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L’ex primo ministro australiano Kevin Rudd descrisse la crescita cinese in questi termini: «La rivoluzione industriale inglese e la rivoluzione informatica globale che creano una combustione simultanea e condensate non in trecento, ma in trent’anni». Oggi entrare nella testa del Dragone significa affrontare le questioni fondamentali del nostro tempo: globalizzazione, nuove tecnologie, rapporto tra cittadino e Stato, mercato dei Big data e 5G. Abbiamo intervistato Simone Pieranni, che con il saggio Red Mirror, uscito il 14 maggio per Editori Laterza, mette in luce complessità e prospettive di un paese il cui futuro ci riguarda sempre di più. L’autore lavora a il manifesto, è fondatore dell’agenzia di stampa China Files e con Giada Massetti del podcast Risciò (Piano P, 2017) sulla Cina contemporanea.

Società agricola, poi fabbrica del mondo, infine hub tecnologico e super potenza. Sarebbe stato possibile durante l’arricchirsi è glorioso di Deng Xiaoping immaginare un cambiamento così forte della società cinese come quello che racconti in Red Mirror?

Potremmo dire che nasce tutto da lì. Le riforme cominciano dopo che, alla morte di Mao nel 1976, Deng Xiaoping conquista il partito comunista per imprimere la sua svolta (che in realtà è stata molto più discussa e contestata, da sinistra, di quanto si è portati a pensare in occidente). La vera accelerazione delle riforme avviene nel 1992, quando Deng fa il suo viaggio a sud dello stato, il polmone delle aperture cinesi. Contemporaneamente allo sviluppo della fabbrica del mondo, però, la Cina comincia a investire in modo massiccio in ricerca e sviluppo puntando moltissimo su scienziati e intellettuali, precedentemente sfavoriti rispetto alle classe produttrici dei contadini e operai. Dagli anni novanta e fino al 2012 in Cina al potere ci sono i “tecnocrati”, ovvero un Politburo formato in gran parte da ingegneri. Non a caso è Hu Jintao, ideatore dello “sviluppo scientifico del socialismo con caratteristiche cinesi”, a modificare per primo l’assetto produttivo cinese: nel 2008, a fronte della crisi economica occidentale, spinge sul mercato interno e sull’innovazione, invitando i cinesi a passare dalla quantità alla qualità.

Oggi la Cina viene associata facilmente ai grandi tòpoi del genere distopico e quasi ci rassicuriamo di una sua lontananza, come se quella larga fetta di mondo non ci riguardasse. Perché servirebbe invece approfondire meglio l’avanzamento tecnologico cinese?

Perché ci riguarda molto da vicino ormai: lo smartphone che usiamo potrebbe essere cinese, così come alcune app (vedi TikTok); le videocamere che ci seguono in ogni nostro spostamento, persino la rete che usiamo per connetterci. O i robot che producono la nostra manifattura. O quelli nei porti e in generale nel settore della logistica. La Cina poi può testare in libertà producendo ottimi strumenti in termini di qualità e prezzo, così come ha potuto migliorare i prodotti grazie alla sua forza sui mercati secondari (Huawei per anni ha dominato in America Latina migliorando moltissimo la proprio produzione, o in Africa, dove la Cina perfeziona le videocamere a riconoscimento facciale). L’utilizzo interno di questi strumenti ingolosisce poi quei governi a cui la democrazia va stretta, che potrebbero replicare il modello dentro i propri confini.

In un capitolo del libro indaghi le contraddizioni lavorative delle nuove industrie digitali, tra il caso dei suicidi alla Foxconn fino ad arrivare alla “cultura del materasso” negli uffici Huawei: qual è stata negli anni la reazione occidentale a questi nuovi sfruttamenti di massa? La cultura del lavoro cinese è cattivo esempio o modello?

Mi interessava dire due cose in quel capitolo: in primo luogo che quel genere di sfruttamento è stato utilizzato e avallato da imprese e paesi stranieri, e che le prime lotte in questi settori sono state in Cina. L’Occidente fino a qualche anno fa (ora gli equilibri sono cambiati) criticava Pechino sul tema dei diritti umani, quando era grande protagonista dello sfruttamento di manodopera cinese, ben sapendo che in Cina i salari erano bassi, che non c’è diritto di sciopero, o che non si può neanche fondare un sindacato indipendente.

Io credo che la cultura del lavoro in Cina sia un fenomeno interessante, perché se è vero che il più delle volte c’è una totale dedizione all’azienda, rimane importante sottolineare come “il cinese” sia tutt’altro che un signorsì. Fino al 2018 gli “incidenti di massa”, come vengono chiamate le proteste (pure i fatti di Tienanmen dell’89 sono considerati tali), erano migliaia all’anno: il primo motivo era proprio la questione lavoro, tra cui l’aumento dei salari, richieste di sindacalizzazione, indennizzi etc. Dal 2018 certo rileviamo anche la centralità della battaglie ambientali, ma sono calcoli di diverse Ong, considerando che il numero di questi incidenti di massa è comunque segreto di stato.

Ampio spazio lo dedichi anche al sistema dei crediti sociali, tema che da noi genera sempre un po’ di confusione: ci puoi raccontare come funziona? A che punto è il suo utilizzo in Cina?

Crea confusione perché ci trasporta subito in distopie ormai mainstream, vedi Nosedive di Black Mirror. In realtà il sistema è inquietante in prospettiva, ma non ancora in quel modo. Più in generale, essendo la principale preoccupazione del PCC quella di mantenere la stabilità, la volontà è quella di creare un ambiente il più possibile “affidabile” abitato da aziende e persone “affidabili”. Per le aziende esiste anche negli Usa, si chiama FICO. Per le persone non siamo ancora a questi livelli, ma alcuni sistemi di rating, di valutazione occidentali (o le informali richieste di buste paga per affittare una casa, ad esempio, o per accedere a un mutuo) al momento non sono così distanti. Chiaro che nella cornice cinese diventano molto più impressionanti. In breve: Pechino punta a creare un sistema unico nazionale, che al momento non c’è, in grado di valutare l’affidabilità delle persone sulla base dei loro comportamenti in sede amministrativa, penale o civica: questi comportamenti possono portare una persona a perdere o guadagnare punti. Il vero problema al momento è la sproporzione tra “colpa” e sanzione: se non pago una multa rischio di non potermi muovere, perché non posso comprare i biglietti del treno, ad esempio.

Nel 2017 Pechino presenta al mondo Xiong’an, modello globale di smart city. Nel 2019 il Financial Times pubblica i Xinjiang Papers, raccolta di documenti interni al PCC che conferma la regione dello Xinjiang modello globale di ingegneria sociale. Quale progetto politico tiene insieme i due “laboratori”?

Il controllo sociale: solo che nello Xinjiang al momento esiste in modo pervasivo e totale, mentre nelle smart city è una possibilità. È uno di quei campi nei quali si sperava che potessero essere attenuati alcuni aspetti securitari, specie in tempi pre-pandemia. Nel libro racconto di un funzionario che si lamenta che il governo centrale pensa solo a quello. Quello che accade nello Xinjiang però è impensabile nel resto del paese, perché la regione è sigillata da anni ed è molto complicato sapere cosa succede. Nel resto della Cina, per fortuna, al momento non è così.

L’ascesa della Cina a potenza mondiale ha rivelato la fragilità dell’associazione diretta e assoluta tra democrazia liberale e benessere economico, così come appare ormai una facile scappatoia pensare a uno stato autoritario come automaticamente arretrato. Su che tipo di equilibrio si regge il patto tra PCC e cittadino? E qual è il punto di vista più adeguato per comprendere l’organicità della società cinese, che da una parte appare “chiusa”, dall’altra profondamente globalizzata?

Il patto tra PCC e cittadino è stato siglato nel 1989 (un anno come vedi fondamentale per capire la Cina di oggi) quando Deng disse “potete arricchirvi ma dovete rinunciare ad alcuni diritti”. La Cina usciva da un periodo di miseria nera e sfascio sociale dovuto alla rivoluzione culturale, e l’idea di migliorare la propria esistenza convinse tutti. Ancora oggi quel patto è fondamentale, ma la guerra dei dazi e il rallentamento economico necessitano di una reazione (da tempo se ne discute in Cina). La società cinese poi ci appare chiusa perché confondiamo i cinesi in Italia con i cinesi in Cina. La Cina in realtà è apertissima, anzi prende tutto quanto ritiene utile, lo fa il Partito, lo fanno i cinesi. Prima del secolo delle umiliazioni era comunque un paese che a livello commerciale adottava sempre una prospettiva globale. Non a caso la sensazione dei cinesi oggi è di essere tornati al centro del mondo, come vuole il nome del paese in cinese, zhong guo (terra di mezzo).

C’era una volta il pivot to Asia di marca obamiana, il tentativo americano di contenere geopoliticamente il risveglio asiatico. Oggi Washington si trincera e cerca lo scontro su più fronti. Tra guerra dei dazi e reciproche accuse, cosa si stanno giocando le due potenze?

Obama ha tentato di gestire il declino americano e anche per questo i democratici – secondo me – hanno perso nel 2016. Obama tentò di contenere la Cina ben sapendo che le due economie sono intrecciate. Trump ovviamente ha puntato la Cina, ma le ha regalato spazi geopolitici che con Obama Pechino si sognava. Il primo atto di Trump è stato affossare il TPP voluto da Obama con i paesi asiatici, ad eccezione della Cina. Così Pechino è tornata centrale perfino per paesi ostili come il Giappone.

Spostandoci sugli avvenimenti più recenti abbiamo visto come persino le cause della pandemia sono oggetto di attacchi reciproci tra Stati Uniti e Cina: che tipo di contromisure ha adottato il Partito per riabilitare subito la sua immagine all’interno del consesso internazionale?

Contromisure sono stati gli aiuti mandati un po’ ovunque. Il problema è che la Cina ancora non ha preso, a mio avviso, le misure della diplomazia occidentale e ha finito per rispondere a Trump in modo confuso, ribattendo con altre accuse contro gli Usa. Un errore che ha finito per porre oggi l’immagine della Cina in forte crisi anche in Europa (vedi anche critiche di Merkel e Macron).

Infine uno sguardo ai prossimi anni: la Cina è destinata a ricalibrare le prospettive di crescita economica? E in quali settori tecnologici spingerà di più?

I dati economici dicono che o ci sarà una redistribuzione del reddito, o saranno guai. Leys diceva che leggere la politica cinese è come leggere inchiostro trasparente su fogli bianchi, quindi non lo so che succederà. Il veicolo a guida autonoma credo sarà il prodotto cui la Cina dedicherà più attenzione, specie per uso industriale (pensiamo ai porti). Quello agricolo è il settore dal quale si dice – almeno, così tutti dicono quelli che ho sentito io – arriverà la “next big thing” cinese.

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