L’amicizia è la condivisione che precede ogni divisione, perché ciò che ha da spartire è il fatto stesso di esistere, la vita stessa. Ed è questa spartizione senza oggetto, questo con-sentire originale che costituisce la politica.
G. Agamben, L’amico
Gironzolando su Netflix troviamo un po’ di tutto, robaccia perlopiù (come un po’ dappertutto) ma anche ripescaggi di capolavori della serialità e del cinema, vecchi cultoni che anche se non li abbiamo guardati non ci siamo persi niente e serie giovanissime che hanno già il marchio del cult. Fra queste troviamo la serie spagnola La casa di carta del 2017.
Articolata in due parti, tagliuzzata da Netflix in più puntate rispetto all’originale, la serie racconta di un gruppo di rapinatori che per cinque mesi prepara la rapina perfetta alla zecca di Madrid. La narrazione è buona, tiene incollati allo schermo – è ormai la base per qualunque racconto seriale –, i personaggi sono costruiti bene, la maggior parte dei dialoghi convincenti, attori bravissimi; quello che delude (oltre a punte che rischiano di scadere nel melodramma, e, soprattutto,alla scena finale, degno epigono di una soap argentina) è la sceneggiatura.
È il rischio di inserire il personaggio del mastermind – in questo caso, il Professore, cervello e regista di tutta la rapina – in una narrazione che tende al realistico: la poca verosimiglianza. Il mastermind, la mente superiore che opera dietro le quinte, necessita di una calibratezza narrativa enorme. Deve sì mostrare la sua superiorità, ma anche evitare di scadere in previsioni esagerate, di quelle che includono anche il dettaglio più infimo e impensabile. I personaggi machiavellici di Game of Thrones, almeno per le prime stagioni, sono studiati ottimamente in questo senso: riescono a mantenere il loro grado di superiorità intellettiva pur rimanendo all’interno del plausibile. Altri mastermind come Kingpin, V o Kira, funzionano perché pensati all’interno di una cornice paradossale, supereroistica o fantastica. Portare lo stesso personaggio dentro uno scenario che cerca una mimesi con la realtà gli dà un tocco stonato di iperreale, di poca credibilità. Intelligenza e maniacalità possono suscitare ammirazione e identificazione, il superumano no. Ma non è il solo punto debole della serie. La struttura narrativa di La casa di carta alterna ai fatti odierni della rapina alcuni flashback delle istruzioni del Professore al gruppo di rapinatori. In una serie, questo modello narrativo ha un punto debole: non sembra adeguato alla cronologia dell’intera storia raccontata, ma di volta in volta adattato a quello che succede nella puntata. Ciò crea uno sfasamento nella narrazione: da una parte abbiamo il mastermind che ha previsto qualunque tipo di variabile umana e non, dall’altra troviamo insegnamenti retroattivi a pillole che arrivano solo nel momento del bisogno, come fossero stati dimenticati nelle puntate precedenti e ricordati solo ora. Il problema è che molte delle informazioni dei flashback sarebbero state fondamentali per prevenire i problemi sorti precedentemente; o il Professore è un imbecille, o c’è un’amnesia selettiva di gruppo o (più probabile) sono buchi di sceneggiatura.
Punte di melodramma da soap opera fanno da cornice a tutto questo. L’emotività in scena rischia di diventare stucchevole quando la si ricerca per forza, curandosi solo di pensare se ci sta nel personaggio, ma senza valutare se ci sta all’interno della narrazione. Staccare dalle emozioni è necessario, alternare cupezza e calore (guardare la terza stagione di Daredevil per averne un buon assaggio) sono accorgimenti necessari per evitare di cadere nello stucchevole.
Pur nella sua non eccezionalità, la serie mette però in scena una riflessione sociale e psicologica profonda (ma non approfondita). Quella che si crea nei giorni di rapina all’interno della zecca è una microsocietà, non utopica né distopica ma neanche strettamente funzionale alla situazione. Ha caratteristiche specifiche, certo, ma la sua struttura può essere considerata universale e adattabile ad altri contesti. La società del Professore, che gestisce tutto dal di fuori e interviene come deus ex machina, parte da un’unica idea-base: il rispetto per la persona. Un’etica imposta, tesa a garantire il funzionamento corretto della microsocietà e a evitare qualunque problema, sia di opinione pubblica sia di messa in pratica del progetto. Il rispetto diventa rifiuto di qualunque forma di violenza, fisica e non, un filtro che riconosce chiunque altro, indipendentemente dalla sua funzione, dalla sua classe, come uguale a sé, e per questo veicola un legame di fiducia reciproca. D’altra parte, per sopperire al rischio dell’imprevedibilità, il Professore impone anche un altro vincolo: l’impersonalità, il divieto di stringere rapporti.
La microsocietà nasce e si evolve su queste basi. Non sempre le basi vengono rispettate; naturale per l’individuo come ente primariamente mosso da necessità ed emozioni è non rispettare la seconda base, ma è soprattutto quando la prima viene meno che la microsocietà va in crisi. Quello che sembra suggerire è quindi che il principio per un corretto funzionamento sociale sia di tipo etico-psicologico che si lega all’aspetto politico-sociale attraverso la cooperazione e la fiducia.
Portante, nel modello marxista, è il concetto di struttura come economia, al quale la sovrastruttura – tutto l’apparato culturale e ideologico – è subordinata. Già Gramsci, analizzando i movimenti eretici, aveva criticato questa gerarchia assoluta, riconoscendo una trasversalità e non una subordinazione dei processi sovrastrutturali e di fatto portando alla luce una struttura più fluida in cui anche le idee avevano la loro indipendenza. Oggi, dopo un secolo e mezzo, con la nascita e lo sviluppo di discipline a metà tra l’umanistico e lo scientifico – come antropologia, psicologia, sociologia – e per la direzione più marcata verso un rifiuto delle semplificazioni monodisciplinari, possiamo notare quanto il modello materialista di Marx, pur sempre valido nelle sue analisi e critiche, sia parziale. Nonostante ciò il pensiero della subordinazione dell’individuo alla società – quest’ultima unica chiave del benessere nel pensiero del filosofo tedesco – e di conseguenza dei processi psicologici ai processi materiali ed economici, è ancora forte, e soprattutto negli ambiti legati storicamente e culturalmente alla sinistra.Per esempio il giornalista Oliver Burkeman:
«A ogni consiglio per essere felici, dalla disintossicazione digitale alla meditazione alla psicoterapia, è facile rispondere che quello di cui abbiamo veramente bisogno è una società più umana, e qualsiasi forma di autoaiuto non serve ad altro che a farci accettare lo status quo».
La struttura come economia-potere si estrinseca nel profitto, e di conseguenza nel denaro. Denaro come strumento del potere o denaro come essenza stessa del potere? In La casa di carta si prova a trovare una risposta. La scelta di una rapina alla zecca nazionale permette una riflessione su questo punto. Il denaro non è più uno strumento limitato nella sua quantità (solo il tempo a disposizione per stampare banconote è l’incognita a cui il denaro è legato); perde quasi il suo statuto di bene economico diventando oggetto superfluo che non ha un vero corrispettivo all’interno della microsocietà. Il suo valore sta tutto nella prospettiva del ritorno alla macrosocietà all’esterno, alla quale la microsocietà rimane comunque subordinata. È un’organizzazione socio-politica in prova temporanea, ancora aggrappata e dipendente, ma che tenta di ridisegnarsi su diversi valori e ideali.
La perdita del denaro come strumento e bene svuota il senso dell’ottica materialista. I beni sono garantiti dalla società esterna, il denaro superfluo; il potere nella sua accezione capitalista viene meno. La stessa lotta di classe risulta in qualche modo superata; acquista peso solo dopo che l’idea-base etica viene messa in discussione: solo a quel punto ha senso mettere in discussione chi è al comando, perché altrimenti la microsocietà funziona pienamente. Da questa prospettiva la società del professore ha dei tratti in comune con la società marxista che si instaurerebbe nella fase post-rivoluzionaria: comunione e ridistribuzione dei beni secondo le necessità, collettivizzazione dei mezzi di produzione… ma la differenza sta tutta nella base, nella struttura ideologica sottesa.
Se nel marxismo tutti i macrocambiamenti sono legati all’aspetto socio-economico che è basamento della stessa fondazione di un’utopia comunista, per il Professore il lato economico è solo una conseguenza e la struttura dominante della società è creata dall’etica e dalla conseguente empatia, la fiducia che si instaura tra gli individui.
In questa microsocietà non trova posto il concetto di classe come scansione piramidale del potere, quanto piuttosto un’idea di funzionalità. Non c’è differenza di valore, quantitativa, tra i vari individui, ma solo una differenza di compiti.
Pensiamo a una squadra di calcio (per i più fantasy-nerd va bene anche un party di D&D): il valore economico di un giocatore sta nelle sue capacità (o nel brand che rappresenta, ma qui dovremmo allargare il discorso un po’ troppo) e a parte l’idea infantile da cui siamo passati un po’ tutti che un attaccante è più figo di un difensore perché fa gol, non c’è una vera gerarchia tra i ruoli, quanto una complementarietà di funzioni. Anche l’allenatore, nonostante sia al comando dei giocatori, non ha più valore o più potere ma soltanto una funzione differente.
Viene da chiedersi, pensando a modelli diversi dalla società in cui viviamo da millenni, quanto del valore intrinseco, quantitativo che diamo al potere sia da collegarsi a un aspetto più culturale che istintivo. Quanto possiamo sfuggire all’osservare la piramide sociale come oggetto in cui valore e altezza sono direttamente proporzionali? Quanto di questo aspetto ritroviamo nel mondo animale, e quanto invece risponde alla semplice domanda della funzionalità?
Trasversalmente, al di là della centralità di narrazione e vicende umane, La casa di carta dà spunti per rispondere a questi interrogativi. Nella società del Professore, tralasciando l’inspiegabile divieto ai suoi di avere relazioni personali tra loro (trovata narrativa piuttosto debole; poco credibile che un mastermind empatico e sensibile come il Professore non valuti la necessità e l’importanza dell’intimità) il piano emotivo e umano è centrale, ma è riconosciuta la sua inscindibilità da quello sociale e politico. Siamo uno; interno ed esterno, emotività e socialità, ed è questa multiformità, questa sfumatura del reale che rischia di sfuggire quando ci perdiamo nelle analisi. C’è una dialettica tra individuo e società, tra io e l’altro, presente dal momento in cui nasciamo e nel momento in cui per la prima volta dobbiamo affrontare il mondo. Il pensiero Sono un essere umano implica entrambi gli aspetti. E se ci soffermiamo un attimo a pensarci, il primo luogo in cui ciascuno di noi affronta la problematica del potere (e del non potere), il primo contatto con la convivenza, la condivisione della vita stessa che è la base della politica, è la famiglia, centrale tanto per una visione psicologica quanto per una sociologica e antropologica. Cardine, ponte, in tutte le sue accezioni possibili, tra io e altro.
La casa di carta è una serie non certo memorabile. Anche se scorre bene, con buone recitazioni, personaggi interessanti e una trama che ti tiene incollato, i difetti, anche pesanti, non mancano. Sceneggiatura, emotività spicciola, poca credibilità della storia; se si riesce a passare sopra a questi difetti, allora la serie merita. Ma, soprattutto, merita l’aspetto tematico, il cardine della visione del mondo che il Professore porta avanti, perché è lì che troviamo un possibile modo diverso di vederci in relazione agli altri. Nel momento in cui instaura una dittatura dell’etica, in cui fa entrare gli ostaggi come membri attivi della rapina, in cui capitola all’assurdo divieto dell’intimità, il Professore strappa via le ambiguità dogmatiche che la società ci ha cucito addosso, e afferra il nucleo che rende ciascuno di noi un essere umano e sociale: l’appartenenza.
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