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L’augurio dell’ufficiale mi ha trasmesso una certa aspettativa e ho sceso la scalinata sicuro che mi sarei imbattuto in schiere di donne in attesa. Una stolta illusione. La Zona dei Ministeri era squallida, tetra, così come la Zona degli Impiegati, con le sue costruzioni tutte uguali, con i giardini addomesticati. Avanzando tra le pattuglie sono arrivato alla cinta della Zona Portuale, già innalzata per un lungo tratto. Un caporale che aveva appena finito il turno mi ha spiegato che per accedere al porto bisogna avere un permesso speciale, poi ha indicato il cammino di ronda dei bastioni e ha aggiunto: «Con il tuo tesserino, al massimo, puoi salire lassù».

 

L’incubo ha un nome per Angelo Calvisi, ed è la Capitale del suo Stato immaginario. Questa Capitale – rigorosamente in maiuscolo, come maiuscole sono le Zone, i Reparti, i Funerali di Stato, ché il burocratichese è una lingua altisonante, ridondante e formalissima – è il luogo in cui tutto, dagli orari al lavoro alla condizione di salute, sembra prestabilito da rigidi schemi immodificabili. È il luogo di una guerra fittizia montata ad arte per lasciare le persone a un livello di tensione costante, un’eco lontana del grande nemico orwelliano, di volta in volta l’Eurasia o l’Oceania. Una tensione che si mantiene in ogni pagina, poiché il riposo del lettore e la calma riflessiva non è qualcosa a cui Calvisi punta, ma anzi sembra volerle ripudiare, allontanare il più possibile, mettendo in moto eventi su eventi, e gettando nella narrazione personaggi su personaggi, antieroi di carta senza troppo spessore, strizzati come panni appena lavati e risucchiati dal proprio ruolo e dalle cose che accadono intorno a loro.

Un incubo neanche troppo lucido: questo è Genesi 3.0, il luogo degli individui malati per i quali sembrano non esistere cure umane ma solo dissezioni e sventramenti che verrebbero applicati solo nell’industria alimentare. Esemplare è il caso di Fred, che durante lo svolgimento della trama si vede sminuzzato (prima una gamba, poi un braccio e così via) e ridotto ai minimi termini fino a scomparire nel nulla, e questo nonostante la costante presenza di rimedi naturali provenienti da piante in grado di causare risate o guarire da malattie, come la «Pola Bàbula, la conifera che scioglie le afasie e la balbuzie».

Ai rimedi naturali e alle erbe in grado di risanare i moribondi vengono contrapposti artifici, soprattutto in ambito alimentare, che sono quanto più lontani possibile dal «biologico»: dal pollo al curry liofilizzato che sa di menta, a sigarette che sanno di dado da brodo ai cibi al sapore di ferro e fumo, niente, nella Capitale, sembra salutare e tutto appare irrimediabilmente corrotto, dannoso, marcio. Anche i rapporti umani, spesso ridotti a scambi di battute senza senso, a conversazioni che paiono incompiute, il senso sempre di là da venire.

Quindi cosa resta da fare quando tutto ciò che c’è intorno è orribile? Orribile è la città in cui le persone vivono come topi; orribile è la vita delle persone, costrette a lavori asfissianti e sottoposte al terrore della guerra, dei bombardamenti, delle malattie e delle cure che per quelle malattie sono previste; orribile è la mancanza di amore e anche solo di affetto nei rapporti interpersonali, disumanizzati come se fosse esistito un tempo – in questo mondo senza storia creato da Calvisi – in cui esisteva un paradiso di cui si è perduta la chiave per l’accesso; orribile è la condizione stessa del vivere, dal momento che i corpi sono nefandi e forieri di ciò che di più turpe (eppure umano, naturalmente umano) esiste, come le deiezioni, le feci, la merda.

Genesi 3.0 è un antiromanzo che confonde e turba, una perdizione senza via d’uscita. È claustrofobico, è ridicolo a tratti e grottesco perlopiù, è qualcosa che ha a che fare con noi eppure ci è alieno, qualcosa che sta accanto alla nostra realtà senza penetrarla completamente. Per dirla con una sola frase: se esistesse il mondo che Calvisi ha costruito, io non vorrei viverci.

Io dico solo: lasciatevi ammaliare dall’orrore, e ciò che avete intorno vi sembrerà bellissimo.

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