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In Italia, Normal People, secondo romanzo della scrittrice irlandese Sally Rooney, è arrivato nel 2019. L’ha pubblicato Einaudi (trad. Maurizia Balmelli), col titolo Persone Normali e una copertina azzurro cielo che fa da sfondo a una ragazza e a un ragazzo posti l’una di fronte all’altro. Lei è Marianne Sheridan, ricca, solitaria, disadattata e insicura. Lui è Connell Waldron, bello, intelligente, povero e tormentato. Entrambi sono senza padre; entrambi frequentano l’ultimo anno di liceo a Sligo, nell’Irlanda rurale. S’innamorano senza tanti giri di parole, però nessuno deve venirne a conoscenza. Nessuno deve sapere del sentimento che li lega, neppure quando si trasferiscono a Dublino, per studiare – lei Scienze politiche, lui Inglese – al Trinity College.

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Nonostante l’affinità con il legame di Neil (intellettuale povero) e Brenda (bella e ricchissima) – i personaggi della novella inclusa in Goodbye, Columbus (1959) di Philip Roth –, la storia che travolge Marianne e Connell non punta, al contrario dell’opera succitata, a fare satira su un certo tipo di perbenismo che caratterizza le relazioni umane e la società: si tratta semplicemente della narrazione di due inadeguatezze che s’incontrano e che insieme crescono, cambiano, maturano, scoprono il senso della libertà. Rooney, classe 1991, cattura i lettori proprio perché sa tratteggiare la costruzione di un amore disinibito e passionale, puro e autentico, che si trova a fronteggiare i complessi dei suoi stessi giovani protagonisti, definiti «due pianticelle che condividono lo stesso pezzo di terra […], contorcendosi per farsi spazio, assumendo posizioni improbabili». Un amore che è ostacolato da meri problemi adolescenziali: il giudizio esterno, i disagi famigliari, il conformismo e l’omologazione dei coetanei, la sensibilità propria più ad alcuni che ad altri. Sono questi i motivi per cui Normal People, se non avesse quel valore aggiunto, quel quid in più che si identifica nella qualità che trasuda dalla scrittura, appunto potente e vivificante, della sua autrice, non sarebbe poi tanto diverso, per plot s’intende, dai drammi giovanili che con una certa regolarità vengono proposti al pubblico: Sally Rooney fa soffrire, commuovere e disperare i suoi lettori come prima di lei hanno fatto i romanzi, i film e le serie in cui il quarterback lascia perdere la capo cheerleader e prende in considerazione la secchiona del primo banco; il contenuto che propone è semplicissimo e rivolto al grande pubblico, ma il dolore, in una storia d’amore fra teenager, non è mai stato così sofisticato.

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Normal People è una fedele trasposizione di dodici puntate, ciascuna di circa trenta minuti, distribuita da Hulu/BBC (in Italia sarà Starzplay, come annuncia sulle sue pagine social, a distribuirla «in esclusiva questa estate»); la serie è firmata da Lenny Abrahamson (Room) e Hettie Macdonald (Howards End), ed è scritta dalla stessa Rooney insieme ad Alice Birch (Succession, vincitrice del premio per la miglior serie drammatica ai Golden Globe e ai Writers Guild of America Awards). Sullo schermo, gli esordienti Daisy Edgar-Jones e Paul Mescal sono Marianne e Connell: lei ha la frangetta, mentre lui ha gli occhi blu e la catenina d’argento appesa al collo, provinciale, tutt’altro che à la mode e omaggiata dai fan con un profilo instagram che conta già 185mila follower. Abrahamson, una nomination per la miglior regia agli Oscar nel 2016, confeziona un prodotto ben fatto imprimendovi il suo marchio e lavorando per sottrazione: non ci sono virtuosismi in Normal People, né particolari artifici tecnici; le scene sono pulite (come accade nelle pagine del romanzo, dove pure i dialoghi risultano concisi, lapidari, taglienti e ironici), girate, perlopiù, in interni (la camera di Connell, quella di Marianne al college, l’ufficio della psicologa…). L’impressione – e ciò, a maggior ragione, avviene in Room – è che il regista irlandese abbia nuovamente prediletto gli spazi chiusi e claustrofobici per amplificare, di contro, lo spazio psicologico in cui si muovono, irretiti, i protagonisti. Persino la scelta dei colori – sono colori quasi sempre caldi, dal giallo al verde, soprattutto durante le scene ambientate in Italia per la gita a Trieste (in realtà ci troviamo a Stimigliano, in provincia di Rieti) – vuole suggerire le loro ossessioni, la rabbia, l’insicurezza che provano. Questi spazi diventano più aperti solo quando dietro alla macchina da presa subentra Macdonald, ma non cambiano comunque le sottese finalità: anche in mezzo alla vastità dell’oceano, al verde irlandese o al bianco della Svezia i protagonisti appaiono fragili, delicati come canne al vento, dato il contrasto con la natura vasta, ostinata e irrefrenabile in cui si trovano.

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Ad ogni modo, come nel caso del romanzo, anche le considerazioni sulla serie televisiva conducono a una precisa conclusione: nonostante si parli di un amore giovane tra giovani, il prodotto è assai lontano dai teen drama a cui si è spesso abituati. Diversità, quest’ultima, che ruota tutta attorno allo spessore di ciò che pensano, provano, dicono Marianne e Connell, oltre naturalmente alla qualità della messinscena. Anche in The O.C. o in Gossip Girl (di cui si attende il reboot) si ha a che fare con giovani, ma Marissa Cooper, Chuck Bass o Blair Waldorf, al contrario dei protagonisti di Normal People, non studiano mai, non leggono, non hanno una coscienza politica né un pensiero critico sul valore dei soldi che li circonda. Ryan Atwood, attraverso la vita agiata in cui viene precipitato, migliora (e già in questa analogia tra soldi e spessore psicologico c’è qualcosa, non servirebbe neanche dirlo, di profondamente sbagliato), ma quante volte s’interroga sulla sua condizione sociale o, almeno, sul cambiamento che lo travolge? Marianne Sheridan, invece, ai soldi della sua famiglia ci pensa e, con la domanda di borsa di studio, ne fa a meno per accrescere la propria autostima. In Normal People c’è, insomma, uno sguardo profondo, critico, una riflessione nascente anche e soprattutto sul divario economico e sulle classi sociali, visti con gli occhi delle nuove generazioni che, nei cruciali anni universitari, si formano, scelgono e scartano: tutto ciò ne fa una serie consapevole, caratterizzata, paradossalmente, da persone normali, con cui è facile empatizzare. Del resto, i pensieri che animano questi ragazzi sono quelli che potrebbero parimenti animare un coetaneo realmente esistente.

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Tale credibilità, intesa nel senso di concretezza di contenuti, rende la serie pure distante dai titoli del momento. Prendiamo, ad esempio, Sex Education o Atypical: qui i temi trattati sono sicuramente più spinosi di quelli che caratterizzano Normal People (consapevolezza del proprio corpo, della propria sessualità, autismo), tuttavia il discorso viene irrimediabilmente semplificato e trasportato in una dimensione così surreale che alla fine risulta difficile prendere i personaggi sul serio. Dunque, coerentemente con il romanzo, la serie su Normal People, pur trattando temi non impegnati, riesce lo stesso, scavando, appunto, nella profondità dei pensieri dei personaggi, a offrire allo spettatore una visione alta, letteraria, non patinata, reale, poetica, priva delle solite sbavature da film romantico, in cui la natura pop che gli è insita emerge più che altro dalla colonna sonora, che s’incastra senza stonature con i dialoghi, con gli sguardi intensi e la chimica tra Marianne e Connell. Su tutte (nella serie si spazia da Rare di Selena Gomez a Love Will Tear Us Apart di Nerina Pallot; mentre nel romanzo si preferiscono i brani di Sufjan Stevens, famoso per Mystery of love in Call me by your name, e di Belle&Sebastian; in comune tra testo e serie rimane Elliot Smith) resta emblematica Hide and Seek di Imogen Heap; e The O.C., che già la sceglieva per consacrare l’amore tra Ryan e Marissa, diventa un ricordo lontanissimo. Inoltre, se il romanzo predilige i salti temporali e i flashback per raccontare la storia di Marianne e Connell, la serie tv è più lineare nel presentare i fatti, probabilmente nel tentativo di renderla più fruibile. Tra i dettagli della serie assenti nel libro ce n’è uno significativo, ma poi, in linea generale, null’altro, tra libro e serie, differisce, e anche le scene di sesso rispecchiano, con personaggi amabilmente goffi e insicuri, quanto scritto da Rooney: sullo schermo del suo smartphone, Marianne sceglie l’onda giapponese, La Grande Onda di Kanagawa (1830-1831) di Hokusai, anche questa che va in una direzione pop rispetto al testo, un po’ come a rappresentare, nella potenza di una sola immagine, i tormenti che scompongono la sua fragilità, quella di Connell e, sì, pure degli spettatori che quell’amore sono portati a invidiare.

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C’è ancora un dettaglio, la chiave, forse, per comprendere quanto Normal People, come scrive James Poniewozik sul New York Times, vada oltre l’essere un «teen melodrama», e rappresenti qualcosa di più («But more than that, it’s a double-barreled bildungsroman, an empathetic study of two young people coming, together, of age», conclude l’articolo), un raggiungimento della piena consapevolezza di sé e delle proprie relazioni sentimentali: Connell scrive un racconto, nel romanzo non si sa quale sia il suo titolo, ma nella serie sì. Si chiama The Beacon, che tradotto è Il faro, e fa pensare al faro di cui parla la Marianne del film di Ang Lee, tratto dall’omonimo capolavoro di Jane Austen, Ragione e sentimento (1995). «Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento o tende a svanire quando l’altro si allontana. Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai», recita, appunto nei panni di Marianne, una pressocché esordiente Kate Winslet, citando il sonetto 116 di Shakespeare. Tutto torna, insomma: perché Sally Rooney è una moderna Jane Austen. Lo suggerisce il romanzo, lo ribadisce la serie. E in entrambi, l’amore è prima di tutto un incondizionato anelito di libertà.