Archivio dei bambini perduti della scrittrice messicana Valeria Luiselli – traduzione di Tommaso Pincio, La Nuova Frontiera – è il nostro libro del 2019, proprio nell’anno in cui a fare notizia sono stati i centri di detenzione per bambini voluti dall’amministrazione Trump al confine tra Messico e Stati Uniti, e proprio nell’anno in cui al cuore del dibattito hanno campeggiato le immagini dei migranti affogati per mare o assetati nel deserto.
È un libro politico, perché tratta un argomento spinoso e attuale come la crisi migratoria, personale – l’autrice stessa è stata traduttrice volontaria nei casi di immigrazione per il tribunale di New York, finendo per pubblicare il suo saggio Dimmi come va a finire – e familiare, poiché la storia ruota attorno al viaggio di una famiglia verso il South West degli Stati Uniti. È infine il primo libro «americano» dell’autrice, ovvero il suo primo pubblicato da un editore statunitense in inglese, e da larga parte della critica è considerato un Grande Romanzo Americano di questo tempo.
La storia che devo incidere non è la storia di bambini che arrivano, di quelli che ce l’hanno fatta e possono raccontare la propria storia. La storia che voglio documentare non è quella dei bambini nei tribunali per l’immigrazione, come pensavo prima. Ci pensano già i media a quella, documentando l’emergenza nel migliore dei modi; alcuni giornalisti piegandosi più al sensazionalismo, all’aumento degli indici di ascolto; altri irremovibili nell’orientare l’opinione pubblica, in un modo o nell’altro; e pochi infine impegnati semplicemente a indagare e capire. Non so ancora bene come procederò, ma la storia che voglio raccontare è quella dei bambini che sono scomparsi, le cui voci non possono essere più udite perché sono andate perdute, forse per sempre. Forse, come mio marito, vado anch’io a caccia di echi e fantasmi. Soltanto che i miei non si trovano nei libri di storia e nemmeno nei cimiteri. Dove sono i bambini perduti?
La trama dunque. Al centro del romanzo c’è il viaggio di una famiglia, composta da due archivisti del suono che si sono innamorati mentre mappavano le oltre ottocento lingue udibili a New York, e dai rispettivi figli avuti da precedenti relazioni, un maschio e una femmina. Il libro sarà fin dal principio un road trip su una strada che potrebbe biforcarsi e farli separare per sempre. Lei è interessata ai bambini perduti provenienti dal Messico rinchiusi nei grandi centri texani, lui allo studio solo apparentemente meno engagé dell’ultima apacheria sui monti Chiricahua. A essere messi in discussione non saranno solo i loro legami e il lessico famigliare, il discrimine dove il personale diventa politico e viceversa, ma anche – quando a farsi arte è «la sofferenza altrui» – l’estensione del romanzesco e del realismo autofinzionale.
Luiselli ha il grande merito di narrare in modo encomiabile un tema solitamente poco approfondito nei romanzi, ovvero l’infanzia. I due figli sono fondamentali nell’esplorazione, aggiungono energia al percorso, soprattutto quando vengono messi in relazione con i loro coetanei rifugiati. In questo romanzo spicca la prospettiva delle storie di questi bambini perduti: sono una sorta di fantasmi, delle presenze di cui avvertiamo la consistenza ma non li tocchiamo mai veramente. Non è un approccio diretto, come altri romanzi sociali più convenzionali usciti recentemente – per citarne uno, Mars Room della Kushner –, anche se la Luiselli non rinuncia a una forte impronta etica nel raccontare vicende spesso atroci, brutali.
E anche se il termine “perduto” non è preciso, nel nostro privato lessico famigliare, i rifugiati sono “i bambini perduti.” E in un certo senso, credo, che siano questo, bambini perduti. Sono bambini che hanno perduto il diritto a un’infanzia.
La bellezza del viaggio inoltre respira d’epica: ci sono molti momenti lirici, molte digressioni, come ad esempio quando la narratrice fa l’elenco dei rumori della propria vita, c’è la lettura da parte della protagonista di tantissimi libri dedicati al viaggio e all’infanzia – Elegie per i bambini perduti di Ella Camposanto è stato un libro che ha ispirato l’autrice, come ha rivelato nel suo tour in Italia –, c’è infine l’uso di polaroid e immagini nel testo. Questi ultimi in particolare sono come piccole tracce che «documentano il viaggio», cioè non rendono solo verosimile la fiction in questione, ma ne fanno una sorta di documentario, una testimonianza forte degli eventi reali. Indicativo in questo senso è il bambino che chiede alla madre cosa significhi «documentare».
Forse dovrei rispondere che documentare è quando, foto dopo foto, sommi e sottrai luce e soggetto, soggetto più luce, luce meno soggetto; o quando aggiungi del suono, più silenzio, meno suono, meno silenzio. Ciò che ottieni, alla fine, sono tutti quei momenti che non hanno fatto parte dell’evento effettivo. Una sequenza di interruzioni, buchi, parti mancanti, tagliate, rimaste fuori dal momento in cui l’evento ha avuto luogo. Perché l’evento vissuto sommato al documento dell’evento è uguale a evento meno uno. La cosa strana è: se in futuro, un giorno, dovessi sommare assieme tutti questi documenti, ciò che otterresti, di nuovo, è l’evento. O almeno una versione dell’evento che rimpiazza l’evento vissuto, anche se ciò che in origine hai documentato erano i momenti rimasti fuori.
Ed ecco che si arriva al titolo del libro, l’archivio. Nel caos dei documenti che l’umanità produce l’archivista ha il compito di creare un ordine riconosciuto e riconoscibile: la memoria. Esistono tre gradi di archiviazione: l’archivio corrente, l’archivio di deposito e l’archivio storico. I primi due sono organi temporanei in cui le carte scorrono e servono per lavorare. L’archivio storico invece è il capolinea per i documenti che hanno superato la prova del tempo, tutti gli altri vengono scartati e mandati al macero, eliminati. Questo procedimento avviene tenendo conto del vincolo archivistico, un vincolo di parentela tra le carte che non deve mai essere spezzato. Pena l’interruzione del flusso di memoria e perdita di un frammento di identità. Tutto ciò è irrecuperabile. Se si sostituisce la parola «documenti» con la parola «ricordi» o «informazioni», diventa evidente la vicinanza del concetto di archivio con il cervello umano e la conservazione della memoria. Questo romanzo si svolge sul doppio binario memoria collettiva/memoria personale, e durante il processo di archiviazione la protagonista del romanzo va in due direzioni opposte ma unite dallo stesso spirito di ricerca. Da una parte tenta di raccogliere informazioni mettendo ordine nel flusso migratorio del confine USA-Messico, nello specifico per quanto riguarda i bambini che partono dal Messico per ricongiungersi con la famiglia di origine che ha già oltrepassato il confine. Dall’altra vuole dare dignità e ordine alla sua famiglia, quella composta da lei, madre di una bambina, e lui, il marito, padre di un bambino. Tutti insieme rappresentano una famiglia spezzata a metà, senza un vincolo che li tenga uniti nel presente, ma soprattutto nel passato e quindi di conseguenza nel futuro. La preoccupazione di costruire una cosmogonia della loro famiglia spinge la protagonista a raccogliere materiale su di loro e a documentare ogni momento, soprattutto quando capisce che la loro storia come famiglia si sta chiudendo. Lei sa che per poter raccontare c’è bisogno di un vincolo logico, ma anche di memoria. E quello che lei fa, nella parte del libro in cui lei ha voce, è mettere in evidenza i vincoli e documentarli. Registrando, fotografando e raccontando.
Il doppio binario – che è anche quello lungo il quale si muovono i bambini perduti e i bambini scappati quando inventano storie per addormentarsi all’addiaccio, quando tentano di trovare la via di ritorno – si avverte anche nella volontà dell’autrice di scrivere un romanzo e un saggio allo stesso tempo. Le parti in cui la sua voce si fa precisa, in cui le sue frasi prendono vigore, sono quelle dedicate alla famiglia protagonista, nello specifico quando a parlare è la madre, una donna che dissacra la realtà – e si nota leggendola– tentando in tutti i modi di mantenerla in ordine. La sua doppia inclinazione la rende una persona equilibrata, cui credere quando racconta la storia della sua famiglia spezzata in due e che si sta spezzando di nuovo in due. Rende il suo racconto affidabile quanto basta e arbitrario il giusto. Il suo modo di narrare è coerente e metodico, appunto quasi maniacale. Sintomo di una persona che ha la sensazione che tutto sfugga, sempre, costantemente. Il lettore si appoggia e si affida per poi rimanere sorpreso più volte nel corso del racconto, quando l’autrice si lascia andare a movimenti inaspettati, sia nel punto di vista, sia nel genere narrativo.
Il translinguismo è un atto politico, sembra dichiarare Luiselli: Los ingrávidos – Volti nella folla – del 2011, Papeles Falsos – Carte False – del 2012, La historia de mis dientes del 2013, sono scritti in spagnolo. Dal 2017 in poi la scrittrice ha deciso di cambiare lingua di scrittura e ha scelto l’inglese con Tell Me How It Ends: An Essay in 40 Questions nel 2017 e infine con Lost Children Archive nel 2019. Lei, messicana d’origine, inizia a scrivere nella sua lingua madre appoggiandosi a strutture grammaticali e a un vocabolario che ha imparato per assorbimento fin da piccola, senza pensare, senza decidere. Poi, in età adulta, la decisione di trasmettere una storia attraverso una lingua scelta con consapevolezza e razionalità. Con l’inglese qui vuole rivolgersi a tante più persone possibili, banalmente. Ma ancora di più Luiselli, come fece Kafka con il tedesco – perché il translinguismo, o comunque la volontà di raccontare in un’altra lingua, non appartiene solo agli anni Duemila – dà una raffigurazione concreta del passaggio da un paese all’altro e la sottomissione a una gabbia grammaticale diversa, difficile e imperante. In un’epoca in cui i racconti della migrazione si sono trasformati in racconti sulla migrazione, e in cui si è perso soprattutto il tono epico per descrivere il viaggi, la Luiselli inserisce un elemento inalienabile, un contenuto politico al fondo del suo progetto letterario.
In definitiva, Archivio dei bambini perduti è storia di una famiglia e di una nazione, autobiografia e fiction narrativa, studio meticoloso di un confine, la sua tragedia e la sua testimonianza.
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