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Tre giorni a Bucarest seguendo le orme di tre grandi scrittori. Una città unica sulle strade tracciate dalla sua letteratura.
La magnificante città di Mircea Cărtărescu
Notte
L’alloggio è in alto, un ottavo piano che dà molta serenità. Un intenso odore culinario viene dai piani più bassi: sembra un miscuglio di cipolle, aglio e peperoni fritti con paprika, il tutto amalgamato in panna acida. Si inietta nei sensi e nella sensualità delle strade buie. Ecco Bucarest accogliere il visitatore, introdurlo nei suoi meandri magnifici. La notte chiama, Lipscani è a poca distanza, il fremito poliedrico è lì.
Nelle notti d’estate mi divertivo a immaginare uomini crocifissi con la corona di spine sul capo, inchiodati uno dopo l’altro sulla sequenza infinita di pali. Smunti e zazzeruti, con un panno umido intorno ai fianchi, avrebbero seguito, con gli occhi appannati di lacrime, lo scorrere delle auto sul selciato. Due o tre bambini, chissà perché ancora in giro a quell’ora, a notte inoltrata, si sarebbero fermati a guardare il Cristo più vicino, volgendo verso la luna i visini triangolari.
Il sapore della notte è vivace, per le vie del centro storico ululati dalle sembianze musicali devastano i timpani. Siamo nel cuore della movida della capitale rumena, Lipscani è un crocevia di locali che si susseguono come bancarelle nelle fiere di paese. Aggressivissimi buttadentro provano a strapparti dal cammino per spillarti fino all’ultimo leu, bisogna scansarli con maestria, usare movenze feline, scrollarti le loro mani dalle tue braccia, porre indifferenza. In determinate situazioni è sempre meglio prendere una strada limitrofa, intrufolarsi in un bar che può sembrare noioso dall’esterno, ma dove almeno si può bere in pace. Così fu di ritrovarsi al Metal Jack dove c’è una ragazza moldava che con la sua band suona del rock piacevole. Poca gente ma allegra, delle ragazze ci coinvolgono all’istante, vestite alla moda e con un perfetto inglese. Non cercano l’uomo precario italiano che le porti nella ricca Italia, roba anni ottanta ormai, sono ragazze che potresti serenamente conoscere a Berlino o in altra capitale del nord-europa. Sono solamente cordiali con i visitatori. Hanno lavori più stabili del mio e sono felice di non dovere passare lunghe ore a fare giochi di sguardi per non concludere nulla come a Milano. Ci trascinano in un altro posto, un vero e proprio club con tutti i crismi dell’underground europeo: elettronica nella sala grande, funky in quella più piccina, ampia zona fumatori all’esterno, benvenuti al Control. Se visitando Bucarest decidete di fare una serata fino all’alba non penso si possa ambire a un locale migliore.
Tutte le proprietà furono subito riassorbite nella matrice ultima: la notte. Notte che a sua volta svanì nel non-scritto, nell’impensato, nell’esistente. Nella pagina bianca sulla quale sono chino e che non profanerò più col seme osceno della mia biro.
Mircea Cărtărescu è il più autorevole scrittore rumeno contemporaneo. Le sue opere sono tradotte nelle più importanti lingue europee, la sua prosa è unica perché riesce a far convergere diversi generi in un unico stile. Leggendolo si può conoscere una Bucarest immaginifica e delirante. Potrei azzardare a definirlo un Marquez gotico amante della visceralità e del sogno più tetro sbocciante in un’alba illuminante. Uno scrittore non per tutti, di quelli troppo celermente e banalmente etichettati come “pesanti”, ma se si ama la letteratura non si può fare a meno di conoscere l’opera del maestro Mircea, un incantatore di parole e un genio del flusso, giudicate voi stessi da questi passi tratti dal capolavoro Abbacinante. L’ala sinistra:
Il bene e il male, due enormi Budda identici a due vulcani sopra le nostre vite, princìpi opposti eppure solidali come i poli di una calamita, finiscono per accoppiarsi grazie a un ponte di fibre nervose, per formare gli emisferi striati e complessi del grande, dell’incomparabile Cervello di cui noi siamo il sogno.
Luce e contrasti
Rasa al suolo e ricostruita, nuova e terribile, dal mitomane Nicolae, la città è un susseguirsi di sorprese architettoniche. Orribili blocks socialisti si susseguono per infiniti viali, alternandosi a edifici Jugendstil di fine ottocento, al gotico-barocco rumeno, al Bauhaus di inizio novecento e alla decadenza contemporanea. Basta attraversare l’incantevole Bulevardul Regina Elisabeta per rendersi conto dell’unicità architettonica di questa urbe.
La città tende a ripetersi con questo stile un pò ovunque. Il fascino comunque non le manca. Brutta e brutale nel particolare, incomparabile e armoniosa nel generale. L’impatto è forte ma ci si abitua anche a questo. Chi, come il sottoscritto, è cresciuto nel più becero abusivismo edilizio del secondo novecento targato dc, non può certo venire a fare la morale agli altri. Inoltre, che colpa ne hanno i rumeni se un dittatore psicopatico ha deciso di farli vivere soffocati dal cemento?
A ogni modo, la città è sospinta da un fascino tutto proprio. Degrado e poesia sembrano andar insieme tenendosi per mano. Gli ampi viali, le immense piazze e gli edifici mastodontici appaiono la fonte primaria della creazione intellettuale dei suoi artisti e della sensualità dei suoi abitanti.
Se siete ancora su Boulevardul Regina Elisabeta e, dopo esservi nutriti la vista dell’alternanza architettonica con pochi eguali al mondo, sentite il bisogno di ricrearvi, andate al Tormen Bistrot. Un vero locale locale da intellettuali: gruppi di pensionati bevono Skoll rimembrando l’improbabile Coppa dei Campioni vinta dalla Steaua contro il Barcellona nell’86, un’aspirante scrittore con un cappotto a scacchi e capelli pieni di forfora è seduto da solo in un angolo a far fluire i suoi pensieri su carta. Alcuni studenti sghignazzano prima di tornare a lezione, e un uomo guarda il passeggio del Boulevardul assorto vicino la vetrina, pensando alla figlia ventenne che non parla d’altro che di visitare quel paese e quell’altro, mentre lui in giovinezza è potuto andare solo una volta a Craiova a vedere un comizio di Nicolae. A ogni modo al Tormen si mangia bene e si paga poco, molto poco. Ma non ditelo troppo in giro, se s’affolla e finisce sulla lonely planet i prezzi s’alzano, i locali fuggono e io avrò i sensi di colpa per aver spifferato al web una chicca del genere.
Bucarest, plastico di vetro macchiato di sangue, proiettava a perdita d’occhio i suoi tetti fantastici: uova enormi, torri, i campanili della Cattedrale metropolitana, il ventre di cristallo della Cassa di Risparmio, i palloni dell’Hotel Negoiu e la sede dell’Accademia di Scienze Economiche, i funghi sinuosi della chiesa russa, il Palazzo dei Telefoni, icerberg irsuto di antenne paraboliche, come la gamba di un bambino poliomielitico in una protesi di acciaio, il fallo della torretta dei pompieri, il tutto popolato da una folla di statue che rappresentavano gorgoni, atlanti e cherubini, l’Agricoltura, l’Industria e tutte le Virtù, in tanti corsi, viali, vie e tanti protagonisti del passato nazionale, un universo tortuoso di calcare, gesso e bronzo, coperto di neve.
Fumé
Se c’è una cosa che colpisce di Bucarest è l’impressionante perdita di smalto di molti suoi edifici, mai ristrutturati e lasciati decadere alla luce del sole. Tale degrado estetico genera un nuovo colore: il fumé. Bastano pochi giorni errando per la città per sentirselo dentro, come una parte indelebile di questo luogo. È l’ultimo stadio prima dello scheletro. Passeggiando per il centro se ne vedono molti, quello che impressiona di più è sicuramente il palazzo Tehnoimport, una torre di ampio raggio, simbolo indiscusso della città vecchia e riferimento orientativo di ogni cittadino e visitatore.
Se non si comprende il fumé non si può apprezzare questa città. Qui la poesia non viene fuori dall’allegria e dalla giovialità, ma dal grigio affumicato e dal deplorevole. Venire a Bucarest significa anche trovare il giubilo e l’entusiasmo nei suoi palazzi decrepiti e nelle sue atmosfere fosche e cinerine. E di ebbrezza ve n’è, tanta, fidatevi, è solo camuffata di plumbeo. Troppo facile essere euforici dopo aver visto le case colorate di Salvador de Bahia.
Ora vivere la stranezza, provare un’emozione, rimanere basiti al cospetto di un’immagine fantastica significa ancora e sempre la stessa cosa: tornare indietro, regredire, ridiscendere nel nucleo arcaico della mente, guardare con occhi da larva umana, pensare qualcosa che non è un pensiero con un cervello che non è ancora un cervello e che pertanto amalgama in un crogiolo di piacere doloroso tutto ciò che separiamo crescendo.
Quel Giuliani il sindaco di New York degli anni novanta, che divenne famoso per la tolleranza zero e per l’applicazione della Teoria delle finestre rotte, secondo la quale reprimendo i piccoli atti vandalici e i reati minori si contribuisce a creare un clima d’ordine e legalità. Bene, a me quel Giuliani sta profondamente sul cazzo, perché a me le finestre rotte mi sono sempre piaciute assai, perché danno discontinuità a un ordine imposto come immutabile. Perché è bello vedere dei buchi in una tela perfetta, in quanto la vita perfetta non solo non lo è ma nemmeno può ambire a esserla, quindi anche l’architettura deve rispecchiare la nostra seducente imperfezione. Quanto è meraviglioso l’edificio nella foto di sotto? Colonne greche con capitelli dorici, archi a cornice, teste animalesche in cima, murales intervallati dal degrado di un vetro che si sgretola. Pura poesia fumé.
Perché di fatto è la storia e non la sostanza ad attribuirci realtà. Si può essere scolpiti nella pietra e non esistere, persi chissà dove fra dune senza fine, ma se si è il fantasma di un sogno si viene giustificati, costruiti appunto dalla luce viva del sogno. E lì, nella storia confusa che si svolge sotto una calotta cranica durante il sonno, si è più veri di un miliardo di mondi abitati.
La Bucarest anni venti di Mihail Sebastian
Il contesto
Chi visita oggi Bucarest lo fa andando a cercare la nostalgia comunista del ventennio di Ceaușescu, la sua architettura socialista, i racconti di chi ancora ricorda quella vita quotidiana scandita dallo stereotipato chiaroscuro dell’est e da una chiusura ermetica verso l’esterno. Nicolae Ceaușescu fu il Capo di Stato della Romania dal 1967 fino al 1989, scissionista da Mosca e ben visto anche in Occidente, un vero outsider della galassia rossa novecentesca. La sua storia la conosciamo in molti, è abbastanza semplice trovare documentazione sulla sua dittatura, vi è notevole letteratura e saggistica a riguardo, anche youtube è colmo di video sulla questione: dal suo Last Speech in cui per la prima volta viene contestato (minuto 2.30) che darà il via alla rivoluzione rumena dell’89, al processo militare che lo giustizia, insieme alla moglie Elena, a morte tramite fucilazione.
C’è invece un’altra Romania poco trapelata dalle nostre parti. È la Romania antisemita e carica di fermenti estremisti degli anni venti, che porterà il paese a essere governato, durante gli anni della seconda guerra mondiale, dal Conducător Ion Antonescu. Il quale si rivelerà, non solo uno dei più fedeli alleati di Hitler, ma anche colpevole di aver causato la morte di 280.000–380.000 ebrei e di 11.000 rom (Fonte: The Center for Advanced Holocaust Studies). Questa Romania è magistralmente descritta nel romanzo, pubblicato quest’anno in Italia da Fazi Editore, di Mihail Sebastian Da duemila anni.
All’angolo di Buleverdul Elisabeta c’era un crocchio di ragazzi in uniforme che vendevano giornali: «I misteri di Cahul! Morte agli ebrei!». Non so perché mi sia fermato. Di solito proseguo tranquillamente per la mia strada, giacché questo grido è vecchio, amaro e familiare. Questa volta, tuttavia, sono rimasto fermo lì, in preda allo stupore, come se per la prima volta capissi il senso di quelle sillabe. È strano. Questi ragazzi parlano della morte, e in particolare della mia morte. E io passo accanto a loro senza prestargli attenzione, con il pensiero rivolto altrove, ascoltandoli solo a metà.
A pensarci bene, la cosa grave non è il fatto che tre ragazzi si possano mettere all’angolo di una strada e gridare «morte agli ebrei!», bensì che il loro grido possa passare inosservato e che nessuno si mostri contrariato, quasi fosse solo il campanello di un tram.
Mihail Sebastian fu un grande avvocato e intellettuale ebreo di Bucarest, che visse lunghi periodi in clandestinità durante l’ascesa al potere di Antonescu. Morì pochi mesi dopo la fine della guerra investito da un camion mentre attendeva il tram alla fermata. Nella sua opera descrive una Bucarest ben diversa da quella che ci ha lasciato Nicolae. Studenti ebrei non più ammessi ai corsi universitari e picchiati selvaggiamente per la strada, ma non solo. Sionisti che errano per la città promuovendo il ritorno alla terra promessa, marxisti che diffondono il nuovo verbo da Mosca, uomini infervorati dai discorsi di Mussolini dall’Italia, uno spirito rivoluzionario in ogni respiro, ogni metro della città è una fucina di fermento, un volano verso l’azione estrema.
Eppoi cosa significa? Comunista, reazionario, sinistra, destra…Superstizioni, caro mio, mezze idee. Esiste soltanto un mondo vecchio e un mondo nuovo. Punto. Un mondo che crolla e uno che nasce.
Sento che stiamo uscendo dalla mediocrità. Con il sangue, con il fuoco, ma stiamo uscendo. Non si poteva altrimenti, e se così non fosse stato, saremmo appassiti. Quando stai per morire asfissiato in una casa piena di gas, non ti ingegni per aprire la finestra: la rompi.
L’opera di Sebastian è anche una testimonianza diretta dell’ebraismo in Europa nella prima metà del secolo passato. Non che lo scrittore stia lì a difendere particolarmente il suo essere giudaico, anzi, fa parte di quella stirpe di scrittori ebraici estremamente critici verso la propria religione, un po’ alla Philip Roth o alla Abraham Yehoshua per intenderci.
Per quanto riguarda gli ebrei, il loro errore è di osservare troppo e, soprattutto, di credere di essere osservati. Avevo l’impressione, a quei tempi, che ogni sguardo rivolto a me celasse una domanda. Mi sentivo sotto un permanente ordine di persecuzione. Sentivo un bisogno stupido, buffo, urgente, di denunciarmi: sono ebreo. Perché, altrimenti, sentivo che sarei sprofondato nel compromesso, che sarei passato da una bugia all’altra, che avrei mutilato la mia brama di verità.
Le ragioni dell’odio
Tra le sfide più ardue da affrontare per l’Europa in questo periodo storico vi è sicuramente la crescita, inaspettata fino a pochi decenni fa, dei movimenti di estrema destra. Da Londra a Sofia, passando per la civilissima Berlino, il germe dell’antisemitismo e dell’estremismo di destra sembra rinvigorirsi di nuova linfa. Negli occhi di tutti noi è ancora viva la manifestazione di Varsavia del novembre 2017, dove 60.000 ultranazionalisti hanno sfilato per la città nel giorno dell’Indipendenza, non facendo mancare slogan xenofobi, antisemiti e inneggianti alla supremazia bianca.
Molti di noi si pongono la legittima domanda di come sia possibile che i movimenti più estremi di destra nell’Europa oggi, stiano riemergendo proprio nei paesi dell’ex-blocco comunista. Leggere il libro di Sebastian aiuta a comprendere meglio l’attualità della questione, dando una chiave di lettura autentica e profonda. I pogrom nella Russia zarista da metà ottocento in poi hanno costretto centinaia di migliaia di ebrei a fuggire verso nazioni ritenute più ospitali, ma il loro flusso massivo ha destabilizzato queste società, proprio mentre il vento dell’antisemitismo soffiava imperterrito sulle popolazioni. Secondo lo scrittore le ragioni dell’antisemitismo vanno ricercate nella metafisica e non negli ordini politici, religiosi o economici. È il dna stesso ebraico, secondo Sebastian, che ricerca la sofferenza come giustificazione alle angherie subite nel corso dei millenni (da duemila anni, come ricorda il titolo del libro):
Cerca di non soffrire. Non abbandonarti al piacere di soffrire. Vi è una certa voluttà nella persecuzione e sentirsi vittima di un’ingiustizia è probabilmente uno dei piacere interiori che più ci inorgoglisce. Prestaci attenzione e non lasciarti cullare da siffatto orgoglio.
Philip Ó Ceallaigh, un irlandese sperduto a Bucarest
L’incontro
Welcome to my house, have some whisky, it’s Saint Patrick’s day. Veniamo così accolti a casa di Philip. È una vecchia casa Jugendstil su due piani, in piena ristrutturazione. L’ha acquisita da poche settimane, fascinosa e fatiscente, ma ci sta lavorando per risistemarla. Ci fa accomodare nella spoglia sala comune, vi sono alcuni sgabelli monchi, una vecchia polverosa scrivania all’angolo e un tavolino al centro, dove vi troneggia sopra una bottiglia di Jameson, piena a tre quarti, a mo’ di totem. Philip è uno scrittore di racconti, irlandese, trapiantato a Bucarest da vent’anni. Parla perfettamente il rumeno, è loquace, accogliente e felice che un gruppo di italiani l’abbia contattato dopo aver letto il suo libro Appunti da un bordello turco pubblicato nel 2016 (e scritto nel 2006) dalla splendida ed emergente casa editrice romana Racconti.
Philip ci parla della sua esperienza rumena. Ha vissuto per tanti anni in un appartamento all’interno di uno dei migliaia dei Bloc di Bucarest. Era rimasto particolarmente affascinato dall’architettura socialista durante il suo primo viaggio da queste parti, e visti i prezzi eccessivamente a buon mercato aveva deciso di comprarne uno. Lo avevano colpito l’uniformità di ogni casa dei Bloc, ogni cosa perfettamente identica in ogni appartamento, dal lavabo della cucina alle maniglie delle porte, dalla metratura alla disposizione degli interni, una sorta di meccanizzazione del viver quotidiano. Il suo libro Appunti da un bordello turco è una raccolta di racconti scritti tra Romania, Stati Uniti e Turchia. Paesi dove lo scrittore irlandese ha viaggiato e vissuto. A ogni modo, a dispetto del titolo, la maggior parte di questi racconti sono ambientati in Romania e in particolare a Bucarest e nelle sue periferie. Sono racconti carichi di passione e di degrado, di personaggi border line, di situazioni al limite dell’estremo disagio. Nonostante i temi affrontati la sua prosa è raffinata e la sua penna sovente tocca la profondità d’animo del lettore. Oso inserirlo sia tra i più grandi scrittori di racconti che abbia mai letto, insieme a Cortázar, sia nel mio scaffale dedicato letteratura di viaggio.
Bloc
Nel quartiere è il secondo racconto della raccolta del libro. È il più lungo di tutti, settantacinque pagine, e parla della vita di diversi condomini all’interno di un bloc di dieci piani alla periferia della città.
Non è la morte in sé a essere terribile, pensò Nic, prendendo l’ascensore giù verso il pian terreno. La cosa terribile è la morte in vita. Tutt’attorno a lui c’erano uomini che avevano mollato. Dovunque vedeva facce sconfitte. Questi uomini avevano perso più dell’amore, o dello spirito dell’amore; avevano perso la partita. Erano corpi che occupavano spazio. Se ragionavi su quanto di loro fosse rimasto, ti rendevi conto di quanto fossero solo apparati digerenti che consumavano troppo, che ingrassavano, inalando aria pulita e rigettandola fuori marcia. Aspettavano solo il suono distante di un’ambulanza e, quando poi effettivamente morivano, c’era davvero poco da rimuovere.
I personaggi di questo racconto sono goffi e impacciati ma anche ironici e divertenti. La descrizione del loro vivere quotidiano è uno specchio più che discreto della vita nei Bloc. Sotto pieni flussi d’ispirazione provo un esperimento intellettuale, abbinando certi passi del racconto ad alcune foto scattate alla periferia di Bucarest, zona mercato di Obor e limitrofe.
Siamo ai saluti con Philip, non capita tutti i giorni di conoscere uno scrittore del luogo durante un viaggio. Mentre si va via mi viene in mente un’ultima domanda da porgli: Philip, ma come mai hai scelto proprio Bucarest per vivere? Passa il suo sguardo da me alla bottiglia di Jameson, ormai vuota, sul tavolo e mi risponde: Alcohol is cheap!
Lo abbraccio di cuore. Mi mancherai Irish Comrade.
Il mitomane Nicolae
Il Palazzo del Popolo
La visita guidata è programmata per le 10.30 del mattino. Esco di casa con discreto anticipo ma la temperatura si è abbassata di dieci gradi rispetto la sera precedente. Il freddo s’inculca nelle ossa, la neve cade sempre più vorticosa, i marciapiedi cominciano a gelarsi. Decido di prendere un taxi fermo sulla strada. Salgo su e chiedo di essere portato al Palazzo del Popolo. Alla mia richiesta il tassista si gira guardandomi con un certo astio, ritorna sulla sua posizione originaria e lo sento cominciare a bisbigliare qualcosa tra sé. Non parlo il rumeno, non posso capire ma intuisco che qualcosa non va con la mia richiesta. È una situazione tesa tra l’imbarazzo e l’enigmatico. Alla fine accende il motore e ci avviamo. I suoi occhi guardano lo specchietto retrovisore per fissarmi meglio, mi chiede cosa ci vada a fare al Palazzo del Popolo. Sono un giornalista, rispondo, e devo fare un reportage. Le acque si calmano e gli chiedo perché si sia così alterato alla mia richiesta. Mi risponde che odia il Palazzo del Popolo più di ogni altra cosa al mondo. Per costruirlo hanno alzato vertiginosamente le tasse al popolo che già era quasi alla fame. Quel Ceaușescu, mi dice, un mitomane pscicopatico. Arriviamo.
Non credo ai miei occhi. Oltre ai cinque piani che si vedono in foto ve ne sono altrettanti sotto. È il secondo edificio più grande al mondo dopo il Pentagono. Iniziando la visita un moto di stupore inonda i pensieri. Scalinate che neanche a Versailles, colonne di marmo che rimembrano l’antica Atene si susseguono per tutto il palazzo. Ogni sala è grande come la metà di un campo di calcio. Pavimentazioni con decorazioni barocche. Ogni particolare è mastodontico, eccessivo, teso alla mitomania più estrema. Lampadari di cristallo pesanti centinaia di tonnellate. Comincio a balbettare in maniera continuativa una parola che ripeto almeno tre volte: pazzo, pazzo, pazzo!
I lavori iniziarono nel 1984. Per costruirlo fu raso al suolo un intero quartiere. Furono impiegati migliaia di operai e furono letteralmente saccheggiate le cave di marmo della Romania. Un intero popolo dedito alla costruzione di quest’opera frutto della visione megalomane di un dittatore psicopatico. Mentre la popolazione moriva di fame, Nicolae Ceaușescu costruiva uno degli edifici più immensi che mente umana abbia potuto concepire. Costi quel che costi ma la fame di potenza senza limiti deve essere assecondata.
Dopo la rivoluzione del 1989, che portò alla morte di Ceaușescu, il Palazzo del Popolo era completo al settanta per cento. In molti volevano abbatterlo al fine di cancellare per sempre la simbologia di depravazione mentale del dittatore. Ma buttarlo giù sarebbe costato molto più che terminarlo. Il nuovo governo allora decise di completare i lavori, e dal 1994 il Palazzo del Popolo è la sede del Parlamento rumeno, oltre a un’attrattiva unica per i turisti.
Nicolae oggi
Sono passati ormai quasi trent’anni dalla morte di Ceaușescu. La Romania è entrata nell’Unione Europea nel 2007. Le nuove generazioni sono globalizzate, parlano almeno tre lingue e fanno continue esperienze all’estero come i propri coetanei dell’Europa occidentale. Ma, c’è un ma. Anche più di uno forse. Conversando con locali non passano più di due minuti di orologio e il nome di Ceaușescu salta sempre fuori, in un contesto o in un altro, anche con persone nate negli anni novanta. L’impronta del dittatore continua a influenzare l’identità dei rumeni. Pensare che possano bastare alcuni decenni per lasciarsi alle spalle un ventennio di ferrea dittatura comunista è tipico dell’arroganza politica occidentale. Le cose sono ben diverse da come appaiono.
Se da un lato tutti riconoscono la follia del dittatore, la sua psicopatia e la sua megalomania senza precedenti che ha portato il paese sull’orlo della fame più nera, dall’altro lato un senso di nostalgia sembra sempre affiorare nei discorsi della gente. Più che nostalgia è una disillusione verso ciò che si pensava si fosse potuto realizzare dopo la rivoluzione del 1989. Con Ceaușescu non esisteva la disoccupazione, il livello culturale medio del popolo si era elevato notevolmente. I legami tra le persone erano molto forti, la gente si aiutava vicendevolmente. Oggi le cose sono cambiate, e non poco. I premier che si sono alternati dal 1989 a oggi sono percepiti più come marionette di Bruxelles e della finanza che come uomini altamente rappresentativi di una nazione. L’emigrazione rumena è tra le più alte d’Europa (in Italia sono la prima etnia), i salari sono troppo bassi per questo mondo estremamente globalizzato e fluido (a Bucarest 400/500 € al mese, nel resto del paese si arriva anche a 200€ al mese). Col comunismo nessuno poteva uscire dal paese, con l’Unione Europea si può uscire ma in pochissimi se lo possono permettere. Meta ambita dalle multinazionali per delocalizzare la loro produzione, i rumeni si cominciano a rendere conto di essere vittime di uno speculativo gioco finanziario dell’Occidente che li sfrutta per i bassi salari ma comunque non gli permette di poter crescere economicamente e di migliorare effettivamente il proprio stile di vita. Inoltre sono perfettamente consapevoli che, qualora gli stipendi dovessero aumentare, le multinazionali andranno in Moldavia o in paesi ancor più in fase di sviluppo. Soluzione? emigrare, non c’è altra via d’uscita al momento. L’unica libertà è non avere scelta.
Mentre con Ceaușescu erano tutti poveri, adesso ci sono solo alcuni ricchi. L’illusione che con la caduta del dittatore il paese si sarebbe emancipato sta svanendo giorno dopo giorno. L’apertura a un’economia di mercato globale si sta rivelando utile solo per una spaurita élite e per le multinazionali estere che investono nel paese. In definitiva, in molti rimpiangono Ceaușescu o, quantomeno, non lo crocifiggono indiscriminatamente come vogliamo sentirci dire noi dall’altro lato della cortina di ferro.
«Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore.» V.P.
Bucarest, marzo 2018
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