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Sergio Gilles Lacavalla con Moonlight Motel, Parigi (Wojtek edizioni, 2020) dà vita a un’opera materica, fatta di liquidi umorali e cieli plumbei, nelle strade di una Parigi sanguinolenta. L’impianto di fondo del romanzo è scheletrico, poche le direttive portanti. Il sangue allaga le strade della capitale e Jeanne, donna consumata dagli abusi del marito, vaga annichilita in una città che è guerriglia e concerti, droghe e botte, sesso amore e violenza, in un guazzabuglio dolceamaro di seni gonfi e pistole cariche. Jeanne, Jeanne d’Arc, cerca riscatto e giustizia per un’esistenza altrimenti intollerabile. Lo fa uccidendo, senza sapere quasi mai il vero motivo, né le circostanze dell’assassinio. Una sensazione di spaesamento che investe anche il lettore: Jeanne appare incastrata nella appiccicosa tela della sua mente, vittima sacrificale di una mascella pronta a spalancarsi per inghiottire ogni cosa; allo stesso modo il lettore si riscopre corpo vincolato dai legacci della narrazione, più sbraccia alla ricerca di un senso logico, più si compromette. L’unica strategia concessa, sia ai personaggi sia al lettore, è un abbandono totale. Perché quella di Jeanne è una guerra priva di significato, una battaglia asserragliata dal bisogno: è una guerra dei corpi per l’amore, quando tutto il resto ha fallito.

Nella guerriglia, a fianco di Jeanne, ci sono pochi personaggi sul crinale di un’umanità che si sfalda, in una città in cui rimbombano gli abusi di una polizia di Stato assassina. Sotto un cielo basso e puntellato dall’odore del sangue e dalla polvere da sparo, Jeanne ha un amante di nome Gilles. Gilles è il luogotenente della guerra, un criminale, un innamorato, un terrorista, un ex poeta. «È stata proprio la sua poesia, nient’altro che la sua letteratura, a fargli scegliere, infine, la guerra e la violenza. Come se a forza di scrivere avesse capito che agire è l’unica soluzione». In piena armonia con il resto del libro, anche di Gilles è difficile dire se sia un bandito o un giustiziere. Poi c’è Milla, la bambina dell’appartamento accanto a quello di Jeanne. La ragazzina porta avanti con costanza la sua battaglia di epurazione dal cibo, vomita via la sua infanzia violata dai soprusi del padre. È anche colei che raccoglie le memorie di Jeanne, e che comunica con lei attraverso canzoni di compassione e ribellione diffuse dal suo appartamento. La vita di Jeanne si snoda, poi, in incontri fortuiti e strade malmesse, lotte di quartiere e concerti di musica rock. Dal caos di queste esperienze emerge, a volte, la chimera di un ricordo inventato, il Moonlight Motel: un non-luogo, un albergo ai fianchi del deserto e sulla bocca del mare, nel quale Jeanne si rintana. È il luogo in cui l’amore è senza colpa, in cui i corpi si sfregano e i liquidi esondano senza vergogna, un posto fatto di aria in cui Jeanne si rigenera e la narrazione respira. Nel motel la stanza stringe gli innamorati e il vento spazza la sabbia, gli orgasmi scuotono i corpi. È una faglia in una storia fatta di ingorghi, grumi di sangue e fotomontaggi.

All’interno di questo scheletro, infatti, la rete del romanzo si affossa sotto il peso di un materiale narrativo variegato: sulla scena di guerra si accalcano icone pop e personaggi del racconto, gettati in una mischia che falcia tutti senza distinzioni.

Io vorrei crollare nel bacio che ho inghiottito in una frase inutile, come quando, da bambina, per non piangere, masticavo e mandavo giù un pezzo di pane, abbassando gli occhi arrossati. Ma ora li tengo alti su Nick Cave: canta di un tunnel che conduce al mare, la notte si espande. Il cielo si dilata, ancora non sentiamo il rumore degli elicotteri sopra questo cielo da concerto che si allunga verso il mare o ovunque vogliamo: è un’evasione oppure un suicidio.  […] Intanto Gilles ha preso la pennetta della chitarra che PJ Harvey gli ha regalato prima di lasciare la scena – si è chinata per salutarlo con un bacio leggero sulle labbra – e la dona a me. Usciamo passando davanti al camerino della cantante: la porta è accostata; dentro, PJ è sola e sudata, si è tolta la blusa, ha una sottoveste bianca, ancora la gonna.

La storia imbriglia le icone pop e le piega ai suoi bisogni: alcune rappresentano se stesse, agiscono in quanto personaggi storici realmente esistiti che vagano all’interno del labirinto urbano costruito da Lacavalla, protagonisti di un gioco di stanze rocambolesco; altre icone pop sono, invece, simboli, maschere greche rappresentative di concetti, umori, stili di vita. Quei nomi non si riferiscono più ai personaggi storici, ma sintetizzano uno scenario folkloristico di cui l’autore si serve. Viene creato in questo modo un codice di comunicazione diretto in cui, di nuovo, sono corpi e nomi propri a esprimere concetti. Così, nel racconto appare una certa “Christiane F.”, una ragazza tossicodipendente che diventa fin da subito amica di Jeanne. Lacavalla decide di utilizzare quel nome non per indicare la vera Christiane F., ma per richiamare alla mente una storia senza il bisogno di pronunciarla.

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La prosa di Lacavalla assomiglia, quindi, a un prosaico assemblage in pieno stile New Dada, il movimento artistico che ha portato a nuove associazioni visive e concettuali grazie alla convivenza tra campiture, oggetti di vita quotidiana ed elementi derivanti dalla cultura di massa. Analogamente, sulla pagina di Moonlight Motel, Parigi si imprimono film, musica rock, immaginari, storia e materiale narrativo. Questo fotomontaggio di piani diversi della realtà provoca una trasmigrazione di significati: le icone pop imprimono il loro marchio sulla realtà narrata; dall’altro lato, a volte, i personaggi del racconto prendono a prestito dalla cultura di massa maschere pop da indossare all’evenienza.

Il collante che permette questa convivenza è rappresentato dal discorso sul corpo. Ogni situazione, relazione e paesaggio soggiace alla tracimazione di liquidi corporei, vera materia delle “campiture dell’autore”. I personaggi, storici o inventati, sono legati tra loro in qualità di contenitori di un qualcosa che straborda oltre il perimetro della pelle, il succo nauseabondo e dolcissimo di ciò che resta al di là dei confini della logica. E tutti partecipano, perché tutta la realtà è ridotta a un gioco di anoressia e bulimia: lo straripamento dei liquidi è sia catarsi interiore sia completa accettazione; annullamento dell’altro e annullamento di sé nell’altro. Gli umori corporei sono allora slanci di vitalità e lesioni, scorie e balsami. Questa dinamica di rifiuto-accettazione sembra tutta riassunta in questo passo:

Nessun sole potrà mai bruciarmi. Il sole non esiste più. Oscurato dagli elicotteri e dalle nuvole spesse della violenza. E dal soffitto di questo appartamento. L’odore forte del mio sesso fradicio mentre mi masturbo guardando la scena della battaglia. Il fronte è un teatro e le band sono i tamburini di guerra armati. Le bande reggimentali combattenti. Il sangue cola dalla mia vagina penetrata dalle dita con una forza tale da ferirmi. Io sono Jeanne d’Arc. E non è vero che sto combattendo solo per me. Lui non mi convincerà. Parla del mio egoismo. Una pozza di piacere tra le mie cosce affoga un poliziotto che cerca di leccarmi la fica. Non sto combattendo soltanto per il mio schifo matrimonio e per questo liquefarsi della mia vagina e perché lui fuma e non mi lecca la figa: così non può affogare. Gilles vorrebbe che gli venissi in bocca con un torrente di umori, troverebbe dolcissimo e romantico che gli pisciassi in bocca, liquido di orgasmo, urina e pioggia. Gilles non annegherebbe mai. Neanche nel fiume della battaglia gonfiato dal temporale, dal sangue e da questo mio piacere intimo.

Questa orgia di umori è solo materiale pittorico per ispessire e rendere visibile l’invadenza di una dinamica strutturante: tra amore e violenza non c’è limite definito, è fragile la frontiera tra la con-divisione del sé e l’invasione dell’altro. All’interno di questo scenario, il Moonlight Motel rappresenta un’oasi in una terra rasa al suolo, un luogo, solo estemporaneo, in cui le carezze non si trasformano in spinte e nessuno annaspa nell’atto d’amore. E allora meglio «abbracciarsi per finta e scoprire che era per davvero. Inventiamoci un passato. Un passato lontano che porti a oggi».

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