Esistono libri introvabili di Emmanuel Carrère. Difficile da credere, considerata l’aura del loro autore, uno dei pochissimi divi della letteratura contemporanea. Eppure La Moustache, riportato adesso in libreria da Adelphi dopo un’assenza di quasi vent’anni, in una nuova traduzione a cura di Maurizia Balmelli, era uno di questi.
La sua prima introvabile edizione risale al 1987, quando un piccolo editore indipendente romano, Theoria, decise di puntare su questo non ancora trentenne ma già affermato critico cinematografico, sceneggiatore e scrittore francese, dichiaratamente bobo (bourgeois e bohèmien) ma di ascendenza (e discendenza, da parte di madre) russa.
Carrère era inedito in Italia ma aveva già pubblicato in patria una biografia del cineasta Werner Herzog e tre romanzi: L’Amie du jaguar (1983) per Flammarion, Bravoure (1984) e appunto La Moustache (1986) per POL. Per lui già nel 1988 si scomoderà John Updike che sul New Yorker, proprio a proposito di Baffi, scrisse: «In meno di 150 pagine, vi mette K.O.».
Un favore però non corrisposto dal pubblico italiano che ignorò quasi del tutto le pubblicazioni Theoria di Baffi e del nuovo romanzo Hors d’atteinte, tradotto nel 1988 con il titolo Fuori tiro. Questi due volumi, insieme a una traduzione Marcos y Marcos di Bravoure (Bravura, 1991) e a una riedizione di Baffi da Bompiani nel 2000, sono stati per anni dei feticci quasi inaccessibili, oggetti dall’esistenza addirittura incerta, per gli innumerevoli ammiratori dell’autore de L’avversario e Limonov: i relitti di un passato remoto e al limite dell’inverosimile in cui uno dei più grandi autori di non fiction della sua epoca scriveva fiction (e in terza persona) 1.
Fuori tiro (1988), Theoria e Bravura (1991), Marcos y Marcos sono attualmente fuori catalogo e non sono mai stati ristampati. Il romanzo d’esordio di Carrère, L’Amie du jaguar (1983), non è mai stato tradotto in Italia.
Sì, perché non si può proprio parlare di questo libro senza prima confessare un raro e assurdo effetto straniante, possibile solo con Carrère e pochi altri autori capaci di saltare con agilità da un genere all’altro (William T. Vollmann, David Foster Wallace, Joan Didion, Tom Wolfe): leggere cioè un’opera scritta in terza persona da chi ormai parla addirittura della Bibbia, anzi della Verità assoluta, partendo da sé. E, per intenderci, non da un io kantiano ma dall’io che deve fare i conti con la presenza in casa di una baby-sitter un po’ matta, prima di potersi lanciare in un’indagine da non credente sulla veridicità del Nuovo Testamento (si veda Il regno).
Magari allora è solo un’inevitabile deformazione ex post dovuta all’esperienza che abbiamo dell’opera, della poetica, del ruolo (mal sopportato) di intellettuale di Carrère ma è impossibile non sospettare, o addirittura intuire, la difficoltà dell’autore a contenere anche in questo libro, già in questo libro, un ego strabordante, quella cifra di presunzione, realismo e nettezza che ha obbligato i critici ad inventare una nuova definizione letteraria, quella di “scrittore documentarista”: il ritrattista di vite che non sono la sua più bravo del mondo.
È stato scritto di recente che ne I baffi si ritrovano i temi ricorrenti dell’autore: l’indagine sull’uomo, la fatalità, l’impossibilità di definire i termini assoluti della realtà. Quando il libro uscì invece, negli anni 80, qualcuno tirò in ballo addirittura Kafka, per l’angoscia crescente nella narrazione e l’inquietante assunto di partenza – un uomo decide dopo molti anni di tagliarsi i baffi ma nessuno se ne accorge né ricorda che li avesse mai avuti – ma anche Pirandello e Gogol, per la presenza di un piccolo, apparentemente insignificante, dettaglio perturbante e rivelatore della stranezza del mondo; mondo ormai inaccessibile, autistico, che purtuttavia permane, a differenza della stabilità mentale del protagonista, di chi cioè ha esperito l’unheimlich.
Ci sta tutto, anche se per Carrère la questione è molto più semplice, o almeno lo era ai tempi di questa intervista del 2001:
«Non conosco bene Kafka né Pirandello. Beninteso, questo tipo di confronti mi lusingano, ma gli effettivi punti di partenza sono molto più banali. Succede che un pomeriggio si parte per la campagna, pensando di scrivere una novella. Poi, giorno dopo giorno, la cosa cresce e, senza idea alcuna di quel che si scriverà l’indomani, ci si corica chiedendosi dove si voglia arrivare con questa storia.
Le faccio un esempio: mi sono accorto che il protagonista non aveva ancora un nome solo ai due terzi della stesura del romanzo. Mi è sembrato indicativo; a quel punto, ho continuato deliberatamente il gioco. Semmai, io volevo porre l’accento sulla reciprocità della sconnessione mentale: può anche essere il mondo attorno a noi a perdere la testa, no? »2
La (penultima) verità è che in quegli anni Carrère era ancora nella fase più fervida della sua passione per Philip K. Dick, di cui nel 1993 scriverà, ovviamente in prima persona, la biografia romanzata Io sono vivo, voi siete morti. E questo libro, I baffi, sembra proprio un esperimento letterario di chi ha amato perdutamente Scorrete lacrime, disse il poliziotto fino al punto di sviscerarlo e incaponirsi sul cuore del paradosso dickiano: cosa succede alla vita quando è impossibile stabilire cosa sia reale e cosa no? Un assunto cruciale per il grande autore americano, assurdamente ridotto a scrittore di genere, che Carrère considera il «Dostoevskij della nostra epoca, vale a dire, in sintesi, uno che ha capito tutto» 3.
Per rafforzare la tesi che questo sia un libro parente della migliore science fiction, si può facilmente immaginare il protagonista senza nome de I baffi come un abitante di Matrix durante la cui estrazione da parte di Morpheus qualcosa è andato storto: il fallito “risveglio” ha quindi provocato solo un blip, un piccolissimo bug nel sistema di realtà simulata, sufficiente però a compromettere irrimediabilmente la percezione della realtà del mancato prescelto. Il film che Carrère ne ha tratto, il suo unico film non documentario da regista, distribuito in Italia con l’insensato titolo L’amore sospetto, potrebbe tranquillamente essere ambientato nella realtà virtuale e post-apocalittica delle sorelle Wachowski.
Questo libro, scritto in sole sei settimane, è appunto un gioco, un gioco perverso. Carrère inserisce un unico elemento disturbante – i baffi rimossi dalla coscienza degli altri –, creando un meccanismo semplice che obbliga la storia a incartarsi su sé stessa, e quindi procede spedito verso il precipizio, senza pause – se non per incaponirsi sul pervertimento di un concetto – o descrizioni – se non degli ambienti stolidi, muti, che circondano il protagonista prima a Parigi quindi con un repentino cambio di scena a Hong Kong e Macao. Non conosciamo quasi nulla dei personaggi eppure precipitiamo con loro in una quotidianità distopica inquietantemente familiare e infine nelle pieghe della mente del protagonista.
Un romanzo claustrofobico che riduce il mondo a un dettaglio totalizzante, a un livello elementare di esistenza, da cui una volta accettata l’assurda logica di partenza non esistono vie di fuga. Ma anche un romanzo sull’impossibilità di tornare indietro, sull’efferatezza intrinseca di questo stato di natura. Ad un certo punto il protagonista fugge, ed è come se volesse fuggire, invano, la cattiveria del narratore, la cattiveria di Carrère o di un mondo che gli impone di cercare un senso a ciò che accade mentre lui vorrebbe solo passare tutta la vita che gli resta su un traghetto, ad osservare l’inutile movimento del mare.
NOTE
1 L’unico altro libro di fiction di Carrère reperibile nelle librerie italiane è La settimana bianca (Einaudi, 1996, Adelphi, 2014), l’ultimo che abbia mai scritto senza inserire se stesso al centro della narrazione.
2 Intervista pubblicata su Stilos, supplemento mensile de La Sicilia, con il titolo Emmanuel Carrère/Narro incubi sociali e pongo quesiti morali il 29/05/2001.
3 Da “La penultima verità”, in Emmanuel Carrère, Propizio è avere ove recarsi, Adelphi, 2016.
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