Con Il regno dei fossili (il Saggiatore, 2019) Davide Orecchio ha aggiunto un’ulteriore tappa al suo percorso di scrittura. In Città distrutte (Gaffi, 2012; il Saggiatore, 2018), Mio padre la rivoluzione (minimum fax, 2014) e Stati di grazia (il Saggiatore, 2014) aveva esplorato il nesso tra storia e invenzione, tra precisione documentaristica e dettaglio d’immaginazione, tra vero e verosimile. Ora invece sposta una narrazione che prende le mosse dai dati storici intorno alla figura di Giulio Andreotti, fino a farla sconfinare in un futuro fantascientifico e distopico in cui la conservazione criogenica assicura una sorta di eternità agli umani (o quantomeno alle loro coscienze). Alle vicende dell’uomo di potere che ha manovrato i destini e l’immaginario degli italiani per quasi vent’anni e che, nella finzione, ha dato inizio al progetto Clarke (così chiamato dal nome dello scrittore di fantascienza), fanno da controcanto le storie di Albina, vittima di un incidente che la ingobbisce facendola appunto assomigliare al gobbo presidente del consiglio, del suo fidanzato, Simone, e del suo amante, semplicemente “Il professore”. I diari di Andreotti si alternano dunque al racconto dei loro casi sentimentali e umani di aspirazioni e di studi interrotti, di amori torbidi e violenti, quasi su due piani distinti e non commisurabili. Su tutta la materia del romanzo Orecchio gioca con una lingua colta e poetica, mai facile. Altri Animali ha deciso di intervistarlo proprio sulle molte peculiarità di questo suo ultimo romanzo.
Il regno dei fossili è un libro di innesti fecondi. Non solo perché, come nelle altre sue opere, le storie individuali sono legate alla storia, ma anche perché il diario s’innesta sulla narrazione, una tensione lirica si innesta sul fondamento di dati concreti e documentati e, infine o soprattutto, l’aderenza al vero si concede la libertà di proiettarsi in una distopia. Muovendo da queste premesse mi sembra giusto iniziare chiedendole quanto la definizione di “romanzo” sia accolta e quanto sfidata da un’opera del genere.
Se c’è un genere aperto non solo all’innovazione, ma alla metamorfosi, quello è il romanzo, che è da sempre un territorio di sperimentazione di strutture, stili e temi. Forse in questi tempi di conservazione ce ne siamo dimenticati. Poi qualcuno ogni tanto si lamenta che il romanzo sia morto. Io non so in quali condizioni di salute si trovi, immagino non buonissime ma nemmeno terminali, anzi tutt’altro; penso però che un libro di narrativa che sia vitale e utile debba fare qualche passo in territorio incognito, senza ripetere solo le lezioni del passato, che debba insomma prendere dei rischi conoscitivi ed estetici; Il regno dei fossili ci prova, ossia fa il suo mestiere di libro.
Siamo abituati a concepire il romanzo realistico come il solo luogo deputato al racconto interiorizzato della storia. Qui invece lei ha mostrato un’ulteriore opzione: liberare il realismo non dall’aderenza al dato storico ma dalla gabbia della verosimiglianza. È stato per lei uno scarto compositivo naturale o invece questa peculiare idea dell’innesto di finzione distopica e verità ha precedenti o ascendenze in altre opere e altri autori?
Se parliamo di innesti documentali, di “collaborazione” tra finzione e fonte, i precedenti sono molti e illustri, a cominciare da Sebald. Ed è un modo di scrivere che ho usato anche in altri libri. Adoperarlo in una narrazione fantascientifica è stato per me non dico naturale, ma coerente, poiché il metodo che uso con la fonte (in questo caso i diari di Andreotti) non è diverso dal mio metodo abituale, dalla combinazione di documentato e inventato, dalla manipolazione del testo storicizzato al fine del racconto. Quello che cambia è il clima: Il regno dei fossili è una storia proiettata anche nel futuro.
La morte è centrale nel romanzo: è la condizione storica dell’essere umano. Perciò il romanzo si apre con la morte conosciuta da A. e con la morte sfiorata nell’incidente da Albina. La morte come condizione di partecipazione alla storia. L’invenzione utopico/distopica si prende il suo tempo per entrare in scena, lentamente, con qualche anticipazione dei dettagli segreti del piano Clarke. La sottrazione della morte che la crioconservazione promette è fondata sul minimo comun denominatore tra storia e individuo, tra coscienza e storia: la memoria. La lotta dell’individuo, dentro il Progetto Clarke è né più né meno la lotta della storia per trascegliere le memorie, conservarle, restaurarle o cancellarle. Sarebbe corretto definire Il regno dei fossili un libro sulla morte e sulla memoria?
Sì, sarebbe corretto. È una storia di esseri umani che, mentre vivono, e persino mentre si avviano alla morte, o meglio alla trasformazione in altro, si autoarchiviano, cancellano memorie, restaurano memorie, lasciano tracce diaristiche, selezionano cosa ricordare e portare, mantenendo una relazione viva e intima col tempo storico e col tempo autobiografico. Ma non ho scelto di occuparmi della morte come esercizio teorico. Ho con la morte (altrui, non sono uno zombie) una relazione precoce, il che spesso mi porta a occuparmi di morte… il cane che si morde la coda.
Uno dei personaggi è Giulio Andreotti. I fatti da cui prende le mosse il racconto dell’orfano A. provengono in larga parte dalla sua autorappresentazione (i suoi libri sono una delle fonti primarie del testo). E in tutto Il regno dei fossili assistiamo a un obliquo tentativo di far “dire io” a questa figura a suo modo titanica, che sin dall’infanzia manda «a memoria la morte come una poesia». Dai dati biografici è distillata una sequenza di epifanie drammatiche in cui incombe l’ombra della morte: anche il cattolicesimo è individuato in un senso religioso della morte, e in una visione quasi esistenzialista della vita come continuo esercizio preparatorio alla morte. Un processo di attribuzione di umanità e tragicità a una figura che nell’immaginario è assurta a simbolo dei guasti del potere (sul finire del libro l’orfano che sa la durezza della morte è definito da Aldo Moro: «Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana»). Come nascono l’interesse per Andreotti e il taglio che ha voluto dare alla sua rappresentazione?
Nascono dal tempo nel quale la protagonista del romanzo riceve il suo battesimo politico, storico e persino medico. La fine degli anni ’70, scandita dai governi Andreotti, dal terrorismo e dal sequestro Moro. Andreotti in questa stagione è interessante perché è presente, direi anzi invasivo, perenne nei media e nell’immaginazione italiana; un monumento che anche la protagonista – una bambina malata, ammaccata – vede e che la ricopre d’ombra e controllo. I capitoli biofinzionali su Andreotti sono un tentativo di raccontare alcuni momenti di svolta nella storia della Democrazia Cristiana e dell’Italia usando il punto di vista del diario, adoperando la pagina scritta lasciata dallo stesso Andreotti ma deformandola, o meglio adattandola a Il regno dei fossili, che resta pur sempre un luogo di invenzione.
Gli altri personaggi hanno storie torbide (insoddisfatte, incompiute, diversamente dolorose). Ma sia la giovane studiosa di storia Albina, che il professore con cui ha una relazione, che Simone, l’uomo con cui Albina convive, sono come appoggiati alla storia (intesa come corso storico degli eventi), non sono né in urto né travolti dalla storia. Qui è come se si rilevasse un cortocircuito tra l’irrilevanza (il sentimentale, il quotidiano, il viscerale) e la metafisica (il senso della storia incarnato in Andreotti). C’è una grande empatia verso i personaggi, il cui dolore (che è il dolore della vita stessa e che è per ciò universale) è reso con grande vividezza. A differenza di quanto accadeva in Città distrutte, qui non c’è il conforto di grandi idealità o grandi imprese. Era sua intenzione intraprendere uno studio del grado zero della tragedia umana (la finitudine, l’eterogenesi dei fini, la provvisorietà dei conseguimenti)?
Rispetto a Città distrutte, o Stati di grazia o Mio padre la rivoluzione quello che davvero cambia – e che lei ha lucidamente rilevato – riguarda la diminuzione in minuscole della Storia. Mi riferisco alla parte più consistente del libro, che racconta le vicende intime dei tre personaggi, o che li mostra a partire da una decade, gli anni ‘90 del secolo scorso, in cui muore la storia pubblica della quale sono figli (e studiosi), l’epopea e la tragedia del Novecento si compie ed entra sulla scena una storia diversa, marginale, incomprensibile. La postura dei personaggi in relazione alla Storia consegue dalla perdita di un orizzonte e di un orientamento. Tutti loro la amano ma non riescono più a capirla, non riescono a laurearsi, perdono i libri di studio, dimenticano i nomi e le date, le nozioni. Era mia intenzione raccontare questa fragilità in un tempo storico nuovo (quasi un’atmosfera extraterrestre per un corpo umano).
Longevità e stanchezza (per quanto spinte oltre i cent’anni) sono quelle degli esseri umani qualunque, quelli dalle piccole storie, che sono anatomie e patologie, che sono psicologie e azioni minime; chi commette la storia ne sembra esente o ha sacrificato alla confezione del proprio destino le ansie spicciole. Se pure il punto di partenza è la storia, documentata, registrata, compiuta, dettagliata; il punto d’arrivo è qualcosa di prossimo a una visione, una visione lirica del futuro. L’approdo metafisico è però un non luogo (i bit al posto delle cellule) in cui il materialismo si rovescia in un inferno di reiterate recriminazioni: qualcosa di simile a una dannazione eterna. Perché il ricordare è ricordare il male, l’errore, la colpa. È questo il fondo nero, terribile dell’opera?
Lo è senz’altro per Andreotti, che subisce il contrappasso acustico della voce di Moro, in eterno, nella nuova casa intangibile e futura che lo ospita. Per gli altri personaggi la situazione è più sfumata, hanno più arbitrio, privi del fardello del potere sono liberi di dimenticare persino il male. Sul personaggio pubblico e potente cade un giudizio morale quasi perpetuo, che è comunque una forma di memoria collettiva; le piccole vite, invece, sono dimenticate, anzi dimenticano sé stesse, entro un’implementazione tecnologica di quel destino che tocca e sempre toccherà alle persone comuni: l’oblio.
Vorrei spendere qualche parola sulla lingua di Il regno dei fossili. Il dato più evidente è l’amalgama di tempi verbali che sfida la consecutio e impone di ripensare la logica degli eventi narrati. I tempi verbali sono immediatamente, già sulla punta della lingua, insieme tempi dell’evento e della memoria. Il presente storico è in continuo conflitto con il passato remoto, con l’imperfetto della durata e della percezione degli eventi e della loro ripetizione. Ecco un esempio: «Tornarono fuori. È successo. L’auto ripercorre la via dell’andata. Fuori. Dopo. L’incidente è irreversibile». C’è una volontà di reperire le cose nel loro accadere, non la ricognizione di un’esperienza compiuta ma il dispiegarsi ondivago della percezione, simultanea, altalenante, con lo sguardo che coglie dettagli oggettivi, come dall’alto, e poi torna a fissarsi su singole notazioni minute. In questo paesaggio linguistico non ci sono simboli, nonostante la continua chiamata a raccolta delle parole. Perché il simbolo è totalizzante. Contro cosa lottano le sue parole?
Credo che siano in lotta per la conoscenza, per la descrizione del mondo oggettivo e psichico che abita il regno dei fossili. E poi scorrono in un flusso, forse in una danza, ma non posso essere io, con altre parole, qui, a descrivere o spiegare le mie parole nel libro, mi sembrerebbe esagerato.
In certi passaggi la prosa ha un ritmo scandito, che ricorda la scrittura di Pavese: «Quelli che muoiono sanno senz’averlo imparato che le palpebre chiuse, il liquido, l’acqua, il nero di seppia, la grotta sono un intralcio alla morte; se rantolano vuol dire che hanno perso la grotta, si ritrovano sul fondale più aperto e indifesi, allora hanno l’ansito, hanno esaurito il nero di seppia, aprono gli occhi, chiudono gli occhi». Più spesso si accende con un linguaggio esaltato e impressionistico, dipingendo sguardi che colano dagli zigomi, secrezioni di seppia, agonizzanti che invietiscono («sugli zigomi le colò uno sguardo che aveva coscienza, e gli zigomi si macchiarono di quell’inchiostro, lo sguardo era una secrezione di seppia, la donna cercava una grotta dove nascondersi, invietiva e si rifugiava nel nero»). Chi legge è investito da una pluralità di dettagli, affastellamento, giustapposizione, accumulo che non teme eccesso. L’elencazione è la norma, ma sa deviarsi a mimare la paranoia. Più che l’ansia catalogatoria a innervare queste pagine è però un senso poetico della descrizione, in opposizione a un modo piano e narrativo, nettamente rifiutato. Come nasce questo modo di descrivere le cose?
È la voce che ho trovato per questo libro, e in una fase della mia scrittura che si sta comunque avviando alla fine. Credo che la voce di uno scrittore cambi come la voce umana, che muta a seconda dell’età anagrafica. Probabilmente ho risposto con l’enfasi della parola a certi temi per me, inevitabilmente, scandalosi in quanto intollerabili. Però non sono d’accordo sul rifiuto netto del modo narrativo. Almeno non era mia intenzione questo rifiuto. Il modo non dico poetico ma ritmico de Il regno dei fossili vive per un’esigenza narrativa, il ritmo serve la favola, potrebbe essere la trascrizione di una tendenza all’oralità che nella lingua di questo lavoro mi pare ci sia.
I personaggi hanno memorie diaristiche, e ciascuno di essi ha peculiarità che lo individuano. Così i diari di Simone sono costellati di puntini di sospensione, in numero di quattro (a significare quasi in proporzione di 1:1 la sospensione della sua vitalità, il suo deficit di incisività, ovvero di rilievo e di demarcazione). Le note diaristiche di Andreotti appaiono puntuali e finali, i suoi giudizi inappellabili come sentenze, nonostante i frequenti omissis. Albina vede e scrive in maniera allucinata, sincopata, bulimica. Il professore usa una “/” per passare da un soggetto a un altro e si sdoppia un una terza persona obliqua («Io pazientava e si concentra…»). C’è un tentativo di innalzare dei tic sintattico-formali a posture dell’io, consegnando alla scrittura una funzione mimetica non banale. Può dirci qualcosa sulla creazione di questi espedienti?
Avevo la necessità di rendere ciascun personaggio unico e identificabile grazie allo stile. L’operazione è tornata utile soprattutto nell’ultima parte del libro, dove alcuni caratteri (Simone, il professore) non sono più nominati, ma il lettore li individua facilmente perché riconosce la loro espressione personale, appunto i segni, che sostituisce il timbro o il tono della voce, la descrizione dell’aspetto fisico. La lingua coi suoi registri diventa così uno strumento per la caratterizzazione dei personaggi. Ma sarei fuorviante se limitassi tutto questo lavoro a una funzione, e sottovaluterei il ruolo importante del gioco, del piacere, nell’atto della scrittura.
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