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«Voglio che la terra smetta di girare in tondo come un folle e che ascolti ciò che ho da dire. Voglio che la terra si fermi e voglio che mi veda morire».
Emanuel Carnevali, Racconti di un uomo che ha fretta

È inutile tentare di rendere giustizia a Emanuel Carnevali. La sua parabola di immigrato e poeta miserabile è irredimibile: orfano, povero e cagionevole, poi emigrato, squattrinato e indigente, scrittore fallito, malato, dimenticato. Eppure questo italiano del tutto sconosciuto in patria, in vita e a lungo anche dopo la morte – il primo libro con una raccolta dei suoi scritti, Il primo dio, fu pubblicato in Italia da Adelphi solo nel 1978 –, nel 1919 era considerato “un genio”, anzi “il vero poeta” della sua generazione, dai massimi poeti e scrittori newyorchesi di inizio Novecento, Ezra Pound, William Carlos Williams, Sherwood Anderson, Robert McAlmon.
Fu Carnevali il primo black poet di New York (cfr. William Carlos Williams), il primo vero poeta maledetto d’America: lui che era un mangiaspaghetti, un orfano di madre (e con un padre violento e assente) emigrato in totale miseria da Firenze agli Stati Uniti nel 1914, a soli sedici anni, un italiano che aveva imparato l’inglese leggendo le insegne commerciali dei negozi e la sfangava lavando i piatti in un lurido ristorante di Manhattan.

«Dalle finestre pendono, come bandiere di povertà, capi di biancheria; vetri grigi sui quali la miseria scrive con la polvere e la pioggia cose che gli inquilini sono troppo afflitti per cancellare».

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La prima edizione di A Hurried Man

 

Sarà proprio Robert McAlmon nel 1925 a spendersi per la pubblicazione dell’unico libro di Carnevali mai stampato in vita, A hurried man, «uno dei migliori esempi di libro, un libro che è tutto di un uomo, un uomo giovane, superbamente vivo» scrisse sempre William Carlos Williams. In Italia lo vedremo tradotto solo ottanta anni dopo, nel 2005, con il titolo Racconti di un uomo che ha fretta, pubblicato per Le porte di Fazi. Ora questo trittico di stralci autobiografici finisce nella raccolta Racconti ritrovati, in una una nuova traduzione a cura di Emmanuele J. Pilia, appena pubblicata da D Editore, un piccolo editore indipendente che ha il merito di aver riportato in libreria recentemente anche Il primo dio. Si tratta della primissima volta, cento anni dopo la loro prima stesura, che le due maggiori opere di Carnevali si ritrovano nello stesso catalogo di un editore italiano.

In questo modo, con un oblio di quasi un secolo, noi italiani abbiamo trattato un poeta affamato di vita, di talento raro e una purezza insostenibile, la cui opera e la cui vita si sovrappongono inevitabilmente, drammaticamente.

I tre lunghi racconti di A hurried man, che sono il cuore anche di questa edizione, parlano di storie banalissime: la vita di sua zia, Melania Piano, una donna insicura e semplice che lo ha cresciuto dopo la scomparsa della madre, «interamente divorata da quel tarlo sempre affamato che è la versione romantica dell’amore»; la vicenda di una colomba ferita e portata in una casa disperata, la sua, «la colomba non ci conosceva. Eravamo due persone tristi, che rimpiangevano una dolcezza volata per sempre via dalla portata delle nostre pesanti dita»; e nel terzo c’è quasi solo la casa, dove «vengono a trovarmi i ricordi, solo i ricordi, non gli amici». Sono pagine scritte con un linguaggio orlato di pianto, puro e ingenuo, maligno e spesso infantile, che obbliga alla commozione. Qui ci sono la miseria e la paura, il lavoro come ossessione e come assurda alienazione, l’amore come rifugio e condanna, il candore assoluto nella pretesa di attenzione da parte del mondo, degli altri e la sempre vana ricerca della felicità, ma anche la condizione di ultimo, di emarginato, nel cuore della prima città del mondo, la più ricca, la più povera.

«Mia moglie mi gira intorno mentre lavora e dalle sue mani di bambina fioriscono ordine, pulizia, profumo per la casa – e una carezza per me. Se ho fatto bene il mio lavoro, ho tenuto lontano la tristezza. La disperazione viene sempre da fuori. Il guaio è che non possiamo mai chiudere sufficientemente bene porte e finestre».

Carnevali impara l’inglese, rivendica a se stesso il ruolo di scrittore, e inizia a frequentare il giro degli intellettuali newyorchesi della lost generation. L’ispirazione lo tormenta ma non ha tempo di scrivere, perché deve lavorare, deve lavare i piatti di carne che non potrà mai mangiare, deve occuparsi della casa, delle cimici, «l’Italia è sporca, molto sporca, ma qui ho scoperto le cimici» . Scrive allora dove gli capita e legge ad alta voce le sue poesie, i suoi racconti, i suoi stralci di vita vera. Lo fa nei locali pubblici, nei salotti degli scrittori affermati.
Qui urla il legame che c’è, no, che dovrebbe esserci tra tutti gli uomini. Reclama un’umanità perduta, che si commuove, che intuisce tutto il peso del dolore degli altri. È il lascito dell’Italia nel suo DNA: la solidarietà tra simili, tra vicini, il senso di comunità. Ma Carnevali lo urla in città – New York e poi Chicago – che questo legame hanno prima svilito poi dimenticato.
Non contano gli uomini qui, conta il loro stipendio, non conta la vita, conta il lavoro, fonte di ogni gioia e di ogni dolore. Sono città infinite queste, in cui troneggiano gli insignificanti grattacieli, le orribili scale di servizio, i grigi quartieri dormitorio, le miserevoli camere ammobiliate, le camere americane appunto, dove tutti gli ultimi sono inutili, inesistenti, molesti, meno che uomini.

«Tu dici, la casa è il dio che ci siede accanto e ci guarda vivere. All’inferno, certe notti questo dio ulula come una iena, quando la finestra trangugia l’aria dal corpo gonfio di un mondo che non può dormire. Le case si riuniscono insieme nella notte e il loro orribile Congresso si chiama città»

Non solo il più dotato tra i poeti newyorchesi, non solo un maudit perduto nei bassifondi metropolitani a cantare la propria miseria. In quel brevissimo, ed effimero, apice della sua vita letteraria, intorno al 1920, Carnevali fu l’intellettuale di riferimento di quella generazione che si aggregò intorno alle riviste Poetry, Others, The Little Review.
Fu proprio per le sue argomentazioni feroci contro il distacco tra popolo e intellettuali, il loro polemico considerare  l’arte come forma a sé e per un pubblico ristretto e privilegiato, che William Carlos Williams decise di chiudere la rivista Others. Non poteva essere altrimenti, perché Carnevali ne aveva minato irrimediabilmente i presupposti intellettuali: con un’onestà disarmante declamata senza riserve, con una poetica lucida e atroce, con il suo darsi anima e corpo, arte e corpo, al pubblico, al popolo, perché «l’unica attività umana di una qualche utilità è l’arte, solo l’arte».

Ma l’arte, la poesia, non risolveranno mai il suo problema tirannico: la miseria. A hurried man resterà poco più di un feticcio per gli intellettuali di Manhattan, per il resto pubblicherà solo alcune poesie e alcuni racconti su Poetry e The Little Review.

«In Italia vedevo nascere le case bianche e belle e quando diventavano vecchie e misere portavano la loro miseria come un soldato la sua uniforme lacerata dalle pallottole. Aggiungete grigio a grigio, marrone a marrone, costruttori del Nuovo Mondo, creatori del Nuovo Mondo – grigio su grigio, marrone su marrone, voi che lavorate per la grande cecità a venire».

“Carnevali è Bukowski che non è riuscito a diventare Bukowski, è Fitzgerald perso in Europa” dice Emidio Clementi nel testo di uno dei pezzi di Notturno americano, il suo bellissimo disco e spettacolo teatrale dedicato a Carnevali, l’unico che gli sia mai stato dedicato in Italia. Clementi, storico leader dei Massimo Volume e scrittore, è anche l’autore della prefazione di Racconti ritrovati e qui espone la flebile speranza che grazie a una specie di passaparola sotterraneo, “discreto ma costante”, il nome di Emanuel Carnevali resti in circolo.

A cento anni esatti dalle prime pubblicazioni, noi italiani possiamo leggere Emanuel Carnevali nella nostra lingua, nella sua. Ma questo è tutto ciò che è cambiato. Per il resto, l’oblio della sua figura permane intatto, anche perché altrimenti toccherebbe ammettere che quel mondo sottomesso al denaro, grigio su grigio, cinico e ceco, che lui tra i primi conobbe e patì, è il nostro mondo.

 

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