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Sulla fine ingloriosa di Arben Culaj e della sua famiglia è stato blaterato tutto il blaterabile negli anni, perciò non intendo aggiungere qui una riga una all’epopea del nulla. Lo sterminio, come l’hanno chiamato, è una di quelle storie pseudomemorabili che saranno tramandate per un paio di generazioni e bon, così almeno per il vecchio sarà valsa la pena portare in giro le sue quattro ossa per un mezzo secolo buono. Poi sarà inghiottito dal solito oblio, e se è andata bene a lui e se andrà bene anche noi, ci ritroveremo tutti da qualche parte, roxy bar o sciocchezze simili.

Ma, l’ho anticipato, non sarà l’argomento di questa storia. Qui si parla di conservare fra i cimeli della memoria il momento in cui Arben Culaj fece la sua apparizione dalle nostre parti. Mi riferisco alla sera di fine ottobre di un anno sperduto nei novanta, quando lo vedemmo entrare nella sala da bowling Strike & Chips, bardata a festa per un pretenzioso halloween casalingo, contestato come festa diabolica.

Entrò tirandosi dietro, come strette in un pugno à la Padron ‘Ntoni, una sacca nera, la moglie e le cinque figlie, una famiglia fuori taglia per il nostro contesto asfittico da villette a schiera e strada provinciale 29 con i centri commerciali.

Lui rubizzo, tozzo e compatto come un toro minoico, loro filiformi e diafane, con lo sguardo di docili agnelle capaci di contentarsi di un pascolo qualsiasi. Lui con una blusa in finta pelle grigia, aperta per tre quarti come se non potesse chiudersi sopra quel petto prorompente, loro con lunghe gonne etniche che spuntavano da giacche di velluto. Si fermò a un passo da noi, appoggiò il braccio sul bancone e lo sentimmo chiedere una pista per un paio d’ore. Lo disse in un italiano chiaro. L’addetto alla consegna, un tipo segaligno che sbirciava Max standosene con le gambe distese e i piedi incrociati sul bancone, dava rapide occhiate pelose alle ragazze (la più grande doveva avere allora quattordici anni). Si tirò su e lo sentii usare quell’espressione che avevamo in bocca tutti (Albanesi del cazzo), chi rubata a quel film un po’ straccione che ci avevano costretto a vedere a scuola un paio d’anni prima, chi buttata fuori a marmorea certificazione di beata ignoranza. Noi eravamo bivaccati su una delle panche a una decina di metri dall’ingresso. Noi è quando dico i pochi eletti depositari di questo memorial, cioè io, Accio, Fredy e la Frida, che si faceva la solita vita di sempre da young-guys cresciuti a suon di ritiri parrocchiali nei santuari alpini, famiglia vecchia maniera nelle villette sulle morene, liceo cattolico in centro: mettevamo su le nostre tute adidas vintage e il Barbour e ci trovavamo giù al bowling una sera a settimana. Più che altro ci dicevamo cose sui dischi di Stone Roses, Oasis, e altre band inglesi e su come ci schifavano la house music e la gente che indossava magliette con barzellette stampate. Per lo più fingevamo di sapere quello che in realtà non sapevamo.

Se avevamo voglia e moneta in tasca a sufficienza, si poteva spenderli per una partita, altrimenti ci limitavamo a prendere per il culo Accio e la sua storia d’amore con la Frida, perché era verità incontrovertibile che lei fosse cento volte più intelligente di tutti noi: per questo mi faceva rabbia che stesse con Accio, che invece era un perfetto analfabeta del discorso amoroso.

«Mi dai scarpe numero 44» disse Arben.

Il tizio segaligno gli allungò le scarpe, dandogli un’occhiata di sufficienza rabbiosa.

«Non sono numero giusto» disse l’albanese non appena guardò il retro. Lo sapevamo tutti, che bastava guardare lì e non si poteva sbagliare, ma il tizio della consegna poteva pure essere un devoto seguace di quelle cricche strampalate, dedite a mettere su messe nere e danzare nell’odio e nella brutalità.

«Ah, sì? Non sono del numero giusto. Si dice del numero giusto.»

«Scusa, amico. Io albanese, imparato italiano in tv.»

Fate il caso che io, in quel momento, avevo due genitori che non mi parlavano più, che non si capivano più, mutismo e sordità pure a gesti, e che si preannunciava la separazione che ha rovinato la coda della mia giovinezza e scombussolato il resto della mia vita: perciò afferrai al volo il senso della sua confessione di spaesamento. Per inciso, in quel frangente, decisi di parteggiare per lui. Le ragazze, compatte come un gregge dietro il pastore, non tradivano imbarazzo. Non erano straniere nel nostro paese: erano proprio di un altro universo.

L’addetto alla consegna riprese le scarpe e si voltò per afferrare quelle del numero giusto. Aggiunse: «Albanesi del cazzo», con una finta mezza voce e con un tono che suonava pari pari una sfida. Lo sentimmo anche noialtri, distintamente: altro che sussurro.

«Tu non puoi dire questo di noi» irruppe il vecchio Arben. Posò per terra la grossa borsa e mise le mani sui fianchi.

Accio, che era seduto di sghimbescio con le gambe della Frida sulle sue, fece un movimento brusco che disarcionò il suo grande amore: «Adesso vediamo cosa fa» disse. Non capivo a chi dei due si riferisse.

«Io sono poliziotto in Albania» riprese. «Io ero poliziotto» si corresse «e so regole. Io ti pago. Tu mi dai scarpe giuste, io ti pago. Io gioco una partita e ti pago. Tu non puoi dire altro, amico.»

«Ah, sì?» fece quello, mettendo le scarpe sul bancone. «Solo tu o anche loro?» chiese, facendo un cenno alle ragazze.

«Solo io» rispose lui. «Non è per loro.»

«Qui dalle nostre parti è pieno di ragazze che giocano. Afferrano la boccia con le dita, si piegano così e uuuhhh.»

Intanto che buttava all’aria queste ovvietà, sempre con l’aria di prendere per il culo qualcuno e riuscendoci più odioso di quanto già non lo considerassimo, mimò la scena, lasciando intendere che quando una ragazza si piegava per lanciare la boccia, il viscido staccava gli occhi dai calendari di Max e si concentrava sulle plastiche grazie delle giocatrici.

«Mie figlie no» ribadì Culaj, sistemando la giacca che, quando aveva puntato le mani sui fianchi, gli era risalita oltre la linea della vita.

«Peccato» commentò l’altro.

Lì per lì cercai di immaginare le ragazze, con le loro lunghe gonne etniche, che frusciavano leggere sul parquet: e non c’era niente di erotico nell’immagine che aveva preso posto in mezzo ai miei soliti pensieri di morte.

«La boccia?» chiese l’addetto alla consegna.

«Qui dentro» rispose l’albanese.

Quando parlava, gli si stringevano gli occhi e la faccia diventava irresistibilmente simpatica. Era arrivato dall’Albania, chissà se aveva un lavoro, chissà come tirava avanti: ma la sua famiglia era tutta lì, stretta nel suo pugno tozzo e grinzoso. Ed era pronto per lanciare la sua boccia lunga, dritta, filante sulla pista. Era un tizio compiuto, con testa e piedi al loro posto.

«Fammi vedere. Mica che mi rovini la pista.»

Arben Culaj si chinò, mise le mani sulla sacca, sbrigliò un laccio con decisione ed estrasse una boccia nera con riflessi violacei. Un’immagine perentoria che mi è tornata alla mente qualche tempo fa, quando ho assistito mia moglie mentre partoriva nostra figlia.

Porse la boccia all’addetto che la esaminò senza convinzione: la sua richiesta era solo un pretesto.

«Bella boccia» commentò Accio.

«Questa l’ho già sentita. Sempre le solite frasi» disse la Frida, spintonandolo in là sulla panca. Anche lei era sopraffatta da Culaj, sicuro.

Intanto l’addetto aveva restituito la boccia all’albanese.

«Ok?» chiese Culaj.

L’altro fece un cenno di assenso e si rimise seduto.

«Pista 10» aggiunse.

L’uomo si voltò, individuò la pista e si mosse: con un cenno della testa, richiamò le donne della sua famiglia. Queste, volando lievi sul pavimento, lo seguirono.

«Io vado a vedere» disse Fredy.

All’imbocco della pista 10, la più lontana dall’ingresso della sala, c’era un piccolo divano logoro. Le ragazze con la madre si erano accomodate, silenzioso e composto gregge: il pastore, invece, si era già levato la giacca, aveva cambiato le scarpe e si stava preparando per i suoi lanci.

Noi seguimmo Fredy e ci appostammo sul divano della pista 9. C’era fiacca quella sera: poca gente, volti noti, un mezzo campione che si allenava sulla pista 1. Dagli altoparlanti uscì il solito disco rotto degli annunci commerciali.

Fu il primo lancio a chiarire che le cose che stavamo vivendo avrebbero avuto un prima e un dopo. L’uomo non fece mosse strane che avevamo visto dai semiprofessionisti: la postura rigida e rozza, la faccia contratta come fosse disegnata da Munch, il braccio accartocciato sulla boccia, che filò come sospesa su un cuscinetto di aria e si fracassò sui birilli. Sicuro quella boccia avrebbe aperto il Mar Rosso, se Dio glielo avesse chiesto.

A quel punto, l’uomo si voltò, facendo perno sulla gamba destra e si trovò faccia a faccia con le donne del suo pugno. Le ragazze, all’unisono, si alzarono in piedi e applaudirono il colpo, gridando frasi incomprensibili per noi. La madre no, lei rimase composta in un angolo del piccolo divano, le mani al petto, il volto adorante come le sante nelle edicole di paese.

«Diobono» disse Accio; ma non ho mai capito se si riferisse alla magnificenza del lancio o all’adorante claque delle ragazze, o a tutto il pacchetto dell’evento cui stavamo assistendo.

Durò una mezz’ora: il cosmo sospese le sue faccende mentre la boccia schizzava a destinazione severa e definitiva, e subito dopo la sospensione si scioglieva nelle urla di esultanza, come un flash abbagliante sulle ridicolaggini della Strike and Chips, sull’addetto, su di noi. Era la sua mano che si apriva e si chiudeva.

Anni dopo, lo sterminio mi fece pensare a quel pugno come a quelle cose in grado di dare misura ed equilibrio all’universo e bon, poi non ci riescono.

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