La comprensione dell’umano è possibile solo dalla giusta distanza, senza interferenze, senza compromessi fisici. Michele Maestri, in «Vani d’ombra», romanzo di Simone Innocenti uscito per la casa editrice Voland, è protagonista che compone e scompone i suoi tormenti: lo fa con gli occhi, alla cruda vista affida la realtà indicibile, disintegrata e ricostituita dall’autore in scrittura febbrile.
Il vedere rigorosamente da lontano, binocolo alla mano, manifesta l’unica possibilità per Michele di capire, addentrarsi nel vero, di ammirare Milena, drappo rosso e autentica bellezza, di giorno domestica e timorata, di notte amante a diversi, diversissimi uomini. Da lei Michele viene iniziato al Trauma, è la sessualità aggressiva del femminile a tirarlo fuori dall’armadio in cui era riparato, spezzarlo in due voci, prima e terza, voci torrentizie, evocative e chirurgiche, sempre in bilico tra istinto e moralità.
Nell’armadio, torretta di difesa prima, castello assediato dal Trauma poi, Michele affronta per la prima volta il bianco, lenzuola e asciugamani puliti, candore mutante in terrore; terrore di essere scoperto, paura insaziabile, perché è da lì che Michele solleverà il bianco a cifra del dolore e delle nevrosi, non pacifico colore ma inferno paranoide, forza che inghiotte e disorienta, simbolo di confusione e sconnessione, centrifuga: «Un bianco che mi perseguita, un bianco di candore perduto, un bianco che mi circonda, un bianco che mi acceca. Come adesso».
Ed è invece nel bianco del sole estivo che Michele si scopre ragazzino studioso e «sui nervi», come dicono i genitori, che vedono nel mare una degna valvola di sfogo per il figlio. Michele avvista nuovamente il corpo femminile, questa volta in spiaggia, ne scorge libertà e tensione, assapora il bianco mimetico su pelle quando il bikini è troppo stretto, e sembra che domini il colore, che lo esorcizzi e lo glorifichi, in una visione messianica del Michele padrone del bianco, che si tuffa in mare, gode del suo farsi acqua e cielo, e che quando ne riesce annuncia: «Sono Dio. Ascendo dall’acqua con le nuvole nelle tasche, i rotori della brezza nelle orecchie, un sudario di onde e tutto il mondo nei miei occhi».
Ma il bianco celebrato da Innocenti non redime, illude semmai. Illusorio è infatti il patto che Michele stringe con la realtà ordinaria, con le regole quotidiane a cui obbedire. Il bianco possibile inferno è sempre lì; è lì, sottoforma di pezzola in tasca quando il Michele ventinovenne lavora dietro le quinte per una compagnia teatrale – «I teatri sono mostri che dormono, gli attori li svegliano, i macchinisti sono guide da safari, allestiscono il piancito, danno un senso alla sospensione del tempo, fanno una vita diversa dal resto della compagnia, stanno in disparte, ai bordi del campo» – , ed è lì quando Michele si sveglia in ospedale, dopo aver ceduto morale e logica alla prima sconfitta amorosa. Il bianco è infine memoria e eredità, perché dal bianco, dalla sua sostanza, Michele irrompe nei ricordi, ed è lì che rimarrà, «al centro dell’iride, bianco su bianco».
Se la convinzione primaria, dicevamo, è che solo la vista ordinata e pura sveli la verità, che solamente la distanza schiuda l’essenza, compito successivo sarà, per Michele, imparare a sostenerne il peso, la gravità dell’oggetto guardato; resistenza al Trauma. Dissezionare, procedere passo dopo passo, «districarmi nella palude delle mie visioni», metodo per farsi prossimo alla realtà fisica delle cose, ogni viso una specifica geografia, ogni sguardo una mappa diversa, così Michele sarà «ottico avanguardista», artigiano della visione personale di élite annoiate e indolenti, per «investigare nelle diottrie altrui il mistero di vedere davvero».
Ogni studio dello sguardo cronometra il rapporto tra luce e occhio; l’occhio di Michele intercetta la luce destinale di Arianna, nuda, persa nel mondo, rivolta al mondo, pronta a essere dipinta, ricreata; Arianna si esplicita allo sguardo quando e come vuole, la luce detta i tempi del suo disvelamento. Michele segue, l’occhio ora è nel buio ora vede chiaro, la relazione si inerpica, esplode, rifluisce e deflagra ancora, è visione conflittuale, visione che trascina Michele di nuovo al sesso, al corpo, al femmineo.
E Michele si lascia andare, si abbandona alla visione totale, al ciclo della perversione, all’incapacità di resistenza. La visione perde la sua giusta distanza, Michele torna al Trauma, quel Trauma che lo aveva gettato nella realtà angusta e schiacciante, pervasiva e miserabile. Nell’epilogo perdifiato di «Vani d’ombra» l’unica tossina a essere rilasciata è quella maschile, quella di Michele, svanito nel reale incatalogabile, così come svanisce il bianco in se stesso, così come svanisce ogni possibilità di saper vedere.
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