La mattina del 9 maggio 1997 una pallottola colpisce alla testa la studentessa Marta Russo mentre sta passeggiando in un viale dell’università La Sapienza. Chi l’ha uccisa e perché? Il caso diventa subito una questione nazionale. Gli inquirenti si convincono che a sparare è stato il dottorando Giovanni Scattone, con la complicità del collega Salvatore Ferraro. Una vicenda dai contorni surreali e dalle sfumature oscure che porterà alla condanna dei due universitari. Ma quello per l’omicidio di Marta Russo è stato uno dei processi più controversi della storia giudiziaria italiana. Definito il primo processo mediatico del nostro paese, ha avuto una sentenza che ancora oggi lascia perplessi o sbigottiti gli esperti che hanno seguito l’iter in aula e studiato le carte. Tra questi il giornalista e scrittore Vittorio Pezzuto che ha prodotto un libro-inchiesta, Marta Russo, di sicuro c’è solo che è morta, penetrando nelle viscere di un caso complicatissimo per la mole di materiale da analizzare e che allo stesso tempo ha messo in luce delle pericolose storture nel sistema giudiziario e nel rapporto dell’opinione pubblica nei confronti della cronaca nera. Che ruolo hanno giocato la mediazione del Quarto potere e le pressioni dei quadri dirigenziali delle forze di polizia? Queste e molte altre risposte nel libro che ha raccolto una lunga serie di rifiuti editoriali, accompagnati dai motivi più diversi e in vendita direttamente su Amazon.
Abbiamo raggiunto Vittorio Pezzuto per un’intervista sul libro e sul caso.
Partiamo dal caso editoriale, hai affermato che molti editori si sono rifiutati di pubblicare questo libro per i più disparati motivi – dalla paura di essere citati in giudizio, al timore di fiasco commerciale, all’idea che non fosse più un fatto interessante per il pubblico. Sono motivazioni facilmente attaccabili, che idea ti sei fatto sul vero perché? Esiste una marcata condiscendenza al potere da parte del settore editoriale che non dipende soltanto da cosa si pensa possa piacere al pubblico – e quindi da logiche commerciali –, ma ha più a che fare invece con una specie di pigrizia intellettuale non dovuta?
È così, purtroppo. Vi lavorano spesso persone che s’illudono di appartenere a un’avanguardia intellettuale e che invece militano, a loro insaputa, nella retroguardia dei social network. La saggistica vive in questi anni una crisi senza precedenti: di idee, di coraggio, di voglia di stupire e scandalizzare. D’altra parte i rifiuti che il mio libro ha collezionato spesso sono stati immediati, senza che fosse stata letta nemmeno una sua sola riga. In questo settore ci si muove evidentemente per istinto, che è cosa ben diversa dall’intuito. Oltre a non saper leggere, molti responsabili di case editrici non sanno poi nemmeno scrivere: lo dimostra il fatto che da loro non ho ricevuto nemmeno una cortese mail di risposta.
Si può tracciare un parallelo tra questo tipo di atteggiamento degli editori e il comportamento degli organi di informazione e dell’opinione pubblica nei confronti del caso Marta Russo? Cioè, in Italia, l’indolenza che non fa scavare a fondo nei fatti, la mancanza di senso critico, l’accettazione indiscriminata delle fonti istituzionali e il fuorviante coinvolgimento emotivo, sono elementi comuni all’uomo della strada, al giornalista e all’editore?
Potrei parafrasare Leo Longanesi: in Italia non manca la libertà, mancano i giornalisti liberi. Molti cronisti giudiziari difettano di curiosità, amore per il proprio lavoro, tempo e voglia di verificare le fonti. Nel caso Marta Russo non sono però mancate lodevoli eccezioni a questa regola, e grazie alla tigna di pochi l’opinione pubblica ha potuto conoscere aspetti di questa vicenda che altrimenti sarebbero rimasti ignorati.
Passando ai fatti raccontati nel libro, hai spiegato che il caso Marta Russo arriva in un contesto molto particolare. La Procura di Roma ha appena incassato cocenti delusioni per una serie di delitti insoluti e l’idea è che le troppe pressioni abbiano agevolato tutta quella serie di errori, gravi forzature e storture durante le indagini e il processo.
Questa storia potrebbe ricordare da vicino Il vecchio e il mare, celebre apologo scritto da Hernest Hemingway. Al pari del pescatore cubano Santiago, la Procura di Roma stava soffrendo da tempo brucianti sconfitte. Simonetta Cesaroni, la contessa Alberica Filo della Torre, Antonella Di Veroli, Giuseppina Nicoloso: tutti casi di donne assassinate nella Capitale, clamorosi e insoluti (clamorosi anche perché insoluti), che avevano scosso la fiducia nella capacità investigativa delle forze dell’ordine. L’inspiegabile omicidio di Marta Russo diventa così una preziosa occasione di riscatto. È quindi comprensibile la soddisfazione con la quale, un mese dopo il delitto, il questore Monaco annunciava soddisfatto alla stampa l’arresto di Ferraro e Scattone: «Il caso è chiuso, sono stati loro!». Come nel caso del gigantesco marlin preso all’amo da Santiago, da quel momento sono però iniziati i problemi. Nonostante tutti gli sforzi dell’equipaggio di piazzale Clodio, il prodigioso trofeo non ha retto alla lunga traversata tra la chiusura dell’inchiesta e il verdetto definitivo di colpevolezza. La pesca miracolosa dei due assassini (già monca dell’arma del delitto) si è così ridotta nella carcassa a brandelli di un teorema a senso unico. Il buon senso e la logica hanno fatto sparire nell’ordine: il muro di omertà eretto alla Sapienza, il ruolo del professor Romano quale regista nel depistaggio delle indagini, le tante cose viste e fatte dalla Lipari nei minuti tra una telefonata e l’altra, gli scritti inquietanti trovati a casa dei due ragazzi, il seminario sul delitto perfetto, l’importanza cruciale dei tardivi ricordi di Giuliana Olzai, il valore inattaccabile delle perizie tanto sulla traiettoria del colpo quanto sulle particelle trovate sul davanzale dell’aula 6 e nella borsa di Ferraro, la volontarietà dell’omicidio, le pulsioni superomistiche prese in prestito a Nietzsche e la complicità dell’usciere Liparota. Dopo 71 udienze e quasi 15mila pagine di atti e verbali, in mano all’accusa sono rimaste soltanto la controversa testimonianza di Gabriella Aletto e la complicità decisiva del diavolo. Ben poco, ma abbastanza per far riassaporare alla Procura di Roma il sapore non del successo pieno ma quantomeno del suo surrogato. Una pietanza, beninteso, per palati di bocca buona.
Concentriamoci sul primo e più importante punto. Secondo te cosa ha spinto i giudici a emettere una sentenza di colpevolezza senza un movente e come si può inquadrare questo orientamento a livello giuridico? Mi viene in mente un film di Sidney Lumet del 1957, 12 Angry Men – La parola ai giurati, in cui si problematizza il cosiddetto ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato…
Privi com’erano di prove concrete, i giudici popolari sono stati inconsciamente influenzati nel loro giudizio da mesi e mesi di articoli e servizi televisivi a senso unico, che dipingevano Scattone e Ferraro come assassini cinici e mentalmente disturbati. Altra ragione non riesco e non voglio darmela.
Il filosofo Gianni Vattimo definì il caso Marta Russo come «una vicenda perfettamente mediatica: un racconto di fantasia che procede a puntate affastellando elementi narrativi, caratterizzazioni di personaggi, descrizioni accattivanti di sfondi ambienti e vicende collaterali che adescano l’attenzione di un pubblico eccitato e vorace». Qui sembra di essere nel campo della narrativa. Com’è possibile che un tribunale diventi un palcoscenico e che – potremmo dire – la rottura dell’illusione scenica metta direttamente in comunicazione i protagonisti – accusa difesa giudici e imputati – e gli spettatori – l’opinione pubblica e i telespettatori?
Sono portato a credere che normalmente accada qualcosa di peggio: di una vicenda giudiziaria si parla e dibatte nell’immediatezza nel fatto e nei lunghi mesi che precedono il rinvio a giudizio. È allora che si creano i presupposti per il giudizio finale. Una volta giunto in tribunale, quel caso interessa molto meno. Il rituale del processo annoia, il confronto tra accusa e difesa è un deja vu di quanto si è già letto e il tutto appare ormai come la rimasticatura di un copione noto. I giornali vi dedicano sempre meno attenzione, a meno che nel frattempo non accada un fatto che altera gli equilibri in campo. Importa soltanto lo spettacolo che un processo può garantire al pubblico, non il tipo di giustizia che è in grado di assicurare.
Il processo mediatico si è basato specialmente sull’interpretazione – piuttosto campata in aria – delle reazioni degli imputati di fronte alle telecamere o nelle aule di tribunale (oltre che seguendo pedissequamente alcune forzature delle fonti istituzionali senza porsi troppe domande). Secondo l’accusa giornalistica Ferraro e Scattone sarebbero stati sempre troppo tranquilli, calmi e freddi nel negare di aver commesso il reato o nel ricostruire i propri alibi. L’impressione è che si sia trasformata una branca della crimonologia, il criminal profiling, in una disciplina alla portata di tutti. Credi che in Italia ci sia bisogno, come negli Stati Uniti per esempio, di una formazione molto più strutturata in queste materie, soprattutto per le forze dell’ordine ma anche per chi fa giornalismo?
Le forze di polizia sono per legge assoggettate all’autorità giudiziaria: un limite che ne sta minando lentamente le capacità operative sul campo, tant’è vero che ormai le indagini vengono spesso cucinate usando come unici ingredienti le intercettazioni telefoniche. Quanto ai giornalisti, che dire? Molti di loro scrivono senza aver mai letto gli atti. Preferiscono andare a naso. Ma è un naso sovente tappato da pregiudizi e soprattutto dall’ansia di non prendere un buco dalla concorrenza. Scelgono così di tutelarsi adottando in maniera acritica le tesi della Procura quando non addirittura diffondendo materiali d’inchiesta ancora coperti dal segreto istruttorio.
Gabriella Alletto, la supertestimone del processo, come si evince dai verbali e dalle intercettazioni subì un incessante lavorio di persuasione o quantomeno di forte pressione psicologica (sia da parte delle forze dell’ordine che da parte del cognato) affinché collocasse gli imputati sulla scena del delitto – al 14esimo interrogatorio dopo aver negato per i precedenti 13. Poniamo – per ipotesi – che la testimonianza di Alletto non sia stata del tutto verosimile, cosa credi l’abbia spinta a fornire una versione dei fatti diversa dalla realtà? Si tratterebbe soltanto di una questione psicologica o c’è dell’altro?
La Alletto è una donna piccola piccola: ha accusato solo per difendersi dall’inchiesta e ha mentito per salvare la tranquillità sua e dei sui familiari, impaurita da una storia troppo più grande di lei.
In Italia la privazione della libertà tramite la detenzione ha la finalità di riabilitare i condannati per il reinserimento in società da uomini onesti. Eppure, nel settembre 2015, Giovanni Scattone è stato costretto a rinunciare alla cattedra all’istituto Einaudi di Roma a causa delle proteste di genitori e opinione pubblica. In Italia a che punto siamo in questo senso? Hai registrato qualche effetto positivo successivo a questa vicenda, la riapertura di una discussione, un confronto nuovo?
Nulla di tutto questo. Finora non è giunta alcuna reazione da parte dei magistrati che si occuparono del caso né dai tanti cronisti che, travestiti da turisti del mistero, in quegli anni si sono impunemente accaniti contro gli imputati, esercitandosi a tavolino con pezzi che volevano essere di colore ma che invece mostravano un’unica tinta: quella dello squallore.
I genitori di Marta Russo si sono schierati a favore della sentenza e contro la riabilitazione di Scattone come insegnante. Tu che sei riuscito a penetrare nelle viscere di una storia così complessa e ne hai sondato ogni angolo, cosa ti senti di consigliare o dire alla famiglia Russo?
A loro mi sento soltanto di rivolgere un pubblico ringraziamento. Hanno tenuto un comportamento esemplare, chiedendo sempre giustizia e mai vendetta. E negli ultimi venti anni la onlus che hanno intitolato alla figlia ha svolto un lavoro encomiabile per diffondere la cultura della donazione degli organi. Furono peraltro loro i primi a dare l’esempio, per rispettare la volontà che tempo prima era stata espressa in tal senso da Marta. E allora la donazione degli organi non era così comune.
Alla fine del libro delinei alcune ipotesi alternative per la risoluzione del mistero, piste che non sono state battute dagli inquirenti ma che ne avevano tutti i requisiti. Ce n’è una in particolare che avresti seguito?
Sono un giornalista, non voglio varcare il perimetro della mia professione. Ma se fossi un magistrato non lavorerei mai per teoremi indimostrati e che per stare un poco in piedi obbligano a forzare tutti gli elementi in un’unica direzione, dando vita a una sorta di Tetris mal riuscito.
Dopo un lavoro mastodontico di questo tipo, condotto con perizia e passione, ci si aspetta che non troverai ostacoli a pubblicare il tuo prossimo lavoro, o almeno ce lo aspetteremmo in un mondo normale. Quindi ti chiedo, stai lavorando a qualcos’altro?
Sto lavorando a un volumetto di ricordi della mia militanza nel Partito radicale, che affrontano con uno stile scanzonato una storia seria e irripetibile: quella della determinata e allegra armata Brancaleone che negli anni Ottanta e Novanta ha combattuto con le armi della nonviolenza al fianco di Marco Pannella. Una formula pensata per attirare soprattutto l’attenzione di quanti – troppo giovani o allora troppo distanti – sono forse curiosi di capire finalmente il di dentro di una stagione fatta di passione, fantasia e marciapiedi. È quasi pronto, manca solo l’editore. Come al solito, mi verrebbe da aggiungere.
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