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In aereo non c’è nulla della vita normale, il volo è innaturale, le sole regole che valgono sono le regole dell’aria, regole operative. Si possono commettere errori, ma sono errori di ordine tecnico, difficilmente di ordine morale. Perché l’animo umano possa svelare la propria tenebra, per l’abiezione e le bassezze, ci vuole spazio, ci vuole tempo, e nell’aereo ce n’è troppo poco, sia dell’uno che dell’altro. Insomma, nel volo si è temporaneamente privati del proprio Male, che tace allibito dalla convenzionalità (e proceduralità) del tutto. Nel volo, anche se uno si sforza di tirar fuori il peggio di sé, è implacabilmente condannato a una certa nobiltà di spirito.
“In questa luce” – Daniele Del Giudice

Per chi non lo conoscesse, David Szalay (si pronuncia SOL-loy) è stato un’autentica sorpresa nel panorama letterario internazionale, soprattutto dopo l’uscita del suo libro Tutto quello che è un uomo (Adelphi,2017). Un libro che fin da subito ha trovato l’ammirazione di molti suoi colleghi.

“Il miglior romanzo che leggo da molto tempo. Bello, semplice, avvincente”. Così si era espresso qualche tempo fa Bret Easton Ellis sul suo profilo Instagram . E a ragione: Szalay nel suo quarto romanzo (il primo qui in Italia) aveva suscitato notevole interesse, tanto da contendersi il Man Booker Prize fino all’ultimo con Paul Beatty nel 2016. 

Con il suo stile immediato e anticonformista, simile per certi tratti proprio a Ellis se vogliamo, raccontava le vite di nove uomini (e di uno solo metaforicamente), passando dall’adolescenza alla senilità. Uscito due mesi prima della Brexit e in pieno scandalo #MeToo, Szalay nel suo libro soffermava il suo sguardo sulle aspirazioni e i fallimenti del maschio alfa europeo, in crisi nelle sue relazioni, schiacciato dalla routine del lavoro e diviso tra fragilità e desideri non appagabili. Nove racconti che formavano un romanzo atipico, e di cui molti critici hanno discusso in merito alla struttura, divisi nel considerare il libro come una raccolta di storie o un romanzo (soprattutto riguardo la candidatura al Man Booker Prize, che contempla solo romanzi).

La sua prosa brillante era caratterizzata per essere scorrevole e “al passo con i tempi”, se si può usare questo eufemismo. Questa sua scelta di non ricorrere a trame complesse, utilizzare scene minimaliste, associando ampi dialoghi e anche qualche cliché per così dire “pop”(come citazioni di brand), da un lato lo hanno reso estremamente “reale”, dall’altro però ha fatto storcere il naso ad alcuni critici, primo fra tutti James Wood sul New Yorker, che lo definiva ironicamente “lo scrittore più convenzionale tra i romanzieri tradizionali” in quei momenti di “stenografia convenzionale” o “scrittura automatica”. Con le dovute proporzioni, è chiaro che Szalay non è sceso mai realmente nella letteratura commerciale. La sua bravura stava proprio nella vivace gestione dei personaggi, ovvero questa sua capacità di far entrare il lettore nella sua comfort zone e poi accelerare improvvisamente per dare un senso di drammaticità e urgenza subito dopo. Il tema centrale di questa raccolta era dare significato alla marginalità di queste vite maschili, uomini così svuotati dalle loro crisi ma al tempo stesso ricchi di emozioni contrastanti, alla ricerca di un riscatto, una seconda chance. Uomini senza radici tra l’altro, poiché vagavano tutti in un paese straniero, diverso da quello d’origine.

Perché tutto questo preambolo? Perché Turbolenza, in uscita in questi giorni, in un certo senso è la versione aggiornata di Tutto quello che è un uomo ma in scala ridotta. E di scali aerei soprattutto: questa nuova raccolta di storie è strutturata in modo analogo, ma questa volta Szalay amplia il suo raggio d’azione dall’Europa al mondo intero. Ogni storia prende il nome dal volo intrapreso da ciascun personaggio e ha come titolo la coppia di codici aeroportuali di tre lettere. Le storie inoltre si svolgono come una staffetta: ogni storia è esplicitamente collegata all’altra, ad esempio nella storia di apertura, troviamo una donna che vola da Londra a Madrid (LGW-MAD) e incontra un uomo che, nella storia seguente, “MAD-DSS”, vola da Madrid a Dakar, in Senegal. Se Tutto quello che è un uomo era un libro pieno di dettagli, con Turbolenza si sale di quota e l’aria diventa più rarefatta per così dire: queste 12 storie infatti sono state inizialmente commissionate dalla BBC Radio come pezzi radiofonici. Passare dalla forma orale a quella scritta non è mai facile: Szalay ha spinto ancora di più sul minimalismo nella forma, e questo ha comportato una leggera ma naturale perdita di “propulsione” narrativa. Ciascun racconto ha una lunghezza media di 6-8 pagine, e questo sembrerebbe influenzare la complessità della trama. Ma Turbolenza è un libro piacevole ed elegante, non ascrivibile certo ad un “airport novel”(ovvero i libri commerciali che si trovano generalmente negli scaffali delle librerie in aeroporto).

La qualità di questa raccolta è senza dubbio la semplicità, che non significa per questo giudicare questo libro banale. L’abilità di Szalay è riuscire a condensare queste storie in un modo incredibile, creare spaccati di vite umane in spazi ristrettissimi, come minuscole vignette. Prendiamo ad esempio il racconto che vede un giardiniere indiano che lavora in condizioni di semi-schiavitù in Qatar:

Lavorava dalle sei del mattino alle sei di sera, dall’alba al tramonto, con due ore libere nel momento più caldo della giornata da aprile a settembre. Anche la domenica mattina aveva due ore libere, per andare alla St. Thomas Syro-Malabar Church, e ad anni alterni aveva un mese di licenza per tornare a trovare la famiglia in India.

La signora Ursula era la sua «sponsor», come dicevano lì, il che praticamente significava la sua padrona. Gli teneva lei il passaporto e il permesso di lavoro, e senza il suo espresso consenso non poteva fare niente né andare da nessuna parte. Era la figura dominante della sua vita e Shamgar si rendeva conto di essere stato fortunato. Lo pagava più di quanto di norma guadagnassero gli altri per quel genere di lavoro, circa cento dollari al mese, e lo trattava bene, con gentilezza, addirittura. Quando le aveva detto che la sua casa a Kochi era andata distrutta in un incendio, era stata lei a incoraggiarlo a partire immediatamente, lei a prestargli i soldi per il biglietto aereo. Gli aveva detto che avrebbe potuto restituirglieli in tre anni, dieci dollari al mese. «Grazie, signora Ursula » aveva accettato lui.

Qui Szalay mostra tutte le sue doti di narratore navigato, creando un romanzo realistico nel giro di poche righe, come se conoscesse nel profondo come vive un lavoratore sfruttato all’estero, passando per lo sguardo disincantato del diretto interessato. 

Riprendendo la citazione in apertura di Del Giudice, il volo aereo riduce sì il tempo e le distanze fisiche tra le persone, ma non appena si scende a terra ci si rende conto che le problematiche emotive rimangono le stesse di quando si è partiti. Lo spostamento aereo, in questo senso, gioca un fattore fondamentale: è una sorta di perfetto dolly cinematografico che aiuta l’autore a creare fluidità nelle storie dei personaggi e permette di creare un’opera indivisibile e unificata.

A questo aggiunge un ulteriore elemento: lo spaesamento generale dei protagonisti. Proprio come da titolo, i personaggi subiscono forti fluttuazioni di stati d’animo e umori, e Szalay è abile nel rivelarle in poche righe. Lo stesso lavoratore migrante citato poc’anzi ha una doppia vita. Nella storia precedente si dimostra essere misogino e violento nei confronti della moglie in India. Nella parte in questione invece, manifesta il suo lato umano, ossia quello di un povero giardiniere sfruttato all’estero, che ha come epilogo per il lettore la scoperta di una relazione omosessuale con un suo collega.

Queste crisi possono essere di varia natura, personali (come nel primo racconto, con una donna preoccupata per suo figlio malato di cancro), culturali (il matrimonio tra una ragazza inglese e un rifugiato siriano), economiche (sopratutto nella seconda parte del libro). Questo impulso di viaggiare, questa mancanza di certezze e questa malinconia di fondo fanno sembrare i protagonisti di Szalay come persone perse, insicure, fragili. In questo senso l’accezione di Turbolenza trova il suo senso profondo nella tendenza da parte dello scrittore a suscitare disordini nelle relazioni dei personaggi e nella mancanza di regolarità nella traiettoria emotiva di questi ultimi. Fin dalle prime pagine, quando la protagonista affronta il primo volo del libro:

Ciò che odiava anche della turbolenza più lieve era il modo in cui poneva fine all’illusione di sicurezza, il modo in cui rendeva impossibile fingere di trovarsi in un luogo protetto.

Queste vite disordinate descrivono al meglio la globalizzazione nel ventunesimo secolo e il cosmopolitismo di fondo. La biografia dell’autore è indicativa in tal senso. Szalay è nato in Quebec nel 1974, da madre canadese e padre ungherese. I suoi genitori si erano conosciuti lì, in Canada, ma presto si trasferirono prima a Beirut e poi, dopo meno di un anno, a Londra, a causa della guerra civile libanese. Dopo essersi laureato a Oxford, David ha vissuto a Bruxelles prima di stabilirsi a Budapest, in Ungheria, dove vive tuttora. Nella sua intervista al Guardian, però, rivela di non sentirsi canadese, e nemmeno ungherese, poiché non parla ancora fluentemente la lingua magiara. E’ dunque un cittadino del mondo, che non ama chiudersi in schemi fissi e rigidi, dimostrandolo sia nelle sue opere, sia nella vita, come quando, prima di diventare scrittore, Szalay ha lavorato in diverse aziende di marketing e pubblicità nella City. 

Anche i suoi lavori antecedenti,infatti, ancora inediti in Italia, sono molto eterogenei tra loro.

Il suo romanzo d’esordio, London and the South-East, descrive il mondo insicuro e materialista di un venditore di telefoni (ispirato ad un ex collega di Szalay); The Innocent, ambientato nella guerra fredda con un salto temporale dal 1948 alle Olimpiadi di Monaco del 1972; e Spring, incentrato su una storia d’amore turbolenta tra un imprenditore che conduce strani traffici, e una direttrice d’albergo divorziata.

Nella stessa intervista al Guardian Szalay afferma di trovare divertenti “alcuni aspetti delle debolezze umane”. E aggiunge: “Vanità. Orgoglio. […] In un certo senso mi sembra di prendere in giro me stesso quando scrivo della vanità dei miei personaggi e del loro egocentrismo. […] Ma non ho assolutamente la sensazione di essere migliore di loro. Non è nemmeno satira perché la satira richiede sempre di avere una sorta di alta morale”. In questo Szalay è sempre criptico. Non si capisce mai fino in fondo se stia ironizzando attraverso l’esperienza diretta dei suoi personaggi su questo mondo piccolo, fragile e globalizzato, o se provi empatia. Rimane sospesa nell’aria la domanda se il suo fine ultimo sia comico o tragico. La citazione del discorso della Pace di Kennedy nell’ultimo racconto non fa che aumentare i dubbi in proposito:

C’era la finestrella di vetro smerigliato che diffondeva il verde del giardino, a cui l’appartamento non aveva altro accesso, e la citazione di Kennedy incorniciata sul muro di fianco all’interruttore della luce:«Perchè, in ultima analisi, ciò che ci unisce è che abitiamo tutti questo piccolo pianeta, respiriamo tutti la stessa aria, abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti mortali».

Ed è così che si arriva fino all’ultima pagina, come in un volo aereo, ammirando dal finestrino il vuoto tutt’intorno. Gran parte del fascino per il lettore deriva proprio da questo, ma si ha la sensazione che il volo in compagnia dei vari personaggi sia durato troppo poco. Turbolenza è un’opera ben riuscita, che può fare da apripista per i neofiti dello scrittore canadese o, per chi lo conosce già, un tassello complementare nella sua bibliografia, che ha in Tutto quello che è un uomo il suo zenit. 

 

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