Quarto appuntamento con Corsa allo Strega, rubrica dedicata alla cinquina finalista al Premio Strega e organizzata in collaborazione con la Scuola del libro. Il contributo di oggi è a cura di Federica Privitera e Francesca Leotta.
Un viaggio pulsante tra il silenzio assoluto della stanza semianecoica di John Cage e il rumore continuo della Terramai (la Neverland di Peter Pan) in cui la protagonista sogna di vivere. La straniera di Claudia Durastanti, edito da La nave di Teseo e nella cinquina finale del Premio Strega, è quasi un diario generazionale, un memoir dalle oscillazioni saggistiche nel quale l’autrice, alla sua quinta opera narrativa, ripercorre in un andirivieni temporale la storia della sua famiglia. Un intreccio di migrazioni obbligate e non, un fitto reticolo di linguaggi e segni che fin dall’infanzia caratterizzano la sua vita; la protagonista crescerà coltivando una propria voce, riconoscerà la sua educazione sentimentale, ma solo dopo aver fatto i conti con i mostri del passato e i fantasmi del futuro.
Nel libro una madre decide di emigrare a New York negli anni Sessanta seguendo le tracce di un’altra madre – la sua – che, giovanissima, aveva prima lasciato la Basilicata alla volta dell’Argentina e poi risalito l’America fino all’Ohio. E così una figlia, messa al mondo da genitori non udenti che non hanno mai voluto imparare la lingua dei segni perché dei loro personali gesti, intimi e violenti, avevano fatto una lingua unica e reciproca, nasce già con i piedi in due scarpe, l’Italia e l’America, per poi diventare l’interprete principale di una migrazione al contrario, da Brooklyn alla Val d’Agri: sei anni e già doppia, sradicata. Ma di radici né la madre né la figlia si sono mai preoccupate, perché il vero problema delle radici è l’albero stesso: questo si può recidere e può essere spazzato via, non il rapporto tra una madre e una figlia. I rapporti familiari volano come spore e in questo movimento vorticoso trova un senso la parola straniero, un sostantivo bellissimo, a meno che qualcuno non te lo imponga e ti costringa a esserlo.
Nell’oroscopo che fa da struttura al libro, tra le voci salute, viaggi, lavoro e amore, Claudia Durastanti sviluppa la topografia di una famiglia ricalcando gli strati geologici che la compongono. Se i libri, i film, i viaggi e la musica sono le fermate obbligate della crescita di una ragazzina molto più avvezza all’invenzione che al divertimento, i cristalli «di gioia o di solitudine sul fondo, le conseguenze di una memoria che è evaporata, tutto ciò che è stato scavato e poi inondato» rimangono come segno indelebile di una frattura che non si può rimarginare e che l’autrice non ha alcuna intenzione di curare. Anzi, la lascia sanguinare e dal rosso vivo che ne sgorga il lettore si fa circondare fino a rivivere, insieme alla protagonista, l’umanità dirompente dei suoi sentimenti.
Si tratta di una costellazione familiare i cui puntini della sfera celeste sono uniti da riflessioni politiche e antropologiche. La classe, la povertà, la disabilità e il rapporto tra il sé e gli altri sono necessariamente legati alle riflessioni autobiografiche della narratrice e si intrecciano a quelle sulla lingua e sull’identità culturale, in un libro in cui il linguaggio non è solo strumento, ma sostanza, e le parole definiscono ciò che si è. Se c’è qualcosa che di questo romanzo non si può dimenticare, è proprio la freschezza della scrittura. La lingua è disinvolta e sinuosa, le parole agili e gli accostamenti deflagranti. Il ritmo della narrazione è veloce, tanto che eventi, personaggi, luoghi e riflessioni si alternano in ordine sparso, ritornando a più riprese. È una lingua che mette a nudo, che attacca alla pelle evocazioni bizzarre in maniera consapevole e che fa della scrittura il personaggio di questo libro.
Con le parole, La straniera scarnifica pensieri ed emozioni, mettendoli a nudo e lasciando inermi di fronte alla loro inevitabilità. Non è un caso se parliamo di lessico familiare quando proviamo a elencare le immagini che di questo libro rimangono: migrazione, estraneità, identità, amore. Proprio l’amore è in conclusione la pietra angolare che regge l’impianto emozionale del romanzo: «Quando tutto cade, indomito l’amore resta.»
Nonostante gli strati di lamiere in cui viene tagliata la vita della protagonista, preda dell’esagerazione dei genitori, l’amore rimane una guida e diventa l’arma per sopravvivere a una guerra continua, quel collante che lega gli individui fino a confondere la pelle dell’uno sull’altro e che nulla ha di romantico.
È inevitabile,«un allarme invisibile che invitava alla sopravvivenza.»
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