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Oggi pubblichiamo un’intervista a Fabio Bacà, autore di Benevolenza Cosmica, romanzo uscito a marzo per Adelphi. Le domande sono a cura di Roberto Galofaro. 

Tre mesi e mezzo di buona sorte: tanto basta a Kurt O’Reilly, il protagonista di Benevolenza cosmica di Fabio Bacà (Adelphi), per andare in crisi. Non è una cosa comune che un uomo lamenti un’eccessiva dose di fortuna, e del resto la sua non è la situazione classica di chi sia stato benedetto dal cielo. Non indovina i numeri della lotteria e non azzecca il gratta e vinci milionario, ma le azioni del suo portafoglio salgono misteriosamente e senza cedimenti, persino quelle comprate come spazzatura certa; le donne gli lanciano chiari segnali di interesse e disponibilità; i tassisti, per una o per un’altra ragione, insistono per scarrozzarlo gratis; sul lavoro, dove conduce un ostinato assenteismo, riceve una promozione.

Il lavoro di Kurt è il suo carattere: è un matematico, lavora per l’Ufficio Nazionale di Statistica e le statistiche sono il suo pane quotidiano, la sua ossessione, il fondamento della sua interpretazione del mondo. Le probabilità espresse in numeri e percentuali improntano la sua Weltanschauung e alla devozione per la matematica corrisponde uno scetticismo obbligato nei confronti della vita ultraterrena. Eppure, non basta a consolarlo la Legge di Kerner, secondo cui in un intervallo temporale significativo la distribuzione statistica degli eventi insoliti non ha un andamento regolare ma tende inspiegabilmente a raggrupparsi. Nel mezzo della sua peripezia, un aforisma dopo l’altro, una citazione dopo l’altra, la presunta certezza della matematica si rivela inconsistente, e la statistica viene definita (citando un poco lusinghiero Mark Twain) l’arte di manipolare la realtà nel tentativo di ridurla a dati misurabili. C’è insomma qualcosa di sornionamente misterioso e indecifrabile nella buona sorte di Kurt, e questo, lungi dal rallegrarlo, lo tormenta.

In una Londra in cui si susseguono strani attentati terroristici, costruiti per evitare vittime o quantomeno ridurne il numero al minimo, gli incontri di Kurt scandiscono la narrazione, in un crescendo di verosimili miracoli. Situazioni in cui Bacà gestisce con raffinata ironia le vicende, donando all’io narrante una gran dose di incredulità e sarcasmo, capaci di smontare ogni singola assurdità in una battuta sagace.

Kurt è un Giobbe al contrario, messo alla prova non dalle sventure preordinate da un dio ma dalle combinazioni fortunose degli eventi randomici; è un Candido pessimista. La sua arma è un cinismo coltivato e lucido, esasperato, che non supera i turbamenti ma li rimuove. La grande spinta propulsiva dell’ironia elegante del romanzo è la rimozione, energia psichica regressiva che tende sotterraneamente ad accumularsi fino a un’esplosione attesa. E ha il suo centro, il fulcro, in una parola: l’“insensatezza” in cui la scansione degli eventi si abbarbica, destinatamente senza soluzione. L’insensatezza è costitutiva del mondo e tuttavia, sembra dire Bacà, per elevarsi a metafora essa deve rendersi estrema e vivida. 

Nel caos di improbabilità che rifiutano di lasciarsi ordinare in numeri sorgono i dubbi di Kurt sul destino e sul karma: come dire che anche nell’eccezionalità statistica esiste qualcosa di profondamente umano, ed è la ricerca indefessa (e infruttuosa?) del senso. Il maggior pregio del libro, infine, non è nello stile elegante e sapido (che qualche volta cede a compiaciute perifrasi) né nello scioglimento della vicenda ma proprio nella felice concatenazione della giornata eccezionale di Kurt, ritmata, sorprendente, a tratti esilarante, thought-provoking.
Un
conte philosophique smaliziato e aggiornato agli anni Dieci del Duemila, con segretarie discinte e piscine sospese nel vuoto, con smartphone e tassametri, metropolitane e attentati, fucili di precisione e terapie strategiche brevi. 

Vorrei inaugurare questa intervista con una domanda che immagino non le abbiano ancora mai fatto: Fabio Bacà, scrittore, quando è nato e perché?

Credo ci sia un’analogia piuttosto significativa tra la genesi di Benevolenza cosmica e la nascita delle mie ambizioni di scrittore. Se l’idea alla base del romanzo deriva da un periodo complicato vissuto tra il 2014 e il 2015, durante il quale alla perdita del lavoro si erano aggiunti due fastidiosi disturbi di salute, sento di dover attribuire parte delle mie velleità autoriali al fatto che da piccolo soffrissi di asma bronchiale. Costretto com’ero a una relativa immobilità, e non avendo certo a disposizione smartphone o playstation, mi toccava leggere in continuazione. Mia madre sostiene che quando le capitava di perdermi di vista, a sei o sette anni, sapeva che mi avrebbe scovato in qualche angolo della casa o del giardino a leggere fumetti o i classici per ragazzi. Ricordo il Boka di Ferenc Molnar e il Copperfield dickensiano. Pinocchio e Huckleberry Finn. Il Barone Rampante e i Tre Moschettieri. Semi che hanno trovato un terreno relativamente fertile nelle mie incipienti aspirazioni, prima ancora che nella mia immaginazione: in fondo, scrivere era solo di poco più faticoso che leggere. L’aspetto vagamente surreale del tutto è che l’inclinazione a risparmiare energie, a dispetto del mio lavoro di istruttore, è rimasta pressoché immutata.

Una domanda che, invece, le avranno fatto un milione di volte: ha calcolato quali siano le probabilità che un esordiente sia pubblicato da Adelphi? 

In effetti no. I dati a disposizione sono parziali o contraddittori, e le mie competenze specifiche non abbastanza raffinate da compensare il deficit di accuratezza. Mi tocca lavorare di immaginazione (come credo avvenga, peraltro, in quasi tutti gli uffici pubblici o privati di statistica): suppongo che fossero le stessa probabilità che avrebbe un giovane trequartista del Poggibonsi di essere acquistato dal Barcellona per esordire tre giorni dopo nel clasico, tra lo stupore generale, al posto di un irreperibile Messi scappato alle Bahamas con la compagna di Cristiano Ronaldo.

Il sangue freddo di Kurt, l’ironia e l’autoironia che dimostra, non attenuano l’impressione che, in fondo, egli non sia altro che un testimone privilegiato della condizione umana, in cui il male («spasmo di malessere che si propaga dalle viscere della città») è una benedizione, necessario alla conferma della natura umana. Quanto c’è di provocatorio nella scelta di raccontare questo assunto filosofico mostrandone il contrario?

La letteratura di qualità è sempre provocatoria, ma poiché non tocca certo a me definire il livello qualitativo della mia prosa, rispondo con un’elusione da manuale: in me non c’era alcun intento provocatorio conscio. Ciò che mi interessava era sviluppare un intreccio promettente e contestualizzarlo nella diabolica commistione di realtà/rappresentazione-della-stessa propinataci dai media: dopodiché, è evidente che una delle missioni collaterali dello scrittore pertiene alla possibilità di suscitare domande e riflessioni nei suoi lettori. Sotto questo punto di vista, mi piace l’accezione più moderata del verbo suscitare: provocare è un obiettivo ancora lontano dalle mie facoltà. Approvo la definizione di Kurt come testimone della condizione umana, ma aggiungo che è un ruolo a cui lo costringe lo shock da benevolenza reiterata: la natura dualistica della realtà non conferisce automaticamente al male lo status di benedizione, ma per l’essere umano, ancora così desolatamente inconsapevole e non empatico, resta spesso l’unico modo di imparare qualcosa.

Quella che Kurt ricerca è quasi una metafisica dell’assurdo inferita per via statistica. Ma la letteratura non è dimostrazione matematica né banco di prova teorico-pratico, tanto che la chiusa del romanzo – senza voler anticipare troppo – lascia al lettore l’ultima parola. Intanto però questo lettore ha assistito a uno spassoso carnevale di eventi che strappa più di un sorriso. Volendo entrare nella sua officina creativa, può dirci se la concatenazione dei fatti narrati è nata naturalmente o se è invece passata per riscritture successive? 

Be’, direi entrambe le cose. Nel senso che la mia maniacalità è tale che qualunque soprassalto creativo deve essere filtrato e riconsiderato alla luce di parecchie stesure. Assodato che la maniacalità sia una funzione dell’insicurezza, e che il sottoscritto riscriverebbe Benevolenza cosmica altre quindici o venti volte, non ho bisogno di confessare che le esigenze editoriali hanno l’indubbio merito di attenuare certe pericolose fissazioni.

Posso ipotizzare che la scelta di un’ambientazione londinese sia dovuta alla necessità di rappresentare una metropoli moderna e tecnologica e tuttavia fragile, decisamente più icastica e futuribile di una città italiana. Ma le chiedo esplicitamente: perché Londra e perché gli attentati terroristici?

Londra è il risultato di una lunga riflessione. In me non c’era nessun particolare impulso anglofilo (per quanto molti dei miei riferimenti letterari abbiano radici tra USA e GB), ma avevo bisogno di una metropoli cosmopolita e sufficientemente “neutra” da non dover essere caratterizzata troppo in lunghe e accurate descrizioni (non è un caso che abbia evitato di ambientare scene presso i luoghi di maggior attrazione turistica). In un certo senso, Londra è rappresentata da così tanti fattori culturali e architettonici da averli ormai sublimati quasi tutti: credo di poter affermare che sia assurta, almeno per noi europei, ad archetipo metropolitano. Sotto questo punto di vista, Londra, Parigi o Berlino hanno uno skyline molto più definito e inequivocabile. Per quanto riguarda gli attentati terroristici, la mia idea era che sarebbero serviti a denotare un quadro generale di incertezza entro cui mi sarebbe stato facile, per analogia, tratteggiare il disagio esistenziale del mio antieroe – oltre a essere diventati, e lo dico con evidente amarezza, un’eventualità da prendere in considerazione per gli abitanti di qualunque capitale occidentale: uno dei pochi afflati di realismo del mio romanzo.

In certe scene più scollacciate di Benevolenza cosmica la scrittura mi ha ricordato il suo vicino di catalogo Alan Bennett, per il corto circuito tra compostezza della prosa e evidenza erotica delle scene. Qual è la genealogia del suo umorismo? 

Ho già avuto l’onore di essere accostato a Bennett, ma confesso – con l’irresponsabile candore  dell’esordiente – di non averne mai letto una riga. Per quanto sia debitore di così tanti umoristi cinematografici e letterari da non tentare nemmeno di elencarli, mi preme citarne uno che ha lasciato il segno in entrambe le arti: Groucho Marx. Fui prima folgorato da una giovanile visione notturna di A night at the opera (in versione originale su Fuori Orario: avrò avuto quindici anni), dopodiché mi imbattei nel suo abbagliante epistolario con alcune delle personalità artistiche e politiche del suo tempo (raccolto sotto il titolo di Lettere di Groucho Marx, e pubblicato in Italia proprio da Adelphi): posso affermare che molte tra loro sono alcune delle pagine più spassose e geniali che abbia mai letto. Ad un livello letterario – formalmente – più elevato, non posso non citare Martin Amis, Don DeLillo o David Foster Wallace, a cui qualche incauto recensore mi ha addirittura accostato.

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