L’East End: un incrocio tra genti di ogni risma
Le camicie nere di sir Oswald Mosley hanno deciso di inscenare una marcia per protestare contro la presenza di una – a loro dire – troppo folta comunità ebraica nell’East End londinese, ma il pomeriggio del 4 ottobre 1936 a Cable Street troveranno a fronteggiarli ortodossi coi cernecchi fianco a fianco con irlandesi, socialisti, comunisti e anarchici. I cinquemila dell’unione dei fascisti britannici, con tanto di scorta della polizia a cavallo, saranno ricacciati a pedate dall’East End riuscendo senza volerlo a unire politicamente culture diversissime tra loro, in quello che fin dal Seicento, con l’arrivo dei tessitori ugonotti, è stato un luogo simbolo dell’incrocio tra genti di ogni risma.
«Si calcola che, fra il 1881 e il 1914, qualcosa come centocinquantamila ebrei siano giunti in Inghilterra: un 70% si stabilì in quello che era stato il cuore della “città” ugonotta, Spitalfields, dove s’intrecciò a precedenti nuclei di correligionari sefarditi. Non erano tessitori come gli ugonotti, ma aprirono laboratori di taglio e cucito in quella che, nella zona, era ormai già una fiorente industria dell’abbigliamento. Gli sweatshops si moltiplicarono ben presto, a Spitalfields, Bethnal Green, Whitechapel: stanzoni cupi, dove lo sfruttamento era alto e alta l’incidenza della tubercolosi; appartamenti soffocanti che di giorno si trasformavano in galere del lavoro a domicilio, femminile e infantile; e tutt’intorno, in strade sempre più congestionate, il lavoro di ciabattini, ebanisti, falegnami, orologiai, tagliatori di diamanti, macellai kosher e panificatori, rigattieri, ambulanti dei mercati di strada (Petticoat Lane!), bottegai, cuochi e albergatori, insegnanti di Talmud, cantori di sinagoga… E, insieme, piccole e grandi sinagoghe, una fitta rete di strutture assistenziali, di mense e di ricoveri – e tanto teatro.»[1]
Nel romanzo di formazione dell’East End, una zona di contatto tra lingue franche dove diversi orienti hanno trovato modo di attraversarsi, confinati a distanza di sicurezza dal resto della città, ben più di una nota a margine dovrebbero avere i racconti e i lavori di Israel Zangwill. Come un etnografo, «il Dickens del ghetto» ha registrato il tracollo e lo «stravolgimento del delicato equilibrio raggiunto dalla vecchia comunità ebraica, detentrice di diritti e di doveri civici e politici, integrata nella borghesia finanziaria e commerciale del paese». Dopo i pogrom seguiti all’attentato allo zar Alessandro II, a migliaia gli ebrei russi arrivano nell’East End, poverissimi e disperati, esercitando «i mestieri più umili» e «rinfocolando sentimenti e pregiudizi razziali» fra gli autoctoni.[2]
Oltre a essere stato un acuto osservatore dei mutamenti sociali in seno alla comunità, Zangwill ha cantato la vita dei fanciulli del ghetto, degli schnorrer e dei ciabattini, e non è certo un caso che sia stato lui a coniare l’espressione melting pot.
Nella Babele londinese, però, l’intreccio fra sottobosco criminale e proletariato urbano è particolarmente aggrovigliato e tende a invischiare chiunque; d’altronde lo stesso Zangwill scriveva misteri della camera chiusa, impressionato com’era dall’eco di stampa che ricevevano gli omicidi efferati di Jack lo Squartatore, dei quali, manco a dirlo, si sospettavano invariabilmente gli ebrei. Era pure difficile rimanere stinchi di santi da quelle parti e a distanza di una decina d’anni dagli assassinii di Whitechapel, nell’ottobre del 1902, si era scatenata una faida che aveva radici lontane fra gli ebrei russi della Bessarabia Society e quelli polacchi della Odessa Society, e le reciproche differenze etnico-religiose ma anche meramente criminali si erano risolte senza chiamare la polizia in una serie di scontri culminati in una rissa colossale allo York Minster di Whitechapel, un pub noto per le music hall yiddish. Tempo qualche anno e al 100 di Sidney Street, a Stepney, sotto lo sguardo delle prime telecamere e di un giovane ministro degli Interni di nome Winston Churchill, sarebbe andato in scena un assedio in piena regola a una banda di scassinatori lettoni, forse anarchici, forse di origine ebraica, che si era rifugiata nello stabile. L’edificio prenderà fuoco e ai pompieri sarà impedito di spegnere le fiamme. Tutto questo succedeva in un’area che più avanti avrebbe visto l’avvento di altri due Jack dopo quello più famoso.
Il primo è Jack «Dodger» Mullins, un piccoletto senza paura di niente e di nessuno che nella Prima guerra mondiale aveva ottenuto una medaglia al valore militare e aveva all’attivo anche una manciata di apparizioni sul ring. Era nato nel 1892, figlio dell’analfabeta di origine irlandesi Louisa Giles e di John Mullins, un confettiere ebreo ma anche un malvivente a tempo perso: uno col coltello facile che si era fatto dieci mesi per aver preso a calci in testa per buona misura un tipo dopo averlo alleggerito di un orologio. Dodger Mullins avrebbe fatto tutta la trafila criminale negli anni ’20 e ’30, dando una mano alle autorità quando si trattava di rompere i picchetti durante lo sciopero generale del 1926 e alzando bei soldi con le corse dei cani; nel suo cursus honorum poteva vantare una lunga militanza nelle imperiali galere da Wandsworth a Dartmoor e una faida sanguinosa con gli Yiddishers, la gang dominante di Alf Solomon, che come tutti i gangster britannici sarebbe stato interpretato da Tom Hardy, in Peaky Blinders. A Mullins invece della gloria postuma sarebbe toccata una morte per una polmonite fulminante: se l’era buscata in ospedale dove era finito per un incidente stradale dopo un tour etilico delle vecchie bettole che frequentava da giovane nell’East End. Era un buon amico dei gemelli Kray.
L’altro Jack era Jack «Spot», per via di una grossa voglia sulla guancia sinistra. Nato nel 1912 col nome di Jack Colmore in quel di Fieldgate Mansions a Whitechapel, un tiro di schioppo dalla Vallance Road dove qualche anno dopo i Kray si sarebbero dilettati a staccare le ali alle mosche nei loro primi fatidici esercizi di crudeltà, era figlio di due ebrei polacchi di Łódź, il sarto analfabeta Alick e sua moglie Rachel Lifschinsky. All’età di sette anni faceva già la guerra di bottoni contro una banda rivale di cattolici su Myrdle Street. Da ragazzo riscuoteva i cinque scellini a settimana dalle bancarelle del mercato per il «fondo dei venditori di chioschi». Chi rimaneva in arretrato si beccava una rasoiata sulle chiappe, chi si rifiutava si ritrovava il carretto sfasciato. Si era fatto una nomea da duro ed era stato reclutato da Morrie «Moisha» Cohen che gestiva il giro delle corse, dopo essere subentrato ai gypsy, e una serie di bische tra Birmingham e Leeds. Quando i fascisti di Mosley avrebbero provato a farsi strada nell’East End, dall’altro lato della barricata, a suonare la carica, ci sarebbe stato anche l’ebreo Jack Spot. Almeno così diceva lui; le cose non erano sempre così chiare nell’underworld londinese. Un suo accolito, l’ex campione mondiale dei pesi welter, Ted «Kid» Lewis, amministrava per suo conto il Fox’s Club, un postaccio malfamato a Soho, e aveva macchiato la sua impeccabile reputazione criminale trovandosi a difendere proprio le camicie nere, a quanto pare bellamente ignaro del loro antisemitismo. Questo reclutamento nei bassifondi era all’ordine del giorno e le porte girevoli fra delinquenza e fascisti porteranno addirittura alla costituzione di un «feudo fascista» di breve durata dentro la multietnica e contesa Bethnal Green.
Per Jack Spot, questo eccentrico reuccio della mala perennemente con il sigaro a un angolo della bocca, i primi problemi arriveranno nel dopoguerra, quando il suo sodale, il rapinatore e futuro mentore dei gemelli Kray, Billy Hill, verrà scarcerato e si metterà a questionare l’andazzo criminale della capitale. I due fino a quel momento si erano spartiti abbastanza serenamente il ricco West End della città. Hill aveva servito diciassette dei suoi trentotto anni al gabbio, aveva un penchant per il mercato nero e lo shiv, la lama artigianale che si costruivano i carcerati. Era stato pizzicato in Sudafrica dove era fuggito dopo aver ripulito un camion che trasportava un remunerativo carico di circa milleduecento paracaduti della RAF. Era riuscito di nuovo a darsi alla macchia, per poi essere finalmente arrestato a Londra e beccarsi una sentenza di tre anni dopo qualche altro lavoretto. Una volta fuori avrebbe realizzato la più grande rapina del dopoguerra britannico, svaligiando un camioncino delle poste a Eastcastle Street nel 1952: un colpo da 287mila sterline. Nella guerra tra Billy Hill e Jack Spot avrebbero fatto irruzione proprio i due gemelli Kray.
L’East End dei fratelli Kray
A ricostruire quel brulicante mondo ormai sommerso c’è una ricca memorialistica, qualche indagine storica che fa le fortune di ogni flaneur che gira per pub scomparsi e finalmente anche un libro appena tradotto in italiano dalla mai troppo lodata Milieu edizioni: Professione criminale: la Londra dei gemelli Kray di John Pearson, inizialmente apparso nel 1972 e poi ripubblicato e rieditato in diverse edizioni fino a quella definitiva del 1995. Da questo esemplare libro di giornalismo vecchia scuola è stato tratto Legend, l’ultimo e forse il più fortunato dei film sui fratelli Kray, con un Tom Hardy in grande spolvero che si sdoppia tra gemello buono e gemello cattivo.[3] Un ritorno sul grande schermo che arriva dopo il tentativo riuscito a metà del 1990 con Gary e Martin Kemp degli Spandau Ballet nel ruolo di Ronnie e Reggie.
Nella Londra primo novecentesca c’era tutta una geografia del crimine: se King’s Cross era la mecca dei ladri e sulle terrace-houses si esercitava la prostituzione, Hackney era nota per i topi d’appartamento e Stepney per i truffatori di mezza tacca. Per i veri criminali però, bisognava addentrarsi come in Oliver Twist «attraverso vie tortuose e anguste» finché non si giungeva «a Bethnal Green; poi, voltando improvvisamente a sinistra», ci si insinuava «nel labirinto di sudici vicoli, di cui abbonda quel quartiere popolosissimo».[4] A Watney Street dove «l’irlandese più povero era sposato con l’ultimo degli ebrei»[5] imperversavano le bande rivali di quelle di Bethnal Green, e le guardie osavano avventurarsi giusto in coppia, quando proprio dovevano.
Secondo una stima governativa del 1932, a Bethnal Green il 60 percento dei bambini soffriva di malnutrizione e l’85 percento delle case era a dir poco insalubre. Non siamo poi così distanti dai tempi delle rookeries dickensiane, e i cockney che non fanno gli impicci (o che si tengono quelle entrate come canale alternativo) sono occupati ai docks o nei mercati. Il nonno per parte di madre dei Kray, figlio di un macellaio ebreo e di un’irlandese, si arrabattava tra i banchi del mercato oppure come pugile, giocoliere, poeta a braccio. Lo chiamavano «Southpaw Cannonball», la cannonata sinistra, e lo conoscevano tutti nell’East End, non solo per il suo mancino, ma anche per essere un astemio militante e un gran narratore: il repertorio era presto fatto, non bisognava pescare le storie chissà dove, se pensiamo che la casa di Hanbury Street dove Jack lo Squartatore aveva ucciso Annie Chapman era proprio dietro l’angolo, e che a qualche porta di distanza erano avvenuti i «Brides in the Bath Murders» di George Joseph Smith che aveva ammazzato tre donne per la loro assicurazione sulla vita prima di essere processato e impiccato. D’altra parte non è neppure un caso che Bram Stoker avesse deciso di far trasferire il suo conte Dracula all’abbazia di Carfax, situata da qualche parte vicino Purfleet, «all’estremo est» negli acquitrini dell’Essex, per lo sgomento del buon borghese Jonathan Harker che però si preoccuperà soprattutto «della City vera e propria e dei quartieri più eleganti di Londra, a sud-ovest e nel West End».[6]
Ronnie e Reggie Kray erano nati nel 1933, e cinque anni dopo la famiglia si era trasferita al 178 di Vallance Road. La madre Violet era la classica matrona cockney, capace di tirare a lucido l’ingresso di una casa disperatamente lontana dall’idea di decenza borghese a cui voleva aspirare, e di coltivare con una dedizione maniacale la passione dei figli per la boxe. I gemelli le erano intensamente devoti.
Il padre era invece un disertore tutto acchitto che bazzicava Southwark e Croydon e vendeva vestiti di seconda mano. Durante la guerra, di tanto in tanto riusciva a intrufolarsi nella casa di famiglia a Vallance Road all’imbrunire per poi sgattaiolare fuori all’alba, sempre all’erta per eventuali Old Bill nei paraggi. Altre volte erano i gemelli a dovergli recapitare i messaggi di Violet, nell’appartamento preso in affitto da un borseggiatore a Southwark.
Cresciuti sotto le bombe tedesche, che solo a Bethnal Green avrebbero sfracellato oltre diecimila abitazioni,[7] l’apprendistato dei due cockney si fa tra il ring – Ronnie era il lottatore, ma quello che aveva le stimmate del campione era Reggie – e le guerre di strada. A sedici anni si ritrovano per le mani il primo revolver da nascondere sotto il pavimento della camera da letto e a diciotto defezionano al primo giorno di leva dal corpo dei Fucilieri Reali, tornandosene al natio borgo a piedi, in tempo per il tè. Il caporale che aveva provato a fermarli era finito al tappeto a cercare di raccogliere la mascella. La mattina dopo, ovviamente, a Vallance Road si erano presentate le guardie e avevano offerto ai Kray l’imperdibile opportunità di essere tra gli ultimi ospiti coatti della Torre di Londra.
Due «diamond geezers», ragazzi d’oro, col capello e le scarpe impomatati, le giacche con le spalle imbottite, lontani dallo stereotipo del «cockney villain» e più simili a mafiosi di Chicago. La loro carriera parte da una sala da biliardo male in arnese, il Regal a Mile End, gestita come una bisca clandestina «con l’aria spessa come la nebbia giù nei docks a Limehouse»[8] e prosegue alle corse dei cavalli di Epsom, veri happening criminali in cui fino a quel momento la facevano da padroni i Billy Hill e i Jack Spot. È quest’ultimo a attirarsi la serpe in seno; i Kray si erano fatti una reputazione e, per non avere guai, la vecchia generazione di banditi aveva deciso di includerli nella partita, evitando uno scontro al quale i gemelli e la loro crescente banda – la «Firm», la ditta – erano già prontissimi. Nel giro di un nonnulla la città sarà loro.
Sono gli Swinging Sixties, Carnaby Street detta moda, ma è ancora un’epoca in cui l’omosessualità è reato nel Regno Unito e i baccanali di Ronnie vengono frequentati anche dalla Londra bene, per esempio erano habitué il conservatore Lord Boothby e il parlamentare laburista Tom Driberg, e sembravano apprezzare particolarmente la pressoché inesauribile scorta di ragazzotti «rozzi ma compiacenti» messi a loro disposizione dal gangster. Anche nel Double R, il circolo di Bow Road gestito da Reggie «in stile East End», entravano solo persone ammodo e celebrità, soprattutto non c’era spazio per gli hooligan. «Qualche volta arrivavano gli zingari e Reggie, memore di avere anche del sangue rom nelle vene, si faceva una bevuta con loro e li invitava ad accomodarsi.»[9] D’altra parte, il gemello Ronnie sarebbe stato convinto da una chiaroveggente di essere la reincarnazione di Attila.
Gli antagonisti principali dei gemelli, in perfetta tradizione, sono due fratelli di South London, i coetanei Charlie e Eddie Richardson, due traffichini che gestiscono uno sfascio di rottami metallici e hanno investito in slot. Un altro capitolo, forse il più sanguinoso negli scontri fra le due sponde del fiume. Per anni si è ripetuto come un mantra che la feroce rivalità calcistica tra West Ham United e Millwall affondi le sue radici nello sciopero del ’26: i dockers del sud di Londra e della Isle of Dogs, tifosi del Millwall e perlopiù scozzesi, avrebbero continuato a lavorare mentre quelli del West Ham, a trazione irlandese, scioperavano; anzi, quelli del Millwall avrebbero perfino rotto i picchetti. Pare che in realtà, come tutte le storie troppo belle in cui c’è un cattivo così tratteggiato – e se c’è una squadra che ben si presta al ruolo del cattivo questa è il Millwall – si sia trattato di un mito: i portuali da un lato all’altro del Tamigi erano tutti uniti nello sciopero generale.
Si è anche sempre detto che da ragazzo Ronnie avesse riportato una brutta contusione alla testa in uno di quegli incontri di pugilato informale col fratello; quelli a cui li spingeva la madre, per capirci. Probabilmente la botta c’entrava poco, ma nel corso degli anni aveva iniziato a soffrire di deliri paranoico-schizoidi. In uno dei periodici soggiorni in cui vedeva il sole a scacchi, l’avevano trasferito al manicomio di Long Grove, a Epsom, imbracato in una camicia di forza: avrebbe stretto un’amicizia fraterna con un calorifero e si sarebbe convinto che il paziente nel letto di fronte a lui fosse un cane; prima che il fratello si scambiasse con lui per l’ennesima evasione.
La leggenda vuole pure che George Cornell, una vecchia conoscenza dei gemelli che aveva osato cambiare bandiera passando coi Richardson, firmi la propria condanna a morte all’Astor Club, il giorno di Natale del 1965, quando si permette di dare del «ciccione di un finocchio» a Ronnie Kray. Tre mesi dopo, la memoria e la Luger di Ronnie non faranno cilecca quando si ritroverà Cornell servito su un piatto d’argento, intento a sorseggiare ale al Blind Beggar. Diversi testimoni oculari lo vedranno lasciare indisturbato il pub ma nessuno aprirà bocca.
Il Sessantotto, che è una delle poche annate ad avere il privilegio di essere scritta a lettere, tra i molti smottamenti della Storia, vede anche una piccola slavina abbattersi sul demi-monde londinese: i due gemelli, «Reggie con una ragazza di Walthamstow e Ronnie con il suo ultimo ragazzo biondo», vengono buttati giù dal letto e arrestati a Braithwaite House dopo una serata passata a bere in compagnia. Il castigo, come lo chiama giustamente Pearson, sarà inflessibile e su di loro si abbatterà l’accanimento dello stato: l’8 marzo 1969 all’età di trentaquattro anni gli viene comminato un fine pena mai. Dal carcere usciranno solo per i funerali: quello della madre del 1982, quello di Ronnie del 1995, e l’ultimo, quello di Reggie, nel 2000.
FREE AT LAST reciterà la scritta sul feretro trainato da sei cavalli di nero piumati che percorreva Bethnal Green Road. In centomila scenderanno a disporsi sulle due ali della via per dare l’ultimo saluto a Reggie Kray in un funerale vittoriano come difficilmente se ne vedranno più. Fuori dalla chiesa di St Matthew si sono radunati in massa, ben due ore prima della funzione. Il pavimento è letteralmente ricoperto di corone e i negozi locali hanno tutti abbassato saracinesca in segno di rispetto. Dopo il rito, il corteo prende la volta del cimitero di Chingford Mount dove Reggie sarà riunito al gemello Ronnie e al fratello Charlie.
L’East End dopo i Kray
Dai tempi dei Kray Whitechapel Road è cambiata molto ma non troppo: laddove sorgeva la chiesa, oggi c’è un parco dedicato a Altab Ali, un operaio tessile venticinquenne originario del Bangladesh, accoltellato a morte nel 1978 mentre tornava a casa con le buste della spesa da tre adolescenti che passavano le giornate a aggredire i «paki». Proprio in quegli anni Farrukh Dhondy scriveva Vieni alla Mecca, una raccolta di racconti in cui la coabitazione coatta e volontaria di prime e seconde generazioni di pachistani e bangladesi e indiani con gli skinhead e gli hooligan autoctoni era tutt’altro che serena.
Come scrive Maffi nella prefazione a Professione criminale: «I laboratori degli ugonotti che avevano conosciuto il duro lavoro degli ebrei diventarono il tormento di un’altra manodopera etnica: cui in tempi più recenti andranno ad aggiungersi autisti e bigliettai dei bus, guidatori di taxi, personale di fatica negli alberghi, cuochi e camerieri nelle curry houses, dettaglianti e commercianti»,[10] quasi tutti indiani, pachistani e bangladesi.
«Lo sai quante ondate di immigrati sono arrivate qui prima di noi? Nel Settecento si rifugiarono qui i protestanti francesi, per sfuggire alle persecuzioni dei cattolici. Erano setaioli. Se la sono cavata bene. Un secolo dopo, arrivarono gli ebrei. Hanno fatto fortuna. Nello stesso periodo sono venuti i mercanti cinesi. Adesso fanno ottimi affari.»[11]
A prendere la parola è Chanu, immigrato bangladese che guarda a chi l’ha preceduto per ripercorrerne le orme nella parte orientale di Londra. Nel 2003, Monica Ali ha scelto proprio quei paraggi per il suo esordio Brick Lane, la storia di Nazneen, promessa sposa di Chanu, che dal fango della terra d’origine viene tappata in un appartamentino sovraffollato di mobili scuri, fino all’arrivo dell’arringapopoli Karim, col suo liberatorio fuoco di sbarramento di discorsi belligeranti di «pseudosocialismo populista».[12] I jeans e le scarpe da ginnastica di Karim ci metteranno poco a finire in naftalina per essere rimpiazzati dalla kurta, e quella che a Nazneen pareva una liberazione sembrerà sempre di più un’altra, nuova oppressione. All’epoca, all’ombra della War on Terror e dell’11 settembre, era stato letto da tanti, incluso Christopher Hitchens, come fulgido esempio narrativo di quanto la religione (l’islam) stesse allargando i suoi tentacoli su intere comunità la cui vita dentro le (nostre) città occidentali scorreva su binari paralleli (lèggi: senza adeguarsi). Oggi, a sembrare più interessante è il vernacolo e il cicaleccio di una vasta città nella città, rappresentato in un romanzo tutto dialogato e troppo spiegato, che ricordiamo più per la capacità di fare epoca che per i meriti letterari.
I residuati bellici della gloriosa stagione hooligan del West Ham – divisa d’ordinanza Stone Island e camminata da orchite alla Danny Dyer – si incrociano sempre meno. Le cctv, l’imborghesimento degli stadi, il lievitare dei prezzi abitativi della capitale e la fuga verso i sobborghi li hanno consegnati all’obsolescenza e ormai è un bel pezzo che l’Inter City Firm non lascia più bigliettini da visita su corpi esanimi di tifosi avversari. Qualche camicia Ben Sherman qua e là nei pub ormai tutti uguali e in franchising testimonia il passaggio della cultura skinhead. Era uno skinhead cockney Joe Hawkins, il protagonista degli orrendi e diffusissimi romanzi veristi di Richard Allen[13] che oggi finirebbero nel calderone young adult. Gli East End Badoes cantavano il miglio quadrato della loro Poplar, i Cock Sparrer rivendicavano We worked our way up from East End pubs to gigs and back stage passes, i 4 Skins preconizzavano l’avvento del Chaos per le strade di East London, i Business ne avevano per tutti, dalla Thatcher ai Suburban Rebels che giocavano alla rivoluzione, ma poi il vero lamento sarebbe arrivato per il calcio moderno e la cessione di Rio Ferdinand dal West Ham al Leeds. L’Oi! è stato per un largo tratto della sua storia, forse fino alle riots di Southall, un fenomeno precisamente localizzabile e al suo vertice c’erano i Cockney Rejects.
I Rejects erano soprattutto due fratelli, Micky e Jeff, figli di un sindacalista portuale (un labour che aveva assistito alla progressiva sparizione del lavoro e poi alla finale chiusura del suo dock) cresciuti tra gli spiazzi ricoperti di erbacce dove erano cadute le bombe nella Battaglia d’Inghilterra. Le battaglie di cui cantavano ormai erano quelle sulle terraces, accanto alla ghenga di Mile End e poi nella famigerata Inter City Firm, in giro per il paese a far danni. La continuità criminale col tessuto dell’East End per loro era un fatto: Jack «the Hat» McVitie – accoltellato a morte da Reggie Kray dopo che la sua fida calibro 32 aveva fatto cilecca – era lo zio del loro bassista.
La rappresentazione del malavitoso dell’East End ormai è cambiata: non più scriminature e brillantina ma capelli rasati a pelle, ai vestiti immacolati si sono sostituiti bovver boots, giacchetti harrington e bretelle, Nel vuoto di potere e di immaginario lasciato dai Kray si inserirà il cinema e nel 1980 sarà un monumentale Bob Hoskins, in Quel lungo Venerdì Santo, a interpretare l’ultimo gangster cockney[14], uno che ha velleità da businessman rispettabile e un piano in tasca per riqualificare i docks con l’aiuto della mafia americana. Dopodiché arriveranno i film di Guy Ritchie e quelli di Nick Love, i Layer Cake e i Rise of the Footsoldier, a rinverdire il fascino e l’attire del bandito dell’East End londinese.
L’East End oggi
Mario Maffi, sempre nella per altri versi brillante prefazione a Professione criminale di cui abbiamo citato ampi stralci, non perde l’occasione (sia mai) di scagliarsi contro «l’insulsa gentrification giovanilista e hipster, o i tenebrosi sentieri turistici che seguono le orme di Jack lo Squartatore» che sembrerebbero aver avvinto Brick Lane e dintorni. Una preoccupazione – quella della gentrificazione e del turismo – che sembra turbare molti suoi coetanei (e purtroppo non solo), sebbene i suoi consigli riguardo a un possibile itinerario diverso per visitare scorci insoliti della Londra criminale siano una piccola guida da tenere accanto alle solite Lonely Planet. Ma in questa riprovazione del commercio forse si perde la quint’essenza del cockney cresciuto a portata d’orecchio dalle Bow Bells: il mercato, l’intraprendenza e la capacità di industriarsi, il wheelin’ and dealin’. Come ricorda Ian Sinclair in London Orbital: «I Kray archiviarono e conservarono qualsiasi brandello di memorabilia. Sono in vendita album strapieni di foto degli anni delle gang. La distribuzione di reliquie approvate dai Kray (benedetta da Reg, dal carcere di Maidstone), è una delle industrie più fiorenti di Bethnal Green».[15]
I bulldozer avranno pure spianato il Bridge House di Canning Town dove suonavano i Rejects e i Maiden, e pure Upton Park, dove generazioni di eastenders hanno visto il loro West Ham, non esiste più, la zona sarà anche stata stravolta e ridisegnata dalle Olimpiadi, ma oggi meraviglia poco che il Carpenters Arms un tempo di proprietà dei Kray offra nel menu anche la birra vegana e che il Blind Beggar dove Ronnie ha giustiziato George Cornell sia diventato un decorosissimo gastropub, dopo essere passato anche per le mani di Bobby Moore, la leggenda di West Ham e Fulham. Le ceneri di Jack Spot sono sparse in Israele e a Peter the Painter sono stati dedicati due palazzi sul luogo dell’assedio a Sidney Street, ma della presenza ebraica in quel quadrante della città resta ben poco dopo il passaggio a nord-ovest intrapreso dagli ebrei londinesi alla volta di Golders Green e Hendon, e allora forse è il caso di riprendere in mano Journey Through a Small Planet di Emanuel Litvinoff per farsi un’idea di cosa fossero quelle strade nel Novecento.
La storia dell’East End, un luogo-limite in cui la borghesia londinese andava con una certa cautela a soddisfare bisogni poco urbani fantasticando di incontri nella nebbia e taverne fatiscenti, un luogo-simbolo dove applicare ricette filantropiche o sul quale esercitare vibranti condanne morali, non può che essere anche una storia criminale (e criminalizzata), a partire dai furti di cervi nella riserva reale di Waltham della Essex gang del brigante Dick Turpin del Settecento e dalle pubblicamente esecrate corse coi tori a Whitechapel, in cui nei giorni di mercato si lanciavano i cani all’inseguimento di un toro per le vie della città. Ma l’East End non era solo vizio e malaffare, anzi: «tendeva a svegliarsi prima del resto della città, e all’alba, la zona diventava una grande piana di camini fumanti. Alla ricerca di manodopera a buon mercato, le fabbriche continuavano a essere installate lì», il che rendeva il quadrante un «terreno fertile per le insurrezioni»[16] e di fatto la culla del socialismo mondiale: c’era il club anarchico di Jubilee Street, frequentato da russi e tedeschi, Malatesta e Kropotkin ma anche Lenin e Trockij, mentre Stalin era stato ospite in una pensione a Fieldgate Street. L’egemone partito laburista locale aveva perfino varato la sua versione del populismo: il «Poplarism».
L’East End dei lupanari per marinai e dei mattatoi puzzolenti, quello pattugliato dalle Black Maria e cantato dai Rejects, quello dei gemelli Kray, dei socialisti e degli anarchici, dei comunisti e dei fascisti, di ebrei irlandesi e asiatici, è stato nell’ultimo paio di secoli un terreno di scontri e disincontri, appuntamenti mancati dove l’incrocio fortuito e miracoloso fra gangsterismo e militanza, tifo organizzato e migrazioni, musica e letteratura, ha creato un ecosistema unico e ancora oggi pulsante di vita. THE MELTING POT IS AT BOILING POINT come recita un murale a Spitalfields. La battaglia di Cable Street è stata vinta.
[1] Da «C’era una volta nell’East End», prefazione di Mario Maffi a John Pearson, Professione criminale: la Londra dei gemelli Kray, traduzione di Marta Milani, Milieu, Milano 2020.
[2] Da «La satira di Dio pesa gravemente su di me», introduzione di Attilio Brilli a Israel Zangwill, Racconti del ghetto, Guanda, Milano 1989.
[3] A questo punto siamo legittimati a dirlo: Tom Hardy è un po’ il Tony Sperandeo inglese.
[4] Charles Dickens, Oliver Twist o la storia di un orfanello, traduzione di Silvio Spaventa-Filippi, Einaudi, Torino 1977.
[5] John Pearson, op. cit
[6] Bram Stoker, Dracula, traduzione e cura di Luigi Lunari, Feltrinelli, Milano 2011.
[7] All’epoca del Blitz, nel marzo 1943, 173 persone persero la vita tentando di accalcarsi dentro la stazione di Bethnal Green, a una breve camminata di distanza da casa dei Kray.
[8] John Pearson, op. cit.
[9]ibid.
[10] Mario Maffi in John Pearson, op. cit.
[11] Monica Ali, Brick Lane, traduzione di Lidia Perria, Il Saggiatore, Milano 2008.
[12] https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2006/06/no-way/304864/ Questo, come molti articoli e saggi di Christopher Hitchens di quel periodo è incluso in Arguably, Twelve, New York 2011.
[13] Pseudonimo del canadese James Moffatt, autore di quasi trecento porcherie simili.
[14] A tal punto cockney che la produzione ebbe la malsana idea di doppiarlo per l’audience americana.
[15] Iain Sinclair, London Orbital: a piedi attorno alla metropoli, edizione italiana a cura di Nicoletta Vallorani, traduzione di Luca Fusari, Il Saggiatore, Milano 2016.
[16] Peter Ackroyd, Londra: una biografia, traduzione di Luca Cafiero, Neri Pozza, Vicenza 2013.
Bibliografia
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Cass Pennant, Congratulazioni. Hai appena incontrato la I.C.F. (West Ham United), Dalai, Milano 2013.
Iain Sinclair, London Orbital: a piedi attorno alla metropoli, edizione italiana a cura di Nicoletta Vallorani, traduzione di Luca Fusari, Il Saggiatore, Milano 2016.
Jeff Turner e Garry Bushell, Cockney Reject, John Blake, Londra 2010.
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