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Il Buono

“Fu una cosa enorme, il Texas Stadium pieno, vennero veterani da tutti gli Stati, mutilati di guerra in carrozzella, tutte persone che stettero ore sotto la pioggia per veder passare il corteo funebre, come se Chris fosse un uomo di Stato. E allora ho pensato: finiamo così, con queste immagini nella pioggia. Finiamo con il destino, che è poi quello che domina le nostre vite. Il destino è tragico e sarcastico”

Clint Eastwood, da un’intervista del 19 dicembre 2014

Se pensiamo da dov’era partito – Leone, il poncho e la colt, poi Callaghan – la parabola dell’eroe eastwoodiano sembra marcare una linea ben precisa. Già dai primi film come regista, Lo straniero senza nome, Assassinio sull’Eigel, Il texano dagli occhi di ghiaccio, gli stilemi dell’americanità vengono rimessi in discussione. Se nelle retoriche della pop-politica l’America è il paese o dell’estremo bene che lotta contro il “selvaggio” soffocamento delle libertà democratiche, o dell’estremo male che corrompe con dinamiche imperialiste e capitaliste la “genuinità” delle altre culture, l’America eastwoodiana ha una natura molto più indefinita. È un luogo contraddittorio, dove l’estremo convive col suo opposto, la ferocia con l’onestà, il dovere con la velleità, il massacro con l’etica; e questi binomi non sono mai realmente in contraddizione l’uno con l’altro, ma si adeguano al mondo osservato accettando la sua qualità intrinseca d’ossimoro.

Lo sguardo di Eastwood, pur non definendo una realtà statica e piatta, sembra però riconoscersi pienamente in quell’indefinibile coacervo di valori che è il sogno americano. Ma è un sogno sempre fuori portata, troppo lontano; non nello spazio, perché per sua stessa natura lo si può ritrovare in tutta l’America, ma nel tempo: non solo le sue radici, ma il sogno americano stesso sembra non poter sopravvivere nell’oggi. In tutte le ambientazioni contemporanee si avverte vagamente come fantasma sbiadito che ancora conserva una presa sul presente, avvinghiato a ideali di giustizia, di libertà (o libertarismo), di un mondo che trova la sua giustizia solo nell’ordine. Se il sogno americano esiste – se è mai esistito – lo si deve cercare nel passato. Ecco che la passione di Eastwood per i western acquista una direzione: una ricerca a ritroso delle radici del sogno, un’immersione nel mito dell’America, oltre i colori sbiaditi di Ombre Rosse o il chiassoso silenzio di Nascita di una nazione. Ma la ricerca si scontra con la desolazione della Storia: non c’è sogno laggiù, non c’è mito; solo quello stesso senso d’indeterminatezza che ci accompagna da sempre. Non ci sono eroi, veri, da fumetti, ma solo una grande confusione tra giustizia e vendetta, una spietata ricerca di una pace mancante, che sfugge tra i dollari, gli omicidi, e un mondo troppo vasto ma sempre troppo piccolo. È così nel Texano dagli occhi di ghiaccio, nello Straniero senza nome e anche nel più pensato Gli spietati. L’eroismo sembra limitarsi al saper usare una pistola, uccidere quante più persone possibile, ma lo stesso Eastwood sembra piano piano convincersi che massacrare, anche in nome della sopravvivenza, non è essere eroi. Quelli sono gli eroi tarantiniani, che si fanno beffe dell’America e dei sogni, che hanno capito che la realtà è insensatezza, che la vendetta è davvero giustizia, perché il vero sogno americano è sacrificare tutto quello che ci resta per accontentare il nostro piagnucoloso ego.

Ma Eastwood ci crede, nel sogno, negli eroi. Li ricerca nell’ordine, nella tradizione, nel sacrificio e nell’onore dell’individuo; e continua, andando ad approfondire gli sguardi, raschiando le piccole contraddizioni di questa grande America. È la delicatezza dei Ponti di Madison County, ma è anche l’assurda e truce ingiustizia di Mystic River; dovunque Eastwood posi lo sguardo, quel senso di sogno di un passato inesistente viene addentato dalla realtà, caotica, impazzita, incomprensibile. Nulla cambia tra passato e presente, tra il racconto del west e l’oggi: entrambi sono sempre troppo reali per avere il sapore del mito. Quella di Eastwood è da sempre una lotta disperata contro il tempo, contro presente, futuro, contro l’immanenza che imbratta l’idea del sogno lasciandola violata e sanguinante.

È così nella guerra; nello splendido dittico Lettere da Iwo Jima e Flags of Our Fathers, più che in molti altri film del genere, si sente lo strappo che la realtà infligge all’idea, al sogno; l’onore, la gloria, l’idea di nazione e di eroe, diventano tutti fantocci da fare brandelli, e rimangono solo esseri umani troppo piccoli, troppo vivi per poter sognare ancora. E questo binomio diventa esemplare in American Sniper. La semplificazione del dogma – banale come il sogno americano – pecora, lupo e cane da pastore, l’epopea dell’eroe, con il suo antagonista da abbattere, la linearità della propria missione, del ritorno a casa; tutto sembra fatto apposta per celebrare il sogno. E invece nulla torna, perché la realtà della guerra, la povertà della morte, della tristezza, e l’ironica fine dell’eroe, mettono all’angolo qualunque retorica epica, riducendola al silenzio.

E il tempo è anche il centro dei due film Million Dollar Baby e Gran Torino. Generazioni a confronto, che possono forse arrivare quasi a comprendersi ma devono ancora – ancora una volta – fare i conti con una realtà che distrugge l’ovvio e naturale passaggio di consegne dai vecchi ai giovani. E tutto cambia solo per restare lo stesso, solo per confondere ancora le idee di chi crede di aver capito qualcosa. Il mondo rimane un luogo incompreso, incomprensibile; il tempo, passando, inganna. Ci illude tutti che esistano delle regole, che, in un giorno ormai dimenticato, qualcosa – un sogno – sia stata stabilita e sia diventata il perno immutabile degli eventi. Invece gli eventi non fanno che divorarla. Questo è il sogno americano: una colonna eretta al centro di tutto, rosicchiata da un presente che diventerà futuro, e che sta in piedi solo grazie all’illusione del tempo.

Il Boss

Come on this train
People get ready
You don’t need no ticket
All you got do is just get on board
On board this train

Bruce Springsteen, Land Of Hope And Dreams

Se mai, passando su Netflix, si avessero due ore e mezza da spendere bene, ci si può fermare a godersi Springsteen on Broadway. Un po’ concerto, un po’ show, un po’ testamento biografico; Springsteen si racconta, a modo suo: con le canzoni. Si prende in giro, si commuove sul palco, canta in acustico – piano o chitarra – alcuni dei suoi pezzi più belli. Thunder Road, The Ghost of Tom Joad, The Wish, Dancing In The Dark, The Promised Land; ogni canzone accompagna il racconto di un fatto della sua vita. Sono eventi semplici, in cui ognuno può rivedersi; il rapporto col padre, con la madre, gli amori e le malinconie, la voglia di crescere, di andare, partire, lasciarsi tutto alle spalle, sfondare, seguire un sogno. E anche ora, vedendo quel quasi settantenne andare avanti e indietro sul palco, si ha come l’impressione che nulla sia cambiato, che quel ragazzo che è stato sia ancora lì. È quella forse la dimensione più meravigliosa di Springsteen: il dare sempre l’idea che gli anni siano passati senza davvero toccarlo, che abbiano lasciato quegli stessi sogni intatti.

Springsteen, a differenza di Eastwood, sembra partire dall’assunto che la realtà non è la verità più profonda. Certo, il presente ferisce, il reale porta dolore, malattie, guerra, e tutto questo è presente nelle sue canzoni. Ma quella stessa realtà, per il regista così invasiva da diventare nauseante, per lui non ha invece alcuno spessore. Lo spessore si ha nella percezione emotiva delle cose, in ciò che dentro di noi la realtà può creare (a little bit of God’s mercy) o distruggere (Devils And Dust). Anche verso il passato gli sguardi divergono; il west di Springsteen è folk, è un ripescare la coralità e il gusto atavico popolare, l’eroismo anche spicciolo, da bandito pop come Jesse James, oppure meditativo, oppresso in se stesso, ma che culmina con We Shall Overcome e We’ll make our home in the American Land. Perché il sogno americano è oltre il passato.

In questo Springsteen è una faccia dell’America; la faccia della speranza, della moltitudine di etnie e individui, dell’apertura e delle possibilità. Dalle sue canzoni spira sempre la sensazione che il sogno americano, con i suoi contorni indefiniti, non sia legato allo spazio né al tempo, ma sia un valore universale (this train carries saints and sinners), come un qualcosa che è nato con l’uomo e che l’America solo per puro caso ha potuto rivendicare come suo.

L’America di Springsteen, quella non funestata dalla paura, è l’America della comprensione, sia nel senso di empatia che in quello più allargato, etimologico e potente, di accoglienza. Il sogno Americano si realizza solo se tutti ne fanno parte; l’interiorità – forse ingenua, ma mai immatura – che il Boss veicola nelle sue canzoni, trova realizzazione completa solo nell’altro. Così il suo west di We Shall Overcome, così il suo ring del perdente, simile a quello di Million Dollar Baby, composto sì da broken bones and bruises I display, ma la cui sofferenza è il sacrificio necessario per strappare il sorriso a chi guarda. Così il suo cristianesimo, così forte in una famiglia italo/irlandese, ma che Springsteen riesce comunque a sfumare, donandogli un’autenticità intima che trova il suo senso d’esistere, più che nel dogma e nella tradizione, nell’accordo tra parole dei Testi e profondità dell’io.

Springsteen on Broadway è una lezione d’intimità, di un uomo che, ricordando e cantando quello che ha vissuto, aiuta anche noi a comprenderci un po’ di più. Per lui il passato non è un qualcosa d’indistinto da richiamare; il passato è il padre e la madre, il passato è l’infanzia e quegli stracci di ricordi che lascia, sono malinconie e fuochi, danze, sguardi, canzoni. Il passato è anche presente, perché nel racconto di Springsteen c’è un buco. O meglio: nella vita c’è un buco. Crediamo di camminare da una stanza all’altra, da bambino a ragazzo, da ragazzo a giovane, da giovane ad adulto, da adulto a vecchio; e invece non c’è nessuna stanza. Un attimo prima è ricordo, l’attimo dopo è ora. Quella porta che dovevamo passare non l’abbiamo passata; eppure ora siamo adulti, prima no. È questo il buco che si sente nel racconto: la cesura tra ciò che eravamo e ciò che siamo; canzoni di dieci, vent’anni fa che si vanno a sovrapporre ad altri pezzi di uno, due anni fa, ma non capisci quale dei due sia quello più recente, perché finché sei in vita non esiste un io passato e un io presente, ce n’è uno solo, io, anzi tanti, tutti, che vanno tutti nella stessa direzione senza capire nulla, ma provando comunque cocciutamente a comprendersi. Perché se il passato è presente, e il presente prende le sembianze del sogno al di là della realtà, allora il sogno è più forte del tempo.

È questo il sogno americano: un treno che va, che accoglie chiunque, c’è posto, ce n’è abbastanza, anche senza biglietto, che se ne infischia del tempo, perché il tempo lo si supera in un attimo, un treno che viaggia per sé, per viaggiare, senza logica, senza una vera e propria meta; quella è laggiù, una terra di speranze e sogni, che ci arriverai, certo, ma non conta quando. Conta solo con chi: tutti.

La Morte

MORTE: Ti è stato d’aiuto questo rinvio?
ANTONIUS: Ah, sì, certo.
MORTE: Ne sono lieto. E adesso ti lascio. Quando ci rincontreremo, sarà giunta l’ultima ora per te e i tuoi compagni di viaggio.
ANTONIUS: E tu ci svelerai i tuoi segreti?
MORTE: Non ho alcun segreto da svelare.
ANTONIUS: Allora non sai niente?
MORTE: Non mi serve sapere

I. Bergman, Il settimo sigillo

Un giorno Salomone vide che l’Angelo della Morte era triste. Quando gli chiese perché, questi rispose: “è stato deciso che io debba prendere le vite dei due scribi etiopi, Elihoreph e Ahijah, che sono seduti proprio lì, nel salone del tuo palazzo”. Allora Salomone affidò i due ai demoni suoi servitori e li fece portare nel lontano distretto di Luz, fuori dal dominio dell’Angelo. Ma quando arrivarono a Luz, i due morirono.
Il giorno dopo, Salomone vide che l’Angelo della Morte era felice. Quando gli chiese perché, questi rispose: “li hai mandati proprio nel luogo in cui era deciso che io li dovessi prendere. Fino a che fossero rimasti nel tuo palazzo, non avrei potuto fargli nulla”.

Questa parabola (Talmud, Sukkah 53a) è stata ripresa e reinterpretata nel romanzo del 1934 Appointment in Samarra di John O’Hara e, più recentemente, da Vecchioni nella canzone Samarcanda. Si è soliti vedere nel destino dei due scribi etiopi (o del mercante di O’Hara, o del soldato di Vecchioni) una metafora del fato a cui non si può sfuggire; dovunque tu vada, se per te è stato decretato un futuro, quel futuro accadrà. Anche se già lo conosci, anche se credi di avere piena libertà di scelta, la direzione che prenderai, con tutte le azioni che magari intraprenderai per evitarla, è quella già scritta.

È in questo fatalismo deterministico che trova spazio la poetica eastwoodiana. Il sogno, l’americanità, un ordine stabilito dalla giustizia; tutto questo non basta per evitare la condanna alla quale ci costringe l’insensatezza del reale, così come il potere immenso di Salomone non serve a nulla contro il compito divino dell’Angelo. L’uomo non può sfuggire dalla sua natura di uomo, dal suo passato che si ripete sempre uguale nel presente, e si ripeterà identico anche nel futuro. Anche l’eroe – questa figura sfaccettata, che nell’epopea eastwoodiana copre le figure più disparate, da piloti civili ad assassini, da fotografi a cecchini – è sempre condannato agli stessi errori da uomo. Quello che l’eroe può fare è cercare di rimanere il più possibile aggrappato al sogno, a quell’idea imprecisa e forse inesistente, ben sapendo che prima o poi dovrà mollare la presa e venire inghiottito dal caos che lo circonda.

Anche il film più recente, The Mule, si inserisce nel filone in cui troviamo Gran Torino e Million Dollar Baby, di un’America che è cambiata, che è confusa, ma invece è sempre la stessa ed è solo lo sguardo di un quasi novantenne che, ancora una volta, ci inganna. Il sogno è sempre quello di una volta, un pugno di dollari, una casa di proprietà, un lavoro rispettabile, ma tutt’attorno il resto sembra impazzito. Come sempre. E un novantenne che diventa corriere della droga per i narcos, le lotte di potere del cartello, le minacce di morte, i massacri, il poliziotto eroe che corre, corre, ma sembra non arrivare da nessuna parte; tutto in questo mondo di oggi pare diventato follia, insensatezza, ma è solo il nostro sguardo viziato dalla visione di questo singolo film che ci trae in errore. Perché questo monito è presente da sempre nell’amara parabola eastwoodiana. È sempre stato così: come il sogno, nella sua imprecisione e vaghezza, è sempre rimasto stabile, anche la realtà, nel suo insensato errare, nelle sue carneficine, non è mai cambiata. Ma in quest’ultima pellicola Eastwood riesce a ritagliarsi un antidoto al reale. Troppo tardi, perché la morte, il destino e la colpa sono (giustamente) in agguato, però questa piccola speranza permette di leggere la parabola dell’eroe eastwoodiano da una nuova luce, con un altro epilogo. È l’accettare che il sogno americano fatto di dollari e sudore e sangue, di ordine e colt, di necessaria prevaricazione, non è altro che un sogno; che quella colonna rosicchiata dal reale, dentro è vuota. È il riconoscersi la colpa di averlo seguito fino in fondo, incurante di tutto e tutti; per poi finalmente capire che tutto questo seguire, questo disperato cercare, finiva là dove era partito.

Ed è attraverso questo pensiero che nella parabola del Talmud ritroviamo anche la poetica di Springsteen. I due artisti rappresentano due facce opposte dell’America; e l’America, in fondo, rappresenta uno dei nostri tanti volti covati nell’intimo, un simbolo che ha maldestramente provato a sagomarsi in nazione pochi secoli fa. Ma lo sguardo di Eastwood e di Springsteen sull’America – come quello di molti altri – ci ha permesso di scoprire che, se passato e presente sono sempre uguali, il mito della nazione è vuoto come tutti i sogni costruiti dalla paura del reale. Laddove quindi da una stessa realtà – l’America – i due creano due poetiche differenti, anche in quei luoghi in cui la poetica di uno vale, basterà cambiare prospettiva per ritrovare anche la poetica dell’altro. E basta seguire lo sguardo di Springsteen per ritrovare una via della comprensione anche nel Talmud. Perché se Salomone avesse saputo leggere l’Angelo della Morte senza fermarsi al suo stato d’animo, avrebbe capito che la sua tristezza e le sue mezze parole non erano dettate dall’empatia verso i due scribi, bensì dal dolore di non poter portare a termine il proprio compito. E anche Vecchioni:

Sbagli, t’inganni, ti sbagli soldato
io non ti guardavo con malignità,
era solamente uno sguardo stupito:
cosa ci facevi l’altro ieri là?
Ti aspettavo qui per oggi a Samarcanda,
eri lontanissimo due giorni fa;
ho temuto che per ascoltar la banda
non facessi in tempo ad arrivare qua.

Mette in scena lo stesso fraintendimento; quello che il soldato aveva scambiato per uno sguardo maligno, era solamente stupore. Ecco: è il nostro fraintendere gli altri che ci porta a condannarci. Il nostro approccio al mondo, come quello di Salomone, del soldato che cerca una via di fuga dal destino, o di Antonius del Settimo Sigillo, ci spinge a capire più che a comprendere. Per Jaspers la verità si raggiunge solo attraverso l’apertura alla logica filosofica, alla rinuncia di quella certezza logica verso cui ci guida il pensiero; è il nostro essere abbracciante (lett. Che afferra intorno), che prescinde la validità oggettiva di ogni verità universale, a farci cogliere la verità dell’esistenza. La Morte e l’Angelo della Morte sono dunque anche l’Altro, che noi non comprendiamo come singola esistenza, ma come apparizione, istanza, della stessa natura intima di un’idea, come il fato. È solo attraverso la comprensione – intesa come sapere intuitivo, emotivo, apertura, abbraccio –, non attraverso il capire, che possiamo vederli finalmente come esseri, e ingannare il destino.

Ma c’è uno sguardo in più che possiamo dare. Se leggiamo la parabola simbolicamente, l’Angelo della Morte e la Morte non sono solo il destino o l’altro, ma sono anche la parte d’ombra, profonda, misterica di noi stessi. Viviamo immersi in una cultura che rifiuta l’oscuro, una cultura del portare alla luce, del rendere visibile l’invisibile, di pervertire il mistero in sapere, il segreto in legge, deviando coattivamente la nostra visione verso un riduzionismo nichilista. Comprendere l’Angelo della Morte significa accettare questo lato oscuro della nostra esistenza, onorare il misterico e farlo nostro, chiave anch’esso di quel comprendere che, solo, può renderci finalmente, intimamente liberi.

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In alto: Fotogramma dal film Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, 1957.

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