Indugiare: ogni scrittura è una traduzione
Pubblicato lo scorso 24 ottobre per la casa editrice Adelphi, Il ciarlatano di Isaac Bashevis Singer è uno di quei libri che si sfogliano come si scarta un regalo. In primo luogo, perché il volume, a cura di Elisabetta Zevi e tradotto da Elena Loewenthal, raccoglie le puntate del romanzo apparse sul quotidiano “Forverts” tra il dicembre 1967 e il maggio 1968 e appare in Italia in anteprima mondiale; in secondo, sorpresa da archeologi della pagina scritta e amanti dell’indugio, perché in apertura al testo si trova la riproduzione della prima pagina del manoscritto originale, in lingua yiddish.
Il fatto, che di per sé potrebbe sembrare tutt’altro che eccezionale, merita invece un minuto d’attenzione. Singer vive in America e parla perfettamente inglese, eppure continua a far tradurre i suoi libri – rinunciando a parte dei propri diritti a favore dei compensi dei traduttori e complicando notevolmente la vita ai suoi critici: a quale letteratura appartiene il premio Nobel 1978? In che lingua andrebbe letto? Si chiama Isaac Bashevis Singer o Yitskhok Bashevis Zinger?
Se dovessi scrivere in inglese non sarei uno scrittore ma un traduttore e inoltre un cattivo traduttore. Se è male essere uno scrittore yiddish è molto peggio essere un traduttore dallo yiddish.
La paradossale simultaneità fra scrittura e traduzione nell’opera di Singer trova un suo corrispettivo a livello contenutistico. Ogni testo è un tentativo di tradursi, di trasportare sulla pagina scritta una quotidianità caotica e acciaccata, filosofica intellettuale religiosa: i numerosissimi racconti, i diciotto romanzi, i quattordici libri per bambini, nonché gli svariati saggi e articoli spesso apparsi sotto pseudonimi non sono per Singer altro che sparsi «contributi a un’autobiografia che non ho mai inteso scrivere» – come spiegherà nell’introduzione a Lost in America, terzo e ultimo volume di una serie esplicitamente autobiografica, anch’essa apparsa su “Forverts” e anch’essa inedita in Italia.
Anche Il ciarlatano occupa il suo posto in questo puzzle senza segni di taglio. Ad ogni svolta della narrazione (a ogni pagina voltata) c’è autobiografia: dal contesto generale – la comunità ebraica newyorkese, sfuggita alla guerra, già americanizzata ma costantemente protesa oltreoceano, verso l’incubo delle stelle gialle fagocitate dai ghetti e scomparse nei campi; fino ad arrivare ai dettagli più minuti e alle riflessioni del suo ciarlatano protagonista, Hertz Minsker.
«Se la verità e la menzogna non valgono niente, cosa resta?»
Malgrado tutte le complicazioni, la sua vita a New York lo annoiava terribilmente. […] Anche le strade di New York sembravano più monotone di quelle di altre città. Gli edifici, le persone, il modo in cui si vestivano erano privi di carattere. Anche gli alberi erano privi di personalità, e pure il clima. […] Per qualche ragione metafisica, questo paese mancava del minimo charme che rende la vita sopportabile. (pp. 84-85)
L’America è per Hertz Minsker una terra dal piattume cronico, le uniche fibrillazioni che si registrano sono dovute ai tentativi di appagare l’irrefrenabile «bisogno di donne» che anima il protagonista. Questa necessità primaria, lungi dall’essere anestetizzata dalla noia statunitense, ne costituisce piuttosto la sola via di scampo. Bronia, Minna e Miriam sono le caselle in cui sembra spingerlo uno sconclusionato tiro di dadi; averle è premio e punizione allo stesso tempo. E così è necessario che sia: tutto è meditazione assurda e sconclusionata, manca la giusta dedizione per amare una donna senza desiderarne la successiva e la precedente e poi di nuovo la scartata, in un vortice di inaffidabilità e menzogna.
Pare evidente fin da subito, però, che Hertz non è (o non è solo) un traditore seriale, coi suoi sotterfugi e i suoi squallori banali. È qualcosa di più: è, per l’appunto, un ciarlatano, un uomo che ha elevato la bugia ad antecedente e filosofia di vita. «Dato che sono un bugiardo, che male può fare una bugia in più?» (p. 229).
D’altronde, la figura del bugiardo innamorato è figura carissima a Singer, che in buona parte della sua produzione, e dunque in un contesto per statuto fittizio e finzionale, ne fa strumento privilegiato per indagare impostura e falsità. Minsker è un intellettuale, uno scrittore in crisi, stagnante dal punto di vista produttivo, inabissato sul piano economico. Dipende interamente dal denaro delle compagne e, soprattutto, da quello dei suoi benefattori: al primo, il caro amico Morris, seduce la moglie; al secondo, Bernard Weiskatz, organizza sedute spiritiche fraudolente.
E anche qui Hertz Minsker potrebbe sembrare il parassita tentacolare che in fondo non è: resta in ogni sua azione qualcosa di impacciato e solenne, stupiscono l’ingenuità sommersa e la buona fede con cui sistematicamente compie il male. Il ciarlatano è, insomma, un personaggio. È sia il personaggio protagonista dell’omonimo romanzo, sia personaggio al quadrato, vittima del suo stesso considerarsi personaggio: l’esito tragicomico delle sue azioni dipende dall’involontarietà con cui si trova costretto a portarle a termine, obbligato a vivere nella finzione che si è creato.
Una persona veramente colpevole potrebbe recitare una commedia simile? si domandò. In quel caso, la menzogna era mille volte più potente della verità. (p. 141)
I Dieci comandamenti in cambio di uno scarafaggio
In buona o in cattiva fede che sia, tutto ci si aspetterebbe da un siffatto individuo fuorché la scelta esplicita di far proprio il motto isaitico «impara a fare il bene» (p. 38). A maggior ragione se, in oltre duecentosessanta pagine di narrazione, l’unica buona azione compiuta dal protagonista non è solamente inutile, ma è anche totalmente priva di gratuità: salva uno scarafaggio, sperando che un giorno l’atto di carità possa giocare a suo favore.
La citazione da Isaia è solo uno dei numerosi richiami all’Antico Testamento presenti nel testo. Con Il ciarlatano, infatti, ci troviamo costantemente seduti a tavola con una comunità che fa del discorso su Dio il perno del proprio vivere e delle proprie conversazioni – e lo fa fino a morirne: Morris, il già citato migliore amico del protagonista, avrà un infarto alla notizia che il figlio ha preso in moglie una tedesca, per di più imparentata con dei nazisti. Il Dio in questione è un Dio violento, il Dio della Torah e dei Dieci comandamenti, che concede miracoli immeritati e non si cura in alcun modo dei dolori delle sue creature. È il Dio ebraico, ma non è il Dio di Hertz Minsker (né quello di Isaac Bashevis Singer), la cui filosofia edonistico-cabalistica ruota attorno a un unico principio chiave: l’unico vero credo è il piacere e Dio è sì creatore, ma è creatore in quanto creativo – «ha creato il mondo per rispondere ai Suoi bisogni artistici» (p. 206).
Ecco allora che la normatività dei Dieci comandamenti sfuma e lascia spazio alla trasgressione, da Hertz sempre portata a termine con una particolare rigorosità. Tutto il romanzo ruota intorno all’adulterio e alla menzogna, padri e madri son ben poco onorati, i riti e le norme alimentari totalmente ignorati, il divieto di rubare viene infranto quando, per la fame, Minsker si trova costretto a rubare un biscotto abbandonato su un vassoio in una tavola calda, e persino il sesto comandamento, non uccidere, sarà accidentalmente calpestato dal protagonista. Che il giudizio finale spetti a Dio o al lettore, i due piatti della bilancia hanno un peso indicibile: da un lato uno scarafaggio volontariamente salvato, dall’altro una donna involontariamente uccisa – dunque cosa vale di più? Cosa definisce la salvezza, quanto condanna?
Nonostante tutti gli scossoni, le riflessioni e i ripensamenti che popolano le ultime pagine del romanzo, non c’è Geenna, né tantomeno redenzione – sempre che serva. Resta una cabina telefonica, l’eterno ritorno all’amante (il ciarlatano dovrà «pur dormire da qualche parte», p. 262), il sorriso beffardo di chi sa come andrà a finire una storia che di fatto non finirà.
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