L’uomo misura, ma è anche misurato, limitato, controllato dalla realtà. È misurato dalle sue sensazioni, dai suoi sentimenti e dai suoi pensieri. Anche il corpo, con la progressiva degenerazione, gli ricorda che il tempo lo sta misurando. Eppure quando il dolore e la gioia, così come l’inquietudine e l’appagamento, stanno per essere quantificati allora i calcoli si perdono. Le emozioni straboccano, misurarle è quasi impossibile e il loro valore dipende dalla forza con cui le abbiamo avvertite. Roberto Camurri racconta quanto sia difficile contenerle attraverso storie che procedono per percezioni. Insieme formano il suo libro d’esordio, un romanzo di racconti – A misura d’uomo – pubblicato da NN editore all’inizio del 2018.
Sassi, Polvere, Erba, Asfalto, Buio, Neve, Ghiaccio, Disgelo, Cielo, Albero, Mare. I capitoli, che portano i nomi di cose che si possono vedere o toccare o sentire, non hanno un ordine cronologico e seguono le dinamiche erranti della memoria. Alla mente i contenuti si presentano in una successione indipendente dal prima e dal dopo.
Le relazioni di Davide, Valerio, Anela si legano e si sciolgono a Fabbrico, un paese dell’Emilia Romagna, ma potrebbe essere una località sperduta tra le campagne della Provenza o tra le pianure poco battute degli Stati Uniti d’America. I suoi abitanti potrebbero parlare tedesco o spagnolo. I personaggi sarebbero comunque loro, con le rispettive personalità e i vissuti che Camurri gli affida. In fondo si vive, si muore, si ama e si odia in qualsiasi parte del mondo.
Invece a Fabbrico si parla italiano, mentre si cammina lungo strade costeggiate da canali. Il clima è umido e ci vivono poco meno di settemila anime. Che il paese sia proprio Fabbrico, forse, ha una sua importanza e soprattutto lo ha per le dimensioni. Fabbrico è un piccolo spazio misurabile e misura le esistenze di chi ci vive, calcolando le distanze che si estendono per dividerli o per unirli.
Qui non ci sono dispersioni ma concentrazioni di umori che confluiscono in conflitti e in riappacificazioni. Le vicinanze a Fabbrico sono forzate e gli allontanamenti si ottengono solo cambiando città. Davide e Valerio si incontrano, si separano e poi si ritrovano. Accanto a loro Mario, Elena, Luigi, Maddalena, Paolo, la Bice, Giuseppe. Ognuno attraversa un percorso tracciato da ricordi che spingono a fare retromarcia. Fabbrico è come la terra piatta che costringe a un passo indietro per non cadere nel burrone. Allora è necessario andare nei luoghi dove le esperienze sono state già esaurite.
«Quando è in cima si ferma e guarda Fabbrico dall’alto, guarda i colori che si allungano in basso, gli uccelli che volano in quel cielo, l’erba e i filari e i campi, l’acquedotto più in fondo e le case colorate tutte uguali, gli aironi in piedi in mezzo al canale; pensa che non si è pentito nemmeno per un secondo di essere tornato.»
Si ritorna con l’aspettativa che tutto sia rimasto al suo posto. Basta poco per scoprire il cambiamento, e veloce arriva la consapevolezza che anche in un posto minuscolo e nascosto le cose si muovono.
Davide e Valerio sono amici, estranei e ancora amici. La lontananza è prima voluta, poi forzata. Il loro avvicinamento è il risultato di un senso di colpa e la colpa forse è il carico emotivo che più pesa sui protagonisti. Non su Anela, però: appare come la donna che guarda avanti e in grembo porta i segni del futuro. Avrà sentito pure lei la gola stringere per l’idea di un errore che in verità nessuno ha commesso. Ma il suo è un malessere fisiologico e destinato a risolversi, perché Anela è portata a vedere nuove possibilità ovunque e in chiunque, anche nei fiori e nelle piante del giardino di casa di cui si prende cura. Suo fratello, al contrario, dimentica l’importanza dell’attenzione e sceglie l’indifferenza e, non a caso, è l’unico personaggio insieme alla moglie a non avere un nome. Con la sorella Anela sembra avere una sola cosa in comune: non si guarda alle spalle e avanza, senza chiedersi se proprio nel suo caso invece non sarebbe stato meglio mettere un piede dietro l’altro, girarsi e ritornare al punto iniziale.
Intanto Davide e Valerio si abbracciano, si dividono e si riuniscono. Intorno a loro la pioggia, la neve, i primi amori, le prime delusioni e le prime perdite.
A misura d’uomo mostra più colori che pensieri e più odori che dialoghi. Maddalena, ad esempio, è bianca e leggera mentre Paolo è nero e ruvido. Si misurano a vicenda e scoprono i colori che non li accomunano. Mario e Elena misurano la loro complicità, iniziata con il racconto su un tricheco in calore rifiutato dalla compagna. Lei, bella anche con troppi colori addosso, al contrario della femmina di tricheco accoglie Mario e asseconda la sua sessualità. Lo chiamo cucciolo, lo coccola.
La Bice è anziana e sembra di vederla quando si accende la sigaretta prima di aprire il bar. Le rughe si mescolano al fumo rilasciato dal suo unico vizio, consumato nelle prime ore della giornata. Ad amare le sue rughe e il suo vizio c’è Giuseppe, un pezzo di storia a Fabbrico, capace di spostare la neve con le gambe ormai deboli.
Davide e Anela ora sono insieme. Si rivede il mare coi loro occhi. Lui pensa alle parole che non ha mai detto e che avrebbe voluto dire, lei a come vorrebbe rivederlo nella forma in cui lo aveva conosciuto.
Comunque il mare si ritrova facilmente. Anche se da Fabbrico un po’ di strada in macchina devi farla per raggiungerlo, mentre oltre il finestrino ti accorgi della «pianura che diventa collina e poi montagna, l’aria che diventa sempre più fredda, i paesi in mezzo a quei boschi».
E non importa se il sole si è raffreddato con l’autunno che arriva per chiudere l’estate. La superficie d’acqua salata sarà sempre un riferimento quando si perderanno le coordinate. Le onde segneranno i minuti all’infinito. Il mare era al principio di A Misura d’uomo e ricompare alla fine come se gli anni passati in realtà fossero solo alcune stagioni. Ma non è una fine vera. È soltanto uno dei tanti pezzi che fanno avanti e indietro nella memoria collettiva. Come il mare che lascia la spiaggia per ritornare, andare via e ritornare ancora. Il tempo ci misura e ci dà sicurezze. Camurri le abbandona e le inquietudini non calcolabili straripano libere tra le pagine del suo romanzo.
«Pensa ad Anela come alla sua àncora, il suo centro, la corda che lo tiene al sicuro nel mare delle emozioni che gli scoppiano nella pancia, pensa ai momenti belli che hanno passato, ai suoi sorrisi che, nel tempo, si sono affievoliti, alla luce che hanno perso, ai suoi occhi.»
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