un romanzo al «noi»? Non lo so, ora come ora ti direi di no, ma mai dire mai!

Due tuoi racconti sono stati adattati a film. Com’è stato avere le tue parole tradotte in immagini? Qual è stato il tuo ruolo in queste produzioni?

Non sono una scrittrice molto immaginifica, e non prendo le mosse dalle immagini né ci penso poi troppo quando scrivo, così è stato interessante veder prendere vita quei personaggi in una maniera così fattuale e visiva. È molto più strano che non scrivere in un’altra lingua! Il linguaggio filmico è in effetti proprio un’altra lingua per me, e almeno in quella non sono particolarmente fluente. A ogni modo sono stata io a scrivere la sceneggiatura di Mille anni di preghiere, e ho anche passato qualche giorno sul set a leggere le battute con gli attori. Altra cosa interessante per me, visto che sono abituata a lavorare da sola in un posto isolato, mentre filmare è un’attività di gruppo. Ecco, quella potrebbe essere una storia narrata alla prima plurale!

Tuo padre era un fisico nucleare, e tu stessa eri una bambina prodigio in matematica e quando sei emigrata negli Stati Uniti ti sei laureata in medicina e hai fatto l’immunologa prima di passare alle materie umanistiche. Che impatto ha avuto il tuo retaggio scientifico nella tua scrittura? Quando penso alla morte di Shaoai in Più gentile della solitudine mi sembri ben attrezzata per scriverne…

Sono contenta del mio addestramento scientifico. Mi ha dato una disciplina: gli scienziati non se ne stanno seduti a ciondolare da qualche parte in attesa dell’ispirazione e non hanno certo timore di fallire. Mi ha anche insegnato che filosoficamente tutto va affrontato come un’ipotesi piuttosto che dichiarato come un fatto. Quindi, tutti i personaggi sono ipotesi, e bisogna avvicinarcisi con curiosità per conoscerli un po’ meglio, ma non ci si può aspettare di cavarne fuori una verità inconfutabile, perché nessuno nelle scienze può ambire a una cosa simile. Poi chiaro, qualche conoscenza scientifica – e medica nel caso in questione – è abbastanza utile se vuoi far avvelenare qualcuno!

Nei tuoi racconti e romanzi vedo che spesso utilizzi vecchi proverbi e adagi, e poi hai perfino scritto La storia di Gilgamesh, un libro per bambini illustrato da Marco Lorenzetti e alcune incredibili fiabe moderne sotto la guisa di short stories. Quanto ti abbeveri al pozzo senza fondo delle storie popolari e della saggezza antica?

Non credo di farlo consciamente ma le storie popolari e la saggezza antica continuano a sopravvivere perché trovano sempre il modo di entrare nella vita quotidiana. E fanno parte della nostra coscienza (e ancora più spesso della nostra coscienza comune). Le uso perché so che i miei personaggi le adoperano per metabolizzare la realtà.

So che ti definisci una scrittrice apolitica e – va da sé – non è certo compito tuo quello di fornire commenti sulla politica internazionale, ma essendo tu sia cinese sia statunitense posso chiederti che idea ti sei fatta di Trump e della morte recente di Liu Xiaobo?

Trump non può essere etichettato come una vera tragedia, né come una vera commedia e nemmeno come una farsa. Se lo chiedi a me, è terribile oltre ogni immaginazione! Il problema è che se uno volesse scriverci qualcosa sopra non è neppure granché come personaggio. Shakespeare riuscirebbe a tirarne fuori un personaggio decente in un dramma? Non lo so mica.

Oltre che una vicenda personale per lui e la sua famiglia e gli amici che gli erano legati, la morte di Liu Xiaobo è chiaramente simbolica. Mi chiedo spesso se la generazione dei ragazzi più giovani in Cina si renda conto del perché un uomo come lui ha fatto quel che ha fatto. Secondo me, no.

Avevi sedici anni quando successe Tienanmen e come molti altri della tua generazione sei andata incontro a un periodo di rieducazione militare durante la quale – almeno a stare all’edizione italiana di Mille anni di preghiere – qualcuno ti ha strappato di mano un libro di Hemingway che stavi leggendo in segreto facendolo a pezzi di fronte a te. Com’era la vita in quegli anni e come si riusciva a leggere e a pensare per sé?

Guardandomi indietro, quell’esperienza militare mi è stata utile. A quel tempo era una specie di malattia cronica ma non fatale che uno doveva affrontare per andare avanti. Sapevi che saresti guarito prima o dopo, ma saperlo non ti faceva stare molto meglio. Ho letto per buona parte della mia vita sotto le armi. Praticamente era l’unica cosa che potessi fare per isolarmi e distrarmi dai rumori di fondo e dalle molte spiacevolezze. Non sarei sopravvissuta senza i libri.

Di recente ho visto un tuo blurb in un posto in cui non mi sarei aspettato di trovarlo, Il tuffo di Jonathan Lee (traduzione di Sara Reggiani, SUR 2017), e questo mi offre la scusa per chiederti se ci sono altri scrittori contemporanei che ammiri o se hai letto qualcuno che ha un percorso simile al tuo. Se preferisci puoi derubricare la domanda alla voce cosa leggi e perché.

Uno scrittore che ammiro e non è così diffusamente conosciuto è Tom Drury. Jon McGregor poi. Mi è piaciuta molto una storia di una scrittrice italiana, Elisabetta Rasy: un racconto impossibile da dimenticare. Leggo moltissimi contemporanei diversi tra loro, ma la mia dieta abituale quanto a libri è fatta soprattutto di autori morti.

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