Dopo Il racconto dei racconti, Matteo Garrone torna nuovamente a confrontarsi col fantastico e il fiabesco, e lo fa con la fiaba italiana e moderna per eccellenza: Pinocchio.
Il risultato è un film imperfetto, che a tratti fatica a trovare una coerenza interna; questo non è dovuto solo alla natura episodica del racconto originale ma anche a una messinscena disomogenea. Alcune delle scelte che Garrone intraprende a livello estetico e narrativo sembrano attingere a una visione personale, autoriale, altre invece a un immaginario più classico del genere fiabesco per famiglie di stampo hollywoodiano. Alcuni elementi risultano vivi, sentiti, di carne, altri risultano, rigidi, scricchiolanti, di legno. Queste due anime attraversano tutti gli aspetti del film: dalla scrittura alla fotografia, dalla regia alla recitazione.
La scelta di Roberto Benigni come Geppetto è riuscita benché rischiosa, non solo perché Benigni è stato interprete e regista di uno dei Pinocchio peggiori di sempre, ma anche perché è difficile riuscire a fargli interpretare un personaggio che non sia lui stesso. Eppure, Garrone riesce a mostrare un Benigni smussato, più scavato nel fisico e nell’anima, un Geppetto gioioso e malinconico allo stesso tempo. Alla prima parola di Pinocchio, «Babbo», Geppetto corre in strada per gridare commosso che gli è nato un figlio: il rapporto fra padre e figlio è uno degli elementi che funziona di più in tutto il film; nonostante la recitazione del giovane Federico Ielapi, che interpreta il protagonista, sia a volte poco incisiva, nella sua voce c’è una venatura di fragilità che risulta commovente, che fa vibrare qualcosa e sembra un legnetto che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.
Da questo momento, in una struttura frammentaria, si alternano i diversi episodi delle avventure di Pinocchio. Garrone segue in maniera abbastanza fedele gli eventi e le tappe del libro, senza fornirne quasi mai, però, una vera interpretazione, un vero adattamento; non riesce con gli strumenti del cinema a tirare fuori – ad approfondire – quei temi che attraversano l’opera originale. Poco rimane dell’inquietudine e del senso di morte, poco del racconto popolare, poco delle possibili letture sul libero arbitrio, sulla morale e sulla promessa di una vita altra che attraversano sottopelle il romanzo.
La mancanza di un vero e proprio adattamento porta quindi alla successione di episodi spesso inconcludenti, slegati fra loro, che illustrano più che interpretare. Prendiamo ad esempio il celebre episodio con Mangiafuoco: Pinocchio, dopo aver marinato la scuola, decide di andare a vedere lo spettacolo dei burattini e si unisce a loro. Di notte, Mangiafuoco, interpretato da Gigi Proietti, decide di bruciare un burattino per ravvivare il fuoco, scegliendo inizialmente Pinocchio. Ma, venuto a conoscenza del fatto che Geppetto lo sta aspettando, decide di lasciarlo andare e di sacrificare al suo posto Arlecchino. Pinocchio lo supplica di prendere lui al suo posto, e Mangiafuoco decide di non sacrificare nessuno, dando al protagonista cinque zecchini per aiutare suo padre. Lo sviluppo drammaturgico di questo segmento, benché semplice, non riesce a essere potente, commovente o divertente – complice l’interpretazione di Proietti, poco ricca e molto sottotono –, risultando un’illustrazione didascalica di ciò che è presente nel romanzo. La mancanza di invenzioni registiche e attoriali la rendono meccanica, legnosa.
Totalmente diverso è invece il primo incontro con il Gatto e la Volpe, interpretati da Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini. La sequenza inizia con un campo lungo, che ci racconta la desolazione del posto; i personaggi piccoli si stagliano contro il cielo in aperta campagna: Pinocchio in mezzo, il Gatto e la Volpe davanti e dietro, a circondarlo. Sono soli, nessuno può aiutare il protagonista. Si alternano poi primi piani stretti e angolati dal basso del Gatto e la Volpe; la scelta dell’inquadratura ci mette nei panni di un bambino e racconta perfettamente la soggezione, la confusione e l’ingenuità di Pinocchio. Queste inquadrature sono intervallate da primi piani del burattino, in cui si inseriscono le mani della Volpe in costante movimento, a incantare e affabulare Pinocchio come nel gioco delle tre carte.
La scena seguente si svolge alla locanda dove il Gatto e la Volpe mangiano a spese di Pinocchio; grazie a un’ottima recitazione e a un grande lavoro di sound design che mescola suoni animaleschi alla voce dei due furfanti, la scena arriva a provocare nello spettatore il ribrezzo voluto. La voce di Ceccherini, che fino ad ora è quasi subdolamente bisbigliata, diventa grave e strozzata, come se nell’atto del divorare il pasto la sua vera natura bestiale venisse finalmente fuori. La Volpe di Ceccherini è una delle cose più belle di tutto il film: i capelli scompigliati, la barba incolta che sembra pelo e qualche baffo animale che spunta disordinato dai baffi umani rendono impossibile capire dove finisce l’uomo e dove inizia la volpe, e la sua recitazione, gli occhi sgranati in maniera maniacale, la parlantina veloce e ossessiva, oltre al disgusto genera una sorta di compassione per questo essere ibrido, per questo uomo-volpe che sta venendo divorato dal proprio conflitto interiore fra natura umana e fame animalesca.
La scena di Mangiafuoco e la scena del Gatto e la Volpe sono un esempio dell’alternarsi di momenti didascalici e banali e intuizioni originali e interessanti, quanto meno dal punto di vista della messinscena. E nonostante la maggior parte del film manchi di interpretazione, la speranza che la prossima scena sia di carne e non di legno porta lo spettatore a non perdere mai del tutto l’interesse verso una sceneggiatura che, per citare il classico Disney, non ha fili eppur sta in piè.
La fotografia, benché formalmente perfetta, non sempre convince del tutto dal punto di vista artistico. Nello specifico, negli esterni giorno riesce a raccontare molto bene un’ambientazione da fiaba rurale, radicata nel territorio italiano, a illuminare bene gli scenari della Toscana e della Puglia in cui il film è stato girato. Nelle notti restituisce un immaginario invece più banale, da film fantastico americano, con gli interni illuminati da fasci di luce blu à la Hugo Cabret.
Il lavoro di ideazione delle creature fantastiche è notevole. I personaggi incontrati da Pinocchio appartengono a un immaginario uniforme e originale; di alcuni di loro, la realizzazione tecnica tramite costumi, trucco ed effetti speciali pratici e digitali colpisce per precisione e cura dei dettagli, come nel caso della Lumaca. Di altri, invece, nonostante l’efficacia visiva, nel momento in cui parlano o si muovono si percepisce il peso della maschera o del trucco, come ad esempio il Giudice Gorilla e, purtroppo, il Grillo Parlante, interpretato con talento da Davide Marotta. Per quanto riguarda Pinocchio, il burattino risulta molto credibile e l’effetto percepito dallo spettatore è quello di un legno vivo e fragile; man mano che la storia procede, il suo corpo si ricopre di graffi e spaccature che riescono a restituirne la precarietà e temporalità. Il tutto è reso ancor più realistico dal lavoro fatto sul sonoro, estremamente curato e approfondito: ogni passo di Pinocchio è accompagnato da un cigolio, ogni movimento da uno scricchiolio legnoso.
Il lavoro sul sonoro è anche un lavoro sulle voci, che negli animali antropomorfi diventa un mescolarsi di versi animaleschi e voci umane gestito in maniera potente ma sottile. C’è, inoltre, una varietà linguistica di dialetti e tonalità che crea un mondo variegato senza sacrificarne la coerenza. L’unica nota stonata è la voce della Fata Turchina da adulta, interpretata da Marine Vacth, attrice francese: nonostante abbia recitato in italiano durante le riprese, è stata doppiata da un’altra interprete, Domitilla D’Amico, la cui voce volutamente aerea non risulta però calata nel mondo del film.
La Fata Turchina compare all’inizio da bambina e successivamente da adulta, come avviene anche nell’opera originale. La sua prima apparizione avviene in una delle scene più inquietanti del racconto e del film. Pinocchio, che si sta recando di notte al Campo dei Miracoli, viene sorpreso dagli assassini e, terrorizzato, inizia a scappare. Bussa alla porta di una casa e dalla finestra si affaccia la bambina dai capelli turchini, dicendo che non c’è nessuno in casa e che sono tutti morti, anche lei.
Seppure l’immaginario a cui attinge Garrone è quello gotico, tra figure incappucciate, finestre cigolanti illuminate da candele, paesaggi immersi nella nebbia e impiccagioni, quindi non del tutto coerente col resto del film, la resa è efficace e, in un certo senso, aderente al testo originale, di cui Calvino scriveva: «[…] la casina che biancheggia nella notte con alla finestra la fanciulla come un’immagine di cera che incrocia le braccia sul petto e dice: – Sono tutti morti… Aspetto che la bara venga a portarmi via, a Poe sarebbe certamente piaciuta».
Fra Pinocchio e la bambina dai capelli turchini si crea una bella alchimia e, se spesso l’interpretazione della giovane Alida Baldari Calabria non impressiona, una certa ingenuità nella sua recitazione riesce a trasmettere comunque il rapporto che si instaura fra i due bambini.
Altro rapporto chiave è quello con Lucignolo, qui interpretato come un monello simpatico da Alessio Di Domenicantonio. Pinocchio e Lucignolo sono protagonisti di una delle poche scene che colpiscono veramente a livello emotivo, quella della trasformazione in somari. I movimenti di camera convulsi, gli effetti speciali eccellenti che trasformano gli arti dei bambini in zoccoli mentre si contorcono per terra in preda al dolore, le grida di aiuto che diventano sempre più rauche fino a trasformarsi in ragli e la dolcezza inquietante e manipolatrice dell’Omino di Burro, che fuori dalla porta parla loro con parole gentili, la rendono una scena di un’angoscia vera e profonda.
A dire il vero, tutto il segmento del Paese dei Balocchi, girato in una masseria in Puglia, è uno dei più riusciti. I ragazzini che scorrazzano fra le costruzioni bianche e le balle di fieno trasformate in giochi da fiera, la m.d.p. che li segue in questo caos gioioso, mentre l’Omino di Burro sorridente li chiude dentro, consapevole del loro destino, sono quel tipo di scelte di messinscena e di immaginario che avrebbero reso più vivo e sentito il film di Garrone.
Nonostante Pinocchio non sia riuscito del tutto, nonostante i molti difetti, nonostante riesca raramente a emozionare davvero, bisogna riconoscere al film il merito di essere uno dei pochi esempi di cinema fantastico per ragazzi nella cinematografia italiana contemporanea. E c’è da sperare che agli occhi qualche bambino, forse più ingenui, la trasformazione da legno a carne sia avvenuta.
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