Il mondo è un carciofo
Italo Calvino
È curioso come, almeno su Netflix, il sesso – non inteso come pornografia o comicità dell’osceno, ma come riflessione su genere e sessualità – sia in qualche modo sdoganato. Pensiamo all’anime Backstreet girls, dove tre energumeni della yakuza vengono costretti a cambiare sesso dal loro capo e si ritrovano a fare spettacolini di canzonette per maschi arrapati. Pensiamo anche a tutto il filone documentaristico a partire da After Porn Ends che cerca di sviscerare la visione diacronica del corpo e del sesso dalla nascita della pornografia moderna ad oggi. Ma anche una delle serie che negli ultimi tempi hanno riscosso più successo, la commedia Sex Education, è rivolta in questa direzione. La serie parla di un adolescente, Otis, che, anche a causa di una madre terapeuta decisamente sopra le righe e ossessionata dalla sessualità, non ha mai avuto un rapporto sessuale e, peggio, non è mai riuscito a masturbarsi. Ogni volta che ci prova, viene colto da attacchi d’ansia. Ecco, Otis è attorniato dal sesso, la sua casa è strapiena di statuette di peni, quadri di orge, video porno-anatomici. Il sesso è così parte integrante della sua vita che la sua intimità non gli appartiene, che la sessualità perde le sue qualità misteriche, riducendolo quasi a un essere asessuato. Insieme al migliore amico Eric sono una coppia di classici «sfigati» da telefilm; ma di loro vediamo gli aspetti più teneri, e il loro stereotipo si smitizza, lasciando invece intravvedere la loro profonda umanità. Eric, omosessuale che adora travestirsi, bullizzato, deriso, è l’emblema dello scontro tra il dogma sociale e le propensioni individuali di genere. Così anche per la compagna di classe Maeve, di cui Otis è segretamente innamorato, la «cattiva ragazza», dura, sessualmente esperta, che non sputa sulla femminilità ma si aggrappa al femminismo per non soccombere in un mondo che assegna al genere femminile un ruolo secondario, già stabilito. Anche di lei scopriamo insieme a Otis i caratteri più umani, le sue fragilità e dubbi, e la sua difficile convivenza col dover essere donna. Così per tutti i rozzi, superficiali, strani o perfetti compagni che li circondano; Otis comincia a prestare le conoscenze che ha appreso a spizzichi dalla madre per fare sedute terapeutiche clandestine ai compagni, e scopre che dietro alle maschere degli adolescenti c’è un abisso di paure molto simile per tutti.
Ci si potrebbe dilungare in un’analisi artistica ed estetica, ma le serie e film scelti o prodotti da Netflix per la sua piattaforma hanno una certa comunanza di elementi stilistici. Scelte registiche molto piane, fotografie similari, una scelta di cast calibrata senza ricerche di primattori o di elementi che possano «sfondare», sceneggiature curate e senza sbavature. Sono tutti elementi che, più o meno puntualmente, ritroviamo in tutte le esclusive Netflix. Questo dà coerenza alla linea distributiva, ma rende quasi vana qualunque osservazione sugli aspetti tecnici e artistici. Netflix ha scelto di parlare (bene – senza ricerche di eccellenza) a più persone possibile, utilizzando parimenti comico e drammatico per affrontare tematiche che suscitano perplessità a livello sociale e psicologico.
Poniamo un attimo un confronto tematico con Laurence Anyways, capolavoro del giovanissimo Xavier Dolan, dove un insegnante trentacinquenne rigetta l’individuo che ha finto di essere per tutta la vita per diventare una donna. Vediamo una diversità sostanziale nel trattamento dei dubbi e delle problematiche di genere rispetto a Sex Education: se in questo il focus principale si sposta sul rapporto dell’individuo (adolescente) col suo contesto sociale (la scuola) e la normalità che questa impone a quello, nel film di Dolan il contesto sociale è sì giocoforza pregnante, ma rimane un’incidente del percorso individuale, psicologico, emotivo del protagonista e del suo rapporto strettamente personale con la donna amata.
Per quanto in Sex Education i personaggi siano delineati bene, studiati, cesellati e piuttosto realistici, come detto si ha sempre l’impressione che ci si muova a partire da stereotipi o macchiette, con l’evidente scopo di abbatterne la monodimensionalità (del resto, a quindici-sedici anni tendiamo tutti a suddividere il mondo in stereotipi). In Laurence Anyways, la ricerca dell’individuo, delle sfaccettature anche atroci che ci compongono, ha il sopravvento su qualsiasi semplificazione. Laurence è prima una persona che un personaggio, non si riesce a inscatolarlo in un’etichetta. La sua comunanza con noi non deriva da caratteristiche generiche che lo collegano a un «tipo» a noi vicino; noi siamo Laurence per la sofferenza intima che attraversa, che attraversa tutti gli individui a prescindere dalle scelte di vita, dall’orientamento sessuale o di identità. Noi non siamo Laurence per le sue scelte, lo siamo per il motore e le motivazioni di quelle scelte.
Abbiamo quindi due piani sui quali si dipana il modo in cui viene affrontata la problematica di genere: quello dell’individuo e quello del contesto sociale, sovraindividuale. In Sex Education è quest’ultimo a essere al centro della narrazione, nella sua accezione più specifica della normalità. Soprattutto nelle problematiche di genere e sesso, il normale è uno scoglio contro cui si deve scontrare qualunque riflessione o pensiero. In Sex Education il normale diventa l’ambizione del protagonista, che si crede in ritardo sulla normalità sessuale degli altri adolescenti, come anche del suo migliore amico Eric, che si ritrova ad essere uno dei due unici gay dichiarati della scuola. E, dei due, è quello senza dubbio meno cool. La supposta anormalità sessuale dei due amici va dunque ad aggiungersi al loro essere «sfigati», all’estromissione ideale dalla cerchia di chi è socialmente integrato. La loro è una lotta quotidiana contro e verso il normale. Ma quello di cui si renderanno conto a poco a poco, è che il normale non è un luogo a cui si possa davvero giungere.
Ma l’impresa eccezionale – dammi retta – è essere normale cantava Lucio Dalla in Disperato Erotico Stomp. Ecco, questo verso riassume il paradosso del normale. La normalità è una tappa definitiva e ideale nella vita delle persone, ricercata invano perché irrealizzabile. Si pone su un piano diverso da quello dell’individuo, risulta sfuggente nella sua stessa definizione. Ogni tentativo di inquadrare la normalità risulta vano, frustrato dal fatto che la parola è vuota; non rimanda a nulla di intellegibile, ma a vaghe idee, tendenzialmente sovrastrutturali, legate alla sfera dei dogmi culturali.
Quello che sembra emergere da questo confronto cinematografico è che quindi la multiformità dell’individuo non possa ritrovare, nelle problematiche di genere e sesso, alcun riscontro che stabilisca una regola. In Laurence Anyways, ambientato negli anni ’90, vediamo come la donna perda il posto di lavoro perché la sua situazione di genere è considerata malattia mentale; ma oggi non è più così, oggi una scelta del genere verrebbe considerata retrograda e reazionaria. Non c’è quindi certezza nelle istanze sessuali? Femminile e maschile vanno di pari passo alle modificazioni che la normalità impone a seconda del tempo e del luogo?
Il mondo è un carciofo: una stratificazione di piani e prospettive, strati sovrapposti che vanno a creare qualcosa di esageratamente complesso. Se tu vuoi vedere cosa c’è sotto, cosa c’è dentro questo carciofo, devi per forza strappargli via le foglie, i petali, strapparli, strapparli strapparli fino a che non ti rimane un qualcosa che del carciofo non ha più nulla. Per capire il carciofo bisogna guardarlo senza intervenire, girarlo, guardare più petali possibile, alzarli gentilmente per scrutare cosa c’è sotto; anche se sai che non potrai mai vedere chiaramente, sai anche che è il massimo che puoi fare senza snaturare il mondo (carciofo) stesso. Ecco, in questa pluralità di strati, piani, prospettive, petali, non possiamo limitarci a esaminarne soltanto uno o due. Dobbiamo cercare sempre più di allargare la nostra prospettiva, inserendo a poco a poco sempre più strati.
Uno dei modi forse più distanti dall’occhio contemporaneo – analitico e funzionale fino al riduzionismo, o così incentrato su se stesso da abbracciare un relativismo totale – di osservare il carciofo è quello simbolico. Come possiamo leggere femminile e maschile dal punto di vista simbolico?
Proviamo a pensare a un linguaggio come quello dell’astrologia: abbiamo binomi opposti – sole-luna (ma anche, in termini diversi, marte-venere) – che effettivamente rimandano a mascolinità e femminilità, senza però essere legati al maschile e femminile fisiologici. Quello che evocano non è un individuo, non è una regola sociale di uomo o donna, ma piuttosto un insieme di caratteristiche che rimandano a un’idea simbolica di femminile e maschile. E questa presenza simbolica non ha una corrispondenza biunivoca perfetta col lato psicologico individuale, né tantomeno con quello delle strutture socio-culturali; è slegata, aperta, ha capacità di adattamento universale, può legarsi in modo arbitrario: il femminile simbolico non è necessariamente attributo di una persona di sesso femminile, può anzi essere esattamente il contrario. Ecco, su questo piano, quello simbolico, presente anche in discipline come l’alchimia, l’analisi jungiana o molti approcci psicoanalitici (dove io e inconscio sono rispettivamente associati a maschile e femminile, adolescenza e infanzia) o filosofie come il taoismo, possiamo ritrovare una malleabilità più vicina alla reale esperienza dell’uomo, che dà una serie di regole, o meglio indirizzi, che non hanno necessità di rispecchiarsi in un unico aspetto del reale.
Se è dal piano simbolico che le narrazioni epiche e mitiche derivano, è proprio dal pervertimento di queste che si genera il dogma (sociale, politico, religioso). Se il mito nasce come simbolo di una domanda, un valore, un principio universale, archetipico, la sua cristallizzazione in dogma lo perverte, distruggendone la malleabilità e trasformandolo in quello che Barthes definiva come «una parola eccessivamente giustificata», ciò che «trasforma la storia in natura» per evidenziare il lato coercitivo e brutale dei miti. Ma il problema e il paradosso del mito è che non può avere coscienza di essere mito rimanendo tale.
L’archetipo diventa stereotipo, l’universale diventa normale. Ma il normale, nel momento in cui si scontra con il piano dell’individualità, cessa di avere realmente senso. Se pensiamo, rimanendo nell’ambito del sesso, che statisticamente ben più della metà delle persone adulte (maschi e femmine) ha un qualche feticismo sessuale, ecco che il (sessualmente) normale, evocato come canone dei più contro la stranezza, come fortezza per arginare il diverso, diventa solo una parola vuota, creata per tenersi al sicuro dall’enorme incertezza di una realtà sfaccettata e complessa.
In difesa del concetto di «normale», in molti utilizzano l’arma della «natura»; ma è anch’essa una parola vuota. Arbitrariamente, diamo al concetto un significato opposto a cultura. Cultura come caratteristica prima dell’uomo, che permette allo stesso di slegarsi dai dogmi di natura e istinto per determinare sé e l’ambiente in cui vive. Ma diversi approcci linguistici, come quello chomskiano, smentiscono questa visione. Linguaggio e cultura sono più derivazioni dell’istinto che non sue antitesi. Se molte specie animali, da mammiferi ad artropodi, hanno forme di cultura – intese come trasmissioni di sapere non legate all’istinto – allora anche questa opposizione decade. La cultura è solo una delle espressioni della natura dell’uomo, non la sua alternativa. È strumento che permette all’uomo, partendo da un contenuto comune, di modificare le modalità e le forme con cui interagisce col mondo.
Il simbolico è quindi quel luogo dell’uomo che, negando ogni tipo di assolutismo nel rapportare gli oggetti che raccoglie ad altri piani, più si presta a rispecchiare l’immensa varietà del piano individuale. E se il suo sfuggire a un approccio logico-scientifico lo rende più facilmente analizzabile dalle scienze umane, la sua espressione più propria si ha nelle discipline spirituali/filosofiche e, soprattutto, in quelle artistiche.
La raccolta di poesie Hold your own della giovane scrittrice e cantante inglese Kate Tempest, sembra fondarsi proprio sullo scontro tra piano simbolico-mitico e piano sociale, intersecandoli con l’opposizione (fittizia) donna-uomo, femminilità-virilità. Lei (noi) è Tiresia, l’indovino che ha vissuto l’essere uomo e l’essere donna per poi vedersi privare della vista del presente e quindi, simbolicamente, dello stesso sesso. Lei è Tiresia, Tiresia è lei; l’identità è assodata, senza alcun dubbio: il potere del piano simbolico è negare l’evidenza dell’esteriorità, sia identitaria che, come in questo caso, sessuale. Il riconoscimento è su un piano diverso, più intimo, più profondo (inconscio?), che viene fuori sia nei terribili momenti della metamorfosi e del piano più strettamente mitico, sia si rispecchia negli attimi quotidiani di affetto per un’amica in uno squallido appartamento o di espressioni feticiste e sensuali con un uomo. Il sesso, il genere, diventa un carattere universale, interscambiabile perché ha il puro valore del simbolo, indefinito ma mai aleatorio proprio perché è lui a stabilire le leggi (terribili, profondamente imperscrutabili) che governano tutte le storie.
O ancora, rimanendo su modelli più popolari, pensiamo al binomio femminile-maschile in una canzone come Donna con la gonna di Roberto Vecchioni. Accusato di essere espressione di becero sessismo, il pezzo mette in realtà in luce con le armi dell’ironia e dell’iperbole quanto l’ideologia femminista più deteriore abbia accolto l’opposizione dogmatica uomo-donna e ci si sia radicata, rivendicando come universali, invece che superarli, i valori del patriarcato. Quello che non viene mai detto nella canzone, ma che è insito all’interno dell’intera produzione del cantautore, è che il piano simbolico è per lui quello più reale, che ha più contatto col senso intimo dell’individuo. Alla luce di ciò, la sequela di donne «machizzate» che lui rifiuta all’interno della canzone, non è un rifiuto della donna nella sua versione androgina, quanto un rifiuto del piano del dogma culturale, del binomio uomo-donna, se non nella sua forma simbolica maschile-femminile. Nel verso di chiusura dell’ultima strofa – e torna a casa dal meeting stronza come un uomo, sola come un uomo – c’è l’amara condanna di un modello, quello patriarcale, che è arrivato a impoverire e corrompere coi suoi dis-valori anche i tentativi genuini e fondati di ribaltarlo.
Tutto questo per dire cosa? In fondo, in Sex Education, l’aspetto simbolico è praticamente assente. La narrazione si snoda seguendo un binario preciso: da una presentazione dei personaggi piuttosto schematica, stereotipata, si va via via a connotare ciascuno di loro secondo valori sempre più individuali che assumono caratteri anche drammatici nel momento in cui si scontrano con quegli stessi dogmi in cui all’inizio li vedevamo immersi. Non c’è spazio per le grandi questioni, per guardare quel mondo dall’esterno, da un occhio che vada oltre, perché è tutto troppo impregnato del quotidiano (semi)patinato della commedia seriale anglofona. I personaggi sono immersi in una lotta tra i bisogni individuali e il mondo ideale dell’adolescenza costruito dai modelli sociali. È una battaglia solitaria, in cui non ci sono strumenti più grandi a cui aggrapparsi, ma si può contare solo su quel po’ che l’esperienza insegna e sull’aiuto di chi ci sta vicino. Ma se Otis e amici trovano respiro nel piano dell’intimità, e Laurence lo ritrova in quello dell’interiorità, rimane il dubbio che fuori, nel mondo esterno, non possa esserci un luogo sicuro in cui sesso, femminile e maschile possono spogliarsi dai veli della normalità. Ecco, tutto questo per dire che un luogo c’è: basta allontanarsi un attimo e lo vedi; un carciofo.
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