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Nella costellazione odierna il grande Altro è contro di noi: lasciata a sé stessa, la spinta intrinseca del nostro sviluppo storico conduce alla catastrofe, all’apocalisse.”
Slavoj Žižek, La nuova lotta di classe

Chi ha scelto il compito di muoversi tra le parole della filosofia sa bene che esse non sono che mezzi, scorciatoie verso gli intricati cunicoli sotterranei del significato, portali spalancati sulle realtà che si nascondono dietro la realtà.
Così, Virus (Ponte alle Grazie, 2020), l’ultimo libro di Slavoj Žižek, non parla del coronavirus. Žižek usa l’attuale pandemia di Covid-19 come uno strumento, una trivella per scavare a fondo nelle dinamiche del presente. Un presente oggi più che mai contraddistinto dalla dimensione globale entro cui gli accadimenti si concatenano. Ci troviamo immersi nella «comunità di destino terrestre» teorizzata da Edgar Morin, filosofo della complessità, nel suo Terra Patria (Raffaello Cortina editore, 1994). Volenti o nolenti condividiamo con ogni uomo, con ogni altro essere vivente, persino con gli elementi inorganici, l’appartenenza a un’unica, inestricabile rete. Una rete delicata, iperconnessa, suscettibile, minacciata dall’annichilimento.

Ogni riflessione che non tenga conto di tale indispensabile contributo concettuale è oggi destinata a fallire. Non è un caso che il nostro Žižek situi il proprio sforzo teorico nell’orizzonte della «comunità di destino terrestre». Il suo pensiero si fonda sulla necessità di cambiare il rapporto fra il singolo e il tutto, fra l’universale e il particolare. In Virus prosegue in questa direzione e coglie l’opportunità fornita dalla pandemia per esplorare criticamente questo stesso rapporto. Per Žižek ciò significa mettere in discussione la cultura dominante, l’ideologia capitalista, ovvero il più audace e contraddittorio tentativo umano di asservire il divenire all’essere, di sottomettere la diversità naturale, antropologica e culturale all’omologazione economica.

Certo, sarebbe ingenuo trascurare il tempismo della pubblicazione ma lo sarebbe di contro anche relegarne il senso a una mera cavalcata mediatica. Un filosofo come Žižek non può che sfruttare la crisi multiforme innescata dal coronavirus per evidenziare gli antagonismi che dilaniano la società contemporanea, come già fatto, per esempio, in occasione degli accadimenti dell’11 Settembre 2001 e della crisi finanziaria del 2008. Le crisi sistemiche sono eventi preziosi, sintomi da interrogare per ottenere informazioni decisive sulla malattia che li ha provocati. Esse, in base alla più classica teoria dei sistemi, fanno emergere con chiarezza le contraddizioni insite nel sistema, i suoi punti deboli. Chi conosce l’opera di Žižek riconosce parimenti i suoi superpoteri decostruenti e l’efficacia con cui è in grado di evidenziare controsensi, antagonismi e mistificazioni. La teoria dei cinque stadi del lutto elaborata da Elisabeth Kubler-Ross, lente teorica proposta all’inizio di «Coronavirus», il primo capitolo del libro, è uno degli strumenti concettuali prediletti da Žižek. La teoria descrive gli stati d’animo che un uomo, una comunità o un’intera società, devono attraversare – senza seguirne necessariamente l’ordine o sperimentarli tutti – quando si subisce un trauma o una perdita. Essi sono: negazione, rabbia, negoziazione, depressione e accettazione.

Slavoj Zizek, filosof. En dag v¬gner Luke Skywalker op og finder ud af, at det er ham, der er skurken. Det samme vil ske for pr sident Bush. Det mener den slovenske filosof Slavoj Zizek, som er inspireret af 'Star Wars' og James Bond i sine provokerende analyser af samfundsudviklingen.

Slavoj Žižek

Una delle opere più intense del prolifico Žižek, Vivere alla fine dei tempi (Ponte alle Grazie, 2011), è interamente costruita applicando tale lente alla tematica che gli è in assoluto più cara e che riecheggia in tutta la sua produzione letteraria, Virus compreso: il crollo imminente del sistema capitalistico. Questo, nella visione del filosofo, è latore di un’ontologica minaccia esistenziale per l’umanità e per l’intero pianeta, e materializza la «spinta intrinseca del nostro sviluppo storico» menzionata in apertura. L’insight cruciale è che, come collettività globale, saremmo ancora a cavallo fra negazione e depressione. Ben lungi dall’accettare la realtà senza filtri ideologici, non siamo in condizione di accettare il dramma, superare lo stallo e ridefinire la società.

Il primo passo verso l’accettazione non può essere allora che l’esplicito riconoscimento della possibilità concreta della fine. L’idea che la parabola dell’attuale società neo-liberista, fondata sul mercato, la crescita economica e il progresso, sia in corsa verso una picchiata discendente e che il tonfo potrebbe potenzialmente decretarne la fine violenta e barbarica, non è certo nuova. Rappresenta piuttosto un motivo centrale nel pensiero filosofico e culturale contemporaneo, specie negli ambienti lontani dai cosiddetti nuovi umanesimi («trans» e «post»). Questi, succubi dell’incantesimo tecnoutopico, ripongono i propri sforzi speculativi precisamente nel teorema del progresso senza fine. L’idea che la crescita e lo sviluppo tecnoscientifico forniranno col tempo tutte le soluzioni di cui avremo bisogno per risolvere le criticità riconoscibili oggi e quelle che avranno luogo nel futuro, magari tramite l’ibridazione uomo/macchina, o la connessione dei nostri corpi all’Internet of Things.

Uno dei cardini del lavoro speculativo di Žižek, attorno a cui ruota anche Virus, è il rifiuto di questa retorica e il suo radicale rovesciamento. Progresso e capitalismo sono meccanismi della stessa macchina, e sono proprio le modalità con cui essi intervengono nel mondo ad aver generato la contingenza contemporanea. Una società profondamente diseguale e ciclicamente colpita da crisi multiple e di varia natura. Ognuna di queste crisi riconferma puntualmente la vulnerabilità (sociale, economica, sanitaria ecc.) congenita alla stragrande maggioranza delle persone, di fronte a minoranze sempre più ricche, sempre più ristrette, sempre più dominanti.

È una posizione che Žižek condivide con l’autrice e attivista americana Donna Haraway, il cui ultimo libro pubblicato in Italia, Chthulucene (Produzioni Nero, 2019), affronta il tema del futuro della società muovendosi precisamente dall’imminente prospettiva della sua fine. Nell’opera Haraway si avvale del suo distintivo vigore simbolico quando, per definire l’attuale epoca terrestre, suggerisce il neologismo «Capitalocene», in alternativa all’abusato Antropocene. L’intento è rimarcare come non sia l’Antropos in sé ad aver stressato il pianeta Terra fin quasi all’esaurimento, ma la sua recente versione incantata dal capitale. È il pensiero autoritario, patriarcale, compartimentale e separatista, figlio del positivismo, ad aver legittimato lo sfruttamento umano e naturale che impera oggi nel mondo. Il punto non è cambiare l’uomo ma disfarsi del capitalismo, che l’ha reso vittima di «un’oscura, ammaliata dedizione alle tentazioni del Progresso», in grado di scaraventarlo verso «infinite alternative infernali».

Donna Haraway

Donna Haraway (Artribune.com)

Alternative che Isabelle Stengers sviscera nel saggio In Catastrophic Times: Resisting the Coming Barbarism (Open Humanity Press, 2015), nel quale la prospettiva della fine, da possibilità teorica, diventa processo già in atto nella realtà. Stengers sottolinea l’urgenza di trovare alternative valide al modello socioeconomico capitalista prima che sia troppo tardi. Prima che nella sua insaziabile fame di dollari e petrolio tramuti il pianeta in un’unica distesa di terra bruciata, dove la parola civiltà non sarebbe che un ricordo sbiadito di tempi migliori. Il diktat della crescita si mostra già oggi pienamente irresponsabile verso la cura delle persone e dell’ambiente, risultando criminale nel modo in cui utilizza e distribuisce risorse e ricchezze, e lasciando intravedere una svolta ancora più barbarica per il futuro, a cui sarà necessario resistere. A ben vedere Virus si inscrive perfettamente in questa cornice teorica, come dimostra la previsione di Žižek rispetto all’emergere di una «barbarie dal volto umano», nella quale prolifereranno «spietate misure per la sopravvivenza messe in atto con rammarico e persino affettuoso riguardo, ma legittimate dall’opinione degli esperti».

Le condizioni affinché si realizzi una tale nefasta prospettiva sono evidenziate da Žižek lungo tutto il testo, nel quale rimarca il conturbante senso di fragilità che pervade i paesi notoriamente più ricchi e stabili di fronte a un nemico minuscolo, quasi invisibile. La scienza non è in grado di classificare il virus con certezza fra le creature viventi o fra i composti organici inerti, eppure esso sta minacciando l’annichilimento – la recessione, in tecnocratichese – dell’intera economia mondiale. Proprio in relazione agli effetti inquinanti e distruttivi di quest’ultima sul mondo, si assiste al sorgere di una puerile speranza ecologica, sulla scorta dell’attuale sospensione delle attività economiche non essenziali a causa del lockdown in aree del pianeta altamente industrializzate. Tale speranza è supportata dalle rilevazioni delle emissioni di CO2 effettuate, fra gli altri, dal Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA). L’istituto ha registrato un calo tra il 15 ed il 40% delle emissioni di gas serra nelle aree sottoposte alle misure restrittive, specie la regione dell’Hubei in Cina e nella Val Padana. Questi dati, se considerati insieme alla rapida riconquista da parte di animali e piante di zone urbane o sub-urbane (in realtà, tutta da dimostrare), possono spingere a una riflessione più profonda sull’impatto del nostro sistema economico.

Tali speranze però poggiano su gambe deboli e sembrano più che fatiscenti. Gli esperti avvertono che le economie mondiali, nel loro sforzo per ripartire una volta terminata la crisi, riprenderanno repentinamente a emettere gas nell’atmosfera a un ritmo ancora superiore rispetto al pre-pandemia. La questione è fondamentale, poiché la crisi da coronavirus produce, in piccolo, gli effetti che in futuro accompagneranno l’evoluzione della crisi climatica, che più di ogni altra sembra in grado di portare al tracollo della società contemporanea. La natura esistenziale della minaccia rappresentata dalla catena di reazioni climatiche distruttive – che sono il cambiamento climatico – affiora in modo incontrovertibile se consideriamo che tale catena di reazioni può causare rotture rilevanti nelle reti ecosistemiche e nelle realtà sociali ed economiche, rendendo potenzialmente inabitabili vaste aree della Terra. L’aumento medio delle temperature non è che la punta dell’iceberg di un fenomeno complesso, in grado di ridefinire le condizioni climatiche che hanno permesso all’uomo di sopravvivere e prosperare dagli albori della sua esistenza fino a oggi.

David Wallace-Wells, divulgatore scientifico e giornalista statunitense, condensa e radicalizza i potenziali effetti apocalittici, sul medio e lungo termine, del cambiamento climatico. Nel suo best-seller, dall’eloquente titolo La Terra Inabitabile (Mondadori, 2020), Wallace-Wells mostra come le conseguenze del riscaldamento globale siano in grado di scatenare immani crisi idriche, alimentari, sanitarie e migratorie, più che prevedibili su un pianeta nel quale enormi zone, abitate da miliardi di persone, non saranno più adatte a sostenere la vita. La sua conclusione è che il cambiamento climatico non è una delle tante sfide che dovremo affrontare, ma il contesto totalizzante in cui tutte quelle sfide si incontreranno. Una sfera che contiene in sé letteralmente tutti i problemi futuri del mondo. Ian Dunlop e David Spratt, scienziati di punta del Breakthrough National Centre for Climate Restoration, così sentenziano riguardo le potenzialità apocalittiche latenti del riscaldamento globale: «Even for 2°C of warming, […] the scale of destruction is beyond our capacity to model, with a high likelihood of human civilisation coming to an end».

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Nonostante l’accertata correlazione fra la catastrofe appena tratteggiata e il modus operandi dell’economia capitalista, chi detiene e mantiene il potere grazie ai proventi della macchina economica non ha alcun interesse a favorire un stop alle attività, né per il cambiamento climatico, né per il coronavirus o qualunque altra ragione. La smania di riapertura dei comparti produttivi e commerciali, anche se “in sicurezza”, già ai primissimi segnali di calo dei contagi, lo testimonia ampiamente. È per smascherare queste logiche – e nella struttura puramente žižekiana di Virus non potrebbe essere altrimenti – che l’autore consiglia massima attenzione nel riconoscere la mistificazione ideologica, in ogni sua forma. Questo è un tema cardine nell’intero impianto della critica di Žižek, largamente trattato in almeno tre opere: L’oggetto supremo dell’Ideologia (Ponte alle Grazie, 2014), Dalla Tragedia alla Farsa (Ponte alle Grazie, 2010) e Come un ladro in pieno giorno (Ponte alle Grazie, 2019). Anche in Virus l’argomento è centrale, e si sviluppa tramite una duplice avvertenza: da un lato non bisogna cedere all’allarmismo di fronte alla comunicazione catastrofista strillata da mass-media e istituzioni, confermata dagli strumenti legislativi d’emergenza adottati finora; dall’altro urge comprendere la responsabilità che le istituzioni hanno di salvaguardare la sicurezza dei loro cittadini, pur ledendo temporaneamente diritti inalienabili. Ivan Krasten, giornalista del New Statesman, fa notare che, a differenza del solito mantra recitato in caso di emergenza, ovvero «mantenete la calma», «per contenere la pandemia, la gente deve farsi prendere dal panico e cambiare drasticamente il proprio stile di vita» (Internazionale del 27/03).

Di avviso diverso è il filosofo Giorgio Agamben, teorico dello stato d’eccezione, che ha fatto molto discutere con un articolo pubblicato sul Manifesto, intitolato “Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata”. Sulla scorta dei dati forniti dal CNR, Agamben sottolinea come le misure adottate dai governi appaiano sovradimensionate rispetto all’effettiva gravità del Covid-19. Il fine di una tale esagerazione legislativa sarebbe da rintracciare nelle mire espansionistiche delle istituzioni relativamente al controllo sociale, e nella loro impreparazione. Bisogna senz’altro riconoscere lucidità ad Agamben quando nota che le limitazioni anti-contagio sono state «dettate in chi le ha prese dalla stessa paura che esse intendono provocare, ma è difficile non pensare che la situazione che esse creano è esattamente quella che chi ci governa ha più volte cercato di realizzare» (da «Contagio» in «Una Voce»). Ovvero «che si chiudano una buona volta le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.» (Ibidem). Su questo però Žižek non sembra nutrire dubbi, l’epidemia esiste e la minaccia, in particolare nei confronti dei soggetti più deboli e degli equilibri geopolitici ed economici, è reale. Ciò non vuol dire dover cedere inermi a ogni sottrazione di diritti e libertà che potrebbe esserci richiesta, ma che è necessario fare ricorso a un «lessico più sfumato» (Virus, p. 42). Essere in grado di discernere quali disposizioni sono indispensabili al fine di limitare un aumento eccessivo di contagi e decessi – che potrebbe avere ripercussioni sulla tenuta dei sistemi sanitari – da quelle che invece sembrano superflue, e dunque sospette di essere emanate per un secondo fine.

Per tentare di rispondere efficacemente a sfide globali e complesse di tale portata è cruciale un’altra avvertenza che Žižek propone in relazione alla crisi del coronavirus. Si tratta della necessità di resistere alla tentazione di trattare il virus (o il cambiamento climatico) come un messaggero mandato alla corte dell’uomo da parte di una Gaia bistrattata e inviperita. Farlo vorrebbe dire ricalcare ancora una volta il solco antropocentrico del «tutto accade per una ragione» e dotare di senso, quasi di volontà propria, la pandemia che stiamo vivendo. In sostanza, «se cerchiamo un messaggio nascosto, restiamo premoderni: trattiamo il nostro universo come un interlocutore nella comunicazione. Anche se la nostra stessa sopravvivenza è a repentaglio, c’è qualcosa di rassicurante nel fatto che veniamo puniti – l’universo (o persino Qualcuno lassù) ci guarda…» (Virus, p. 20). Il senso di Virus (e, in generale, dell’intera opera filosofica di Žižek) è che non c’è nessuno che ci guarda, che il Grande Altro è solo dentro di noi. Che le nostre azioni – morto Dio e nato Lacan – sono sotto l’influenza di regole inconsce e indottrinate a cui silenziosamente obbediamo senza riuscire, spesso, nemmeno a riconoscerle. Regole che definiscono le nostre capacità di percepire e fronteggiare crisi ed emergenze.

Il compito del filosofo non si può dunque limitare a descrivere il mondo e le criticità che potrebbero scuoterlo – come ben sapeva Marx, la vera sfida è cambiarlo. Marx continua a ricordarci che non basta evidenziare e decostruire le problematiche insite nel sistema capitalista ma che è necessario fare qualcosa per risolvere quei problemi, per comprendere quelle regole e cambiarle. Lo slogan «potere ai proletari» rappresenta un progetto d’azione, un piano concreto per provare ad arginare i danni che il libero mercato prometteva di causare già all’inizio della sua giovane vita, meno di duecento anni fa. Se c’è un merito attribuibile alla pandemia di Covid-19 è che mette in risalto inequivocabilmente quegli stessi danni. La conclusione a cui giunge Žižek in Virus è che, per arginare catastrofi epocali, bisogna avere il coraggio di perseguire cambiamenti epocali. Le resistenze da superare però sono forti, cocciute, testarde.

Dovremmo stupirci che, nonostante le raccomandazioni della comunità scientifica riguardo le misure di sicurezza per contenere il contagio, molte attività, ben lontane dall’essere essenziali, rimangano in moto? Che milioni di operai siano costretti a non rispettare le prescrizioni imposte dai loro stessi governi, perché ritenute indispensabili le loro attività di produzione di bulloni, parti per macchinari industriali, mezzi militari o chissà quale altra diavoleria superflua e inquinante? Dovremmo restare sbalorditi di fronte al fatto che nessuno si chieda cosa stia accadendo nei territori fra Grecia e Turchia, dove decine di migliaia di profughi di guerra vivono ammassati in condizioni misere e precarie, certamente non adatte alle necessità sanitarie che la pandemia comporta?

Queste resistenze, arbitrarie e discriminanti, all’applicazione dei protocolli di contenimento del virus, devono spingerci a riconoscere la forza degli attori in gioco e le armi di cui dispongono per mantenere intatti i diktat che ostacolano la ridefinizione della società. Armi brandite oggi, durante la pandemia, che potrebbero essere impugnate anche durante le numerose crisi venture. Il messaggio che aleggia lungo tutto il discorso sviluppato da Žižek in Virus è che queste contraddizioni e iniquità non sono inerenti esclusivamente alla «crisi da coronavirus». L’obiettivo allora dev’essere risolvere tali contraddizioni. La priorità: cambiare le nostre società e la loro economia affinché garantiscano un apparato protettivo più esteso possibile. Il progetto: riformulare la civiltà in modo che si dissolvano le diseguaglianze che espongono la maggior parte delle persone a povertà e insicurezza di fronte alle cicliche criticità.

In questa prospettiva l’occasione fornita dalla pandemia è preziosa, poiché ci permette – o forse ci obbliga – a immaginare un «nuovo normale», formula proposta da Žižek in opposizione al «ritorno alla normalità» chiesto a gran voce dalle forze economiche e dalle fasce profonde dei popoli occidentali. Nonostante i governi ci rassicurino che una volta scongiurata la crisi sarà effettivamente possibile tornare alla normalità, le previsioni relative alle perdite economiche, dovute al blocco imposto dal virus e alla crisi sociale che potrebbe scaturirne, dicono ben altro. Il mondo non sarà più lo stesso. La scelta, come suggerito dallo storico israeliano Yuval Harari (in un articolo apparso il 27 Marzo 2020 su Internazionale), sarà fra isolazionismo e solidarietà, tra controllo e fiducia.

Non è un caso allora che il nostro Žižek consideri l’attuale pandemia come una possibilità per provare a plasmare la forma del «nuovo normale», che a prescindere dalla nostra volontà o preparazione ci attende una volta rientrata la pandemia. Il suo appello è volto alla cooperazione mondiale, a una nuova forma di comunismo globale; il cui fine principale deve essere quello di ristabilire condizioni di vita sicure ed eque per tutti gli esseri umani, specie per quelli più esposti, esclusi e vulnerabili.

Virus ci ricorda che l’Universale, l’insieme di condizioni che rendono possibile la nostra esistenza, sta rientrando con veemenza e pericolosità nell’orizzonte delle nostre vite, e che non può essere affrontato direttamente. Che le crisi verranno, ci piaccia o meno, e che bisogna prepararci, risolvere i problemi che possiamo risolvere, intervenire nella dimensione su cui abbiamo spazio d’azione e voce in capitolo. Tuttavia, la soluzione comunista di Žižek non è mai specificata. In Virus si accenna a un «sistema sanitario globale» ma il tutto resta poco più che un progetto, una open call, un processo aperto che va portato a compimento. Alcuni sforzi in questo senso sono rilevabili nelle teorie emergenti dalla più recente corrente del pensiero fondato sulla teoria di Marx, il Marxismo Organico.

Geoff Mann e Joel Wainwright, autori de Il Nuovo Leviatano (Treccani, 2019) tracciano un framework che può aiutarci a delineare i passaggi necessari alla creazione di una società rinnovata. Essi sostengono che l’emergenza climatica porterà la società umana a optare per la sottomissione a un’unica sovranità planetaria. Questa godrebbe di un mandato privo di restrizioni e limitazioni; ogni azione sarebbe lecita di fronte allo stato di emergenza permanente in cui verserà il pianeta. Ciò materializzerebbe una definitiva sospensione dell’ordine giuridico, con tutte le conseguenze potenzialmente oscene, autoritarie e inique che ne potrebbero derivare.

(treccanilibri.it)

(treccanilibri.it)

Per sfuggire a un finale così drammatico, i due studiosi propongono un modello socioeconomico alternativo al capitalismo, similmente al tentativo di Philip Clayton e Justin Heinzekehr, contenuto in Organic Marxism. An alternative to capitalism and ecological catastrophe (Process Country Press, 2014). Ciò che gli autori suggeriscono è che, per affrontare una crisi multilivello e pluridimensionale, come quella causata dal cambiamento climatico (ma lo stesso vale per la pandemia), è necessario un approccio parimenti multilivello e pluridimensionale. Un approccio in grado di adattarsi a differenti contesti. L’unico elemento fisso nella teoria è lo sfondo di cooperazione globale. La reviviscenza del comunismo viene giustificata con l’attenzione riservata ai beni e servizi comuni necessari alla sopravvivenza, tanto degli uomini quanto degli ecosistemi. Questi beni devono essere salvaguardati e garantiti, sempre e per tutti.

Lo sforzo è rivolto a elaborare un sistema planetario interamente rovesciato rispetto a quello contemporaneo. Un nuovo equilibrio globale composto da democrazie territoriali che si rapportino fra loro come soggetti comunisti; un equilibrio dove l’egalitarismo e l’interdipendenza abbiano sostituito la competizione e lo sfruttamento, e il «risanamento» abbia preso il posto della «crescita». Una civiltà ecologica, composta da una comunità di comunità, consapevoli di essere parte di una comunità ancora più vasta, quella terrestre. Dove l’economia divenga uno strumento a esclusivo servizio del bene sociale. Dove il denaro perda man mano peso e importanza, sostituito dalla piena disponibilità dei beni e dei servizi menzionati in precedenza. Dove il lavoro, oggi strumento per la creazione di profitto, si tramuti in azione funzionale al risanamento di territori e comunità. Una società, insomma, che, smontato l’impianto capitalista, sia in grado non solo di abbattere il proprio impatto sul pianeta ma anche di smantellare le condizioni che rendevano possibili, o meglio irrinunciabili, lo sfruttamento, la distruzione e la diseguaglianza. Resta irrisolta la questione riguardo al come un tale onnicomprensivo processo di rinnovamento possa svilupparsi, per azione di quali soggetti e tramite quali modalità. Il discorso è aperto e non potrebbe essere altrimenti.

La forma di Virus, progetto in progress che prevede l’aggiornamento periodico rispecchia perfettamente quest’apertura, e rimarca il fulcro dinamico e in itinere del pensiero di Žižek. Ciò conferma inoltre il suo profondo hegelianismo, che lo costringe a rimanere dentro il processo, a essere il processo, a non poter delineare nulla di definitivo o conclusivo. Žižek continua ad armare i suoi lettori della dialettica aperta, critica e processuale, necessaria per concepire la forma del futuro e dell’irrimandabile rinnovamento sociale che urge oggi più che mai.

Se Lenin, di fronte alle condizioni della Russia Zarista di inizio Novecento, si chiese «che Fare?», prima di brandire l’arma della rivoluzione, Žižek oggi sembra chiederci «Come possiamo pensare quello che dobbiamo fare?». Il passaggio è irrinunciabile, le sfide planetarie che si annidano nel prossimo futuro richiederanno all’umanità il massimo dalle sue capacità concettuali, creative e immaginative. Il contributo di un pensatore come Žižek in questa prospettiva è cruciale, e l’invito a fermarsi e pensare, piuttosto che continuare ad agire ciecamente, è prezioso.

Il tempo però inizia a stringere. Il rischio è che presto non potremo fare proprio un bel niente, se non assistere, impotenti. E l’Orologio dell’Apocalisse segna soltanto due minuti a mezzanotte.

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