“Come sarà la morte? Vedere
una tigre di ferro che ti salta addosso
e non credere che ti possa toccare?”
J. Rodolfo Wilcock
Sono un uomo enorme, grasso. Nudo. La pelle cosparsa di un bianco antico. Il silenzio mi circonda. Avvolge lo spazio, crea il vuoto. Il mio glabro corpo pare come di gesso. Ho gli occhi incavati e il labbro inferiore sporgente e una grande mascella. I miei occhi e la mia bocca sono antri bui, caverne. Dentro cui vedere l’abisso. Sono una statua, un’opera d’arte vivente. Un colosso dalle forme tondeggianti di Budai. Imponente. Ho il viso triste di un bambino. Ho l’espressione offesa di un bambino capriccioso. Eretto, poggiato sulle mie gambe gigantesche e flaccide. Respiro profondamente la mia presenza. Un corpo bianco dritto sugli arti posteriori, sopra un tappeto scintillante. Mentre incede nel cammino. Dall’inizio alla fine, e viceversa. Senza meta. Senza nessun luogo nel quale arrivare. Senza casa. Senza dubbi. Senza fine. Senza nessuna ragione di andare avanti. Senza nessuna ragione di respirare. Eppure, ancora respiro.
Alle braccia ho due aghi a farfalla, piantati nelle vene. Uno sul destro e uno sul sinistro. Insetti di plastica. Gli aghi non sono legati a nulla. Penetrano la carne fino a bucare una vena. Lì si fermano e lasciano che sia. Lasciano che il sangue possa fluire dentro i loro condotti e sgorgare all’esterno, fino a toccare terra. Il cuore si contrae e il liquido rosso passa attraverso gli atri e i ventricoli, e il vuoto e la mancanza – e l’odore di morte aleggia nel silenzio – e il sangue viene sospinto fino agli spilli e poi all’aria aperta. Schizzi intermittenti scivolano sul mio corpo niveo e infine toccano il tessuto steso per terra. Una striscia di tessuto trasparente illuminato a giorno di luce artificiale che risalta al buio e si rifrange fino al cerone sparso sulla mia pelle, su questo limite apparentemente invalicabile.
La stanza è ampia. Una vasta sala con i tetti così alti da diventare invisibili. C’è buio pesto, eccetto che su quella linea ricoperta dal tappeto trasparente. Venti metri per due di pura luce bianca in un’oscurità infinita.
Ci sono altre persone. Un centinaio di altri corpi e altri visi, attenti esclusivamente a me. Telecamere e macchine fotografiche; gli abbagli dei flash e il rumore degli scatti fanno da sottofondo al buio. Sono tutti lì curiosi, desiderosi di vedere un uomo morire. Di sua volontà: poiché anche io lo desidero. Sono un artista e un artista deve mettere in mostra – deve far vedere. La morte. Mostrare la sua morte. La morte di ognuno nella sua morte. Questo è il compito dell’artista.
Avanzo sulla luce, passo dopo passo, pulsazione dopo pulsazione. Guardo avanti con gli occhi di ossidiana. Sono preparato. Mi concentro sul respiro. Lento lungo e profondo. Il mio è un cammino Zen. Attorno a me ci sono persone di ogni età, sesso, religione, temperamento emotivo, savoir faire, preferenze culinarie, orientamento filosofico e vicinanza al momento della morte. Tutti mi guardano: un uomo cosparso di polvere bianca, con degli aghi dai quali pullula fuori il suo sangue su un lungo tappeto illuminato, mentre i palmi dei piedi divenuti rosso fuoco lasciano impronte sul tessuto, trascinandosi la vita liquida che muore e spargendola sulla luce. Tutti sentono emozioni molto diverse. Le esprimono in maniera differente. Una signora tiene la mano davanti al viso e piange. Un giornalista prende appunti e mi fissa mentre gli si attorciglia la pelle sopra il naso. Un ragazzino ha la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Lo trattiene, tenendolo per le spalle, suo padre. Ha un atteggiamento duro, indifferente, analitico. Dentro di sé, però, vorticano le colpe, ricordi difficili da inghiottire – vero papà? – Fuoriescono dalla bocca della sua anima come un rigurgito. Menzogne. Omissioni innocenti. A mo’ di lacrime scendono giù dalle gote. Cosa c’è di innocente nel tacere la verità? Toccano il pavimento come se tentassero di raggiungere il mio sangue e abbracciarmi, trattenere anche me.
Proteggermi.
C’è una ragazza contrita che singhiozza il suo dolore. C’è un signore anziano che sbuffa. Non capisce ciò che ha davanti e si annoia. Sacrosanto. C’è una coppia di amanti i cui sguardi s’incrociano, pieni di dubbi e fragilità, davanti a questa cosa immonda, di cui non bisogna parlare mai. C’è uno strano signore che mastica del tabacco e sgrana un rosario e assieme al tabacco mastica delle parole sottovoce. C’è un piccolo frate che prega, dentro di sé. E ha paura.
Sento il battito cardiaco farsi sempre più fioco e distante e lento. L’energia vitale che mi travolgeva di adrenalina durante i primi passi, adesso è un refolo di memoria. La stanza, il tessuto, la luce, la gente, i flash e gli scatti sono lontani, in un’altra dimensione, in un’altra realtà. Non sono reali, sono sogni nella notte. Ora sento solo il vuoto nella mente e il ripetersi dei passi. Destro, un attimo di sospensione, sinistro. Ogni passo verso la morte è pieno di tutta la mia esistenza, della mia vita intera. Vorrei piangere, vorrei tornare a casa, vorrei fermarmi e dire basta, vorrei sfogarmi, annunciando a tutta questa gente che sono dei falsi, ipocriti! Che tutto questo è falso! Vorrei urlare che tanto mi rianimeranno appena un attimo prima di morire. Tanto mi salverò, non voglio morire davvero. Quindi cosa state guardando? C’è una regista, una truccatrice, un addetto alle luci, una squadra di professionisti che ha previsto ogni passaggio di ciò che sto facendo, il mio spettacolo, nei minimi particolari. È tutto costruito, tutto già predisposto. Vorrei scagliarmi verso i fotografi e travolgerli e picchiarli selvaggiamente, fino a essere trattenuto di forza da sette persone, e togliermele di dosso con un movimento rozzo, possente, per poi gettarmi sul padre bugiardo e spaccargli il cranio a pugni, sbavando come un cane; vorrei stuprare la bambina che mi passa davanti, per la centesima volta, con gli occhi grandi, e poi sorride tutte le volte con compassione, abbassando lo sguardo come una cagna che ha fatto uno sbaglio, e lo sa. Vorrei punirla. Vorrei strillarle in faccia di morire, di provarci lei a morire, lurida puttanella del cazzo! Vorrei urlarle in faccia talmente forte da sputarle addosso. Diventare un mostro, questo vorrei. Vorrei cospargermi di olio e strofinarmi su di un tricheco morto e sentirne l’olezzo mentre gli uccelli ne divorano la carcassa. Vorrei sentire la pace della fine di tutto. Voglio sentire quel vuoto che si crea nella testa di un condannato a morte. Voglio arrivare davanti a lei, e dirle: «Ancora no. Dammi un bacio che ora vado a vivere. Vado a vivere ancora un po’ e poi torno da te». E poi un bacio tira l’altro.
Tremo, in questo valzer grottesco e scandaloso, cado su un ginocchio. I medici sono lì, pronti a intervenire. Vorrei morire e invece so che non succederà, almeno non ora, lo sanno tutti. Sussurro qualcosa mentre il corpo m’abbandona e nemmeno io riesco più a sentirmi. Gli arti cedono e i medici sono già attorno a me prima che possa svenire. Mi stendono e iniziano a versare nuovo sangue dentro le mie vene. Direttamente da quegli stessi aghi già conficcati nella carne.
Perdo conoscenza. Vedo il buio. Dimentico i medici, la stanza oscura, il tappeto su cui sono disteso, la gente attorno, i flash, gli scatti. Sento solo la morte e i suoi baci appassionati. Desidero solo smettere di perpetrare il placido riverbero del suono del mio respiro. E perdermi nel vuoto e nel buio e nel silenzio.
Nell’invisibile.
Ricordo una domanda udita in un sogno.
«Come sarà la morte?».
Una voce cavernosa mi riporta ai sensi. Col polpastrello del dito medio tocco quello del pollice, come mi hanno insegnato. Sento la vita muoversi di nuovo dentro al corpo. I vasi sanguigni riempirsi di liquido caldo. Il respiro accelerare. Sono presente: sono ancora, un’altra volta, qui.
Mi prendo del tempo, qualche sospiro. Uno dei medici controlla la vita nei miei occhi e fa cenno agli altri e poi anche a me, indicando che la situazione è normalizzata ed è tutto sotto controllo.
Un’assurda forma di nostalgia mi si apre nel petto come una voragine.
Invece mi alzo con un movimento lento e fluido, seppure incerto e ancora leggermente affaticato. Compio un inchino modesto e rituale.
Un applauso squarcia il silenzio.
Un lento passo indietro ne accompagna un altro che porta il mio corpo verso destra, dietro la folla, verso i camerini del museo, verso un albergo e poi verso un aeroporto e poi verso casa e così via, fino al prossimo incontro. Come due amanti che vivono, nell’attesa di toccarsi di nuovo.
«I miss you»
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↔ In alto: foto © Mohamed Abdelsadig from Pexels.
↔ In basso: foto © Ngoc Lan Francesca Tran.
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