Alle 5 del mattino, quando il buio è ancora fitto, la paranza San Nicola II – un’imbarcazione di piccola dimensione, dipinta a poppa e a prua di blu, con una striscia azzurra che percorre la fiancata bianca – salpa dal molo commerciale di Salerno. L’acqua della darsena è scura e serena mentre soffia un filo di vento. Si sente solo il rumore del motore. Nella penombra s’intravedono le curve delle montagne, e le luci del lungomare accompagnano l’uscita dal porto.
La barca sul mare increspato continua a ondeggiare in un moto perpetuo. Il capitano è Michele: carnagione olivastra di chi ha vissuto una vita sul mare, occhi azzurri chiari, baffetto e pizzetto bianchi. «È dall’età di dieci anni che sto sui pescherecci, ho iniziato con mio padre, nel periodo d’oro della pesca».
Il sole inizia a salire dall’acqua e i contorni del golfo salernitano si fanno più nitidi. Ventate di salsedine impregnano la pelle. A bordo c’è anche Luciano, il fratello di Michele: «Ho iniziato all’età di quindici anni a pescare con mio padre, a Imperia in Liguria, e non ho fatto altro per tutta la mia vita». Parla da sotto il cappuccio da cui s’intravede un sorriso. A tre miglia dalla costa iniziano a gettare le reti, il rumore del motore si fa ancora più intenso, a causa dello sforzo per trascinarle.
Quando le reti poggiano sul fondo muovono i sedimenti marini che spingono pesci, crostacei e molluschi ad uscire dalle profondità. Il capitano e Luciano, nonostante il forte ondeggiare del mare e le chiacchiere, non perdono mai di vista il rullante che fa scorrere lo strascico. Non sono mai fermi: per tutto il tempo camminano da poppa a prua. Le lime di sughero che sorreggono le reti sono arrivate sul fondo, trascinandosi dietro corde e catene. Luciano si aggrappa all’estremità degli archi, sotto cui scorrono i cavi per agganciare i divergenti : «Servono per divaricare, in modo tale da ampliare l’apertura della rete, che finisce sul letto del mare». Si posiziona dietro l’argano che continua a far calare i cavi per 450 metri, mentre Michele dalla cabina di pilotaggio conduce il peschereccio tra le onde.
La luna s’intravede ancora, benché il bagliore rossastro del sole circondi le nuvole all’orizzonte. Le luci della città sono svanite, iniziano a scorgersi le rocce calcaree della costiera amalfitana. Michele, uscendo dalla cabina, racconta: «Ogni mattina partiamo alle cinque, possiamo lavorare anche dalle dodici alle quindici ore». Luciano si appoggia all’arco della poppa, guardando lo scorrere dell’acqua prodotta dal motore, e sbiascica: «Per quanto sia difficile questa vita, ritrovarsi in mezzo al mare ti dà un senso di libertà che non trovi da nessun’altra parte. La pesca oggi è sopravvivenza. Non ti cambia più la vita come una volta, quando si facevano i veri soldi. Siamo spinti ad andare avanti dalla passione per il mare».
Solcando i cavalloni, la barca fiancheggia paesi sulla costiera arroccati nelle montagne. Da Salerno ad Amalfi, si scorgono terrazzamenti di vigneti e limoni, una fitta vegetazione ingloba il paesaggio. Antiche grotte e viottoli compongono il litorale, il tutto avvolto in miti e leggende che arricchiscono l’immaginario del luogo.
Sulla piccola paranza ritorna la frenesia. Il sole è alto, quando decidono di ritirare le reti. La barca è ferma, quando si dividono tra chi controlla lo strascico e chi muove i cavi. Trascorre parecchio tempo prima di rivedere la bocca della rete. I pesci iniziano a scivolare sulla poppa, mentre la rete scorre tra le mani di Michele. «E’ arrivat u’ pesc», urlano quando il bottino viene poggiato sulla barca. Il vento alita con più intensità, e il mare è costantemente agitato. Nell’alzare la rete, la fanghiglia si sparge sotto i loro piedi e i pesci si dimenano tra la spazzatura raccolta sul fondale. Lattine di alluminio, pacchetti di patatine, un secchiello, bottiglioni, piattini e bicchierini di plastica costituiscono parte del pescato. «Vorremmo raccogliere la monnezza e portarla con noi. Non ci costa niente, anzi, sarebbe giusto farlo, ma non ci sono contenitori di raccolta sul molo. Non appena viene posata a terra la capitaneria di porto ci fa una sanzione, perciò dobbiamo ributtarla in mare», afferma Michele nello spostare dei sacchetti sporchi. «Abbiamo fatto richiesta alla capitaneria di porto, ma come al solito si perde tutto nella burocrazia».
I gabbiani sorvolano la barca mentre i pescatori dividono i pesci. Dopo aver sistemato delle ceste per il raccolto, i primi scarti di pesce e sporco vengono gettati in mare. Il garrito si fa sempre più intenso dietro la barca, quando una moltitudine di gabbiani si precipita su ciò che viene gettato in acqua. Sul peschereccio, l’effluvio denso del pescato è il solo odore presente. Accovacciati sul pesce, i due pescatori dividono quest’ultimo per grandezza, ossia per valore commerciale e lo ripongono in contenitori. Michele con fierezza afferra dei pesci per mostrarli alla luce: «Questo rosato è una triglia, quello lì con il dorso argentato è un pagello e vicino ci sono delle seppie», mentre a Luciano gli s’intrecciano una coppia di polpi sul braccio, che dolcemente ripone in un secchio pieno d’acqua.
In tarda mattinata la paranza San Nicola II, seguita dallo stormo di gabbiani, si dirige verso il porto. La vita sul molo è in preda ad una esasperata smania di pescatori, che caricano i pesci nei furgoni per venderli al mercato ittico o nelle pescherie. Oltre alle paranze e alle tonnare, una gran parte del porto è occupata da navi da crociera e da commercio che scaricano i container.
Dopo essersi lasciati alle spalle il porto commerciale, Michele e Luciano a bordo di un furgoncino navigano verso le pescherie. Abbandonando il vociare dei gabbiani e lo sbattere dell’acqua contro le barche, ci s’immerge nelle note di Nino D’Angelo che accompagna il viaggio sull’asfalto. Dirigendosi verso una pescheria, Luciano afferma alzando la voce: «Sono loro che stabiliscono il prezzo, te puoi al massimo aggiungere qualcosina e non tutti ti danno i soldi subito». Uscendo dal bar, dopo un caffè, confida: «Per via del tempo oggi non abbiamo raccolto molto, e abbiamo consumato circa 150 litri di gasolio. Mantenere una paranza costa “assai”». Mentre Michele mostra gli ultimi pesci alla pescheria d’Agostino – una delle storiche di Salerno – Luciano si appoggia al cofano del furgoncino e abbassando lo sguardo dice: «Mi piacerebbe molto che mio figlio diventasse un pescatore, anche se mia moglie sostiene che è una vita troppo sacrificata».
Un altro tipo di pesca viene fatta al porto turistico «Masuccio Salernitano». Sul molo, nelle barche e addossati sui muretti i pescatori rassettano le reti, e tolgono gli ultimi pesci rimasti impigliati per poi gettarli nei secchielli.
In piedi a un angolo del pontile c’è Vincenzo. Ha trentasette anni, di carnagione scura, alto, con un filo di barba e dalla parlata amichevole: «Qua facciamo la pesca con le reti da posta, usciamo nel tardo pomeriggio e le posizioniamo in modo che il pesce ci finisca dentro rimanendo impigliato, possiamo rimanere lì per raccoglierle o tornare al mattino». Dopo aver salutato un pescatore appena rientrato, aggiunge: «È una tipologia di pesca che rispetta i fondali marini senza danneggiarli. Il vero problema è la quantità di monnezza che ci finisce dentro soprattutto quando il mare è mosso». Alzando le braccia sopra la sua testa e tenendo strette le reti: «Vedi quanti rifiuti sono rimasti incastrati dentro!».
Dalla parte opposta a Vincenzo, su una barca bianca con delle strisce gialle, è seduto Matteo. Ha cinquantaquattro anni, i capelli brizzolati, è di media statura, con una voce pacata e a tratti intristita: “Quando finirà la nostra generazione, questa tradizione sarà destinata a soccombere». Si ferma dal rassettare le reti e aggiunge: «È il motivo per cui non voglio che mio figlio si affezioni a questo lavoro, perché è difficile da lasciare e soprattutto non c’è futuro ». Osservando delle barche che attraccano, alza la voce in tono seccato: «La pesca sportiva ci “guasta la piazza”, mentre noi per portare altre persone dobbiamo sborsare o perderci nelle scartoffie, anche se è per mio figlio, loro invece no!». Per poter pescare un pescatore di professione, deve avere la licenza.
«In una barca di sei metri, questi “pescatori” possono salirci anche in cinque e se ognuno pesca venti seppie, cosa pensi che se le mangino tutte? Le vendono, e si comprano l’attrezzatura migliore». Dopo aver acceso una sigaretta, continua: «Qua ci sono trecento barche che stanno a largo nel fine settimana e noi siamo costretti a tornare a terra, bisognerebbe fargli pagare una quota in più a testa, e con quei soldi comprare uova di seppia; tu sfrutti il mare e io con i tuoi soldi lo ripopolo!».
Il vociare in dialetto dei pescatori da una barca all’altra interrompe il discorso di Matteo. Sull’imbarcazione sale Mimì, un vecchio pescatore dal petto spoglio color caramello e un cappello di paglia sul capo, che si siede. Disossa le seppie mentre parla: «La pesca è come la frutta, va a periodi, ora sta finendo la stagione delle seppie e inizia quella del gamberone, certo che nelle reti comunque finisce sempre di tutto». Viscere e inchiostro nero di seppia si spargono nel secchio tra le sue gambe. Respirando profondamente tra una boccata di sigaretta e l’altra, Mimì continua: «Io sono del ’39, quando ho iniziato si guadagnava bene e potevo portare chi volevo sulla barca». Dopo una gracchiata di tosse: «Quante serate ho passato con amici e donne in libertà, oggi le leggi cambiano ogni giorno e non si capisce più niente, la vita di un pescatore è cambiata».
Dopo aver fumato diverse sigarette, scende un profondo silenzio. Matteo nel frattempo pesa del pesce, da vendere a una signora a terra. Mimì riprende a parlare: «Ho visto e attraversato molte tempeste quando pescavo, o le combatti o muori. Una volta mi successe in Liguria che a qualche miglio dalla nostra barca c’erano tre trombe d’aria e il capitano andò a prua, e si slacciò i pantaloni, non so se stesse bisbigliando o parlando normalmente al vento, vedevo solo la bocca muoversi, quando il cielo si tagliò e le trombe d’aria andarono via».
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↔ foto © Andrea Bonetti, 2019.
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