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Se potessi, vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e alla fine del mio cunto passare tra il pubblico con la coppola in mano.

Avrebbe compiuto 94 anni il 6 settembre di quest’anno, Andrea Camilleri. Era nato nel 1925 a Porto Empedocle; nel dopoguerra si era iscritto al Partito comunista; a Roma aveva studiato all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico e aveva curato numerose regie teatrali. Entrato in RAI, vi aveva lavorato a lungo come sceneggiatore; al successo letterario era arrivato già molto avanti negli anni, sul finire degli anni Novanta; nel 2003 era stato nominato Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

Non si era risparmiato di alzare la voce, la sua voce arrochita e profonda, inconfondibile, nel dibattito pubblico, firmando appelli e manifesti di protesta politica. Con gli anni, il “maestro Camilleri”, così sempre lo chiamava Fazio e non lui soltanto, era diventato quasi un “nonno”, prodigo di racconti e ricordi ma facile ai rimbrotti e alle tirate: e uno dei suoi ultimi spettacoli, messo in scena al teatro greco di Siracusa e poi registrato e riprodotto prima al cinema e poi in televisione, Conversazione su Tiresia, era stato proprio un tentativo didascalico di connettere mito e attualità in una lettera indirizzata alla nipote.

Non era stato soltanto l’autore dei romanzi di Montalbano. Libri come Il birraio di Preston (1995) e La concessione del telefono (1998) mostravano già all’opera la più grande invenzione letteraria di Camilleri, che era quella di una lingua ibrida di siciliano e italiano, sporca nella sintassi e nel lessico eppure efficace e chiara. Ma non era solo questo, ovviamente. In quei libri, come in seguito nei gialli della serie più famosa, Camilleri aveva scelto di inquadrare certe ingenuità e certi arcaismi siciliani con una ironia velenosa, sforzandosi di cercare un equilibrio tra le macchiette del teatro e dell’immaginario popolare, un umorismo amaro e fatalista di ascendenza pirandelliana (a Pirandello Camilleri aveva dedicato, tra l’altro, una succosa e immaginifica Biografia del figlio cambiato, 2000) e, appunto, la resa con un linguaggio che fosse insieme dentro e fuori la materia trattata, che ne sottolineasse contemporaneamente l’icasticità e la futilità, senza scadere nel neorealismo (o nel verismo) né in un compiaciuto provincialismo. La portata di questa invenzione linguistica è sotto gli occhi di tutti: qualsiasi scrittore siciliano che oggi voglia imbastardire con il dialetto la propria lingua, deve e dovrà scavalcare Camilleri, i suoi abusati taliàre, nirbuso e simili, deve e dovrà superare l’impressione di deja-vu che ormai certi stilemi si portano dietro per risignificarli.

Vale ancora la pena citare almeno Privo di titolo (2005), in cui nobile oggetto della messa in scena è nientemeno che la protervia e l’ipocrisia dei violenti picchiatori fascisti siciliani, un episodio di storia locale rinarrato con sapienza per mostrarne la maschera e metterla in ridicolo.

Tanti lo piangeranno come autore della saga del commissario Montalbano: il suo stampo era buono, certamente, e la serialità gli ha giovato nella misura in cui al pubblico piaceva riconoscere modi e tempi della narrativa di Camilleri. Il successo delle fiction RAI (che hanno consacrato Luca Zingaretti e che continuano a fare record di ascolti persino nelle repliche), con i tempi, gli attorucoli e le attricette, certe inquadrature e persino certe luci “smarmellate” tipiche delle fiction RAI, hanno forse contribuito a rendere famoso un Camilleri adattato per riduzione, in cui certe ruvidità erano ammorbidite, le battute pungenti diventavano garbate, il sentimentalismo era sottolineato e, insomma, Catarella diventava personaggio di primo piano con le sue battute da slapstick.

In ogni caso, Vigata terrà a lungo un lutto stretto. Ma sarà bene ricordare che i maestri vanno riconosciuti e vanno venerati, prima, poi vanno assimilati e superati. Montalbano è morto, evviva Montalbano.

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↔ In alto: illustrazione © Florinda Giannino. 

 

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