Non è più una semplice promessa l’esordiente Claudia Petrucci, trent’anni, expat in Australia ma milanese di nascita; è giusto considerarla un’autrice che ha raggiunto diversi traguardi: i diritti di L’esercizio (La Nave di Teseo, 2020) venduti in numerosi Paesi, le traduzioni in corso in Francia e Germania, il recente premio Flaiano Giovani.
I pochi lettori che ancora non la conoscono, possono facilmente rinvenirne le tracce in rete, e in particolare attraverso i racconti apparsi su inutile (una coraggiosa riscrittura della Metamorfosi di Kafka, in cui è protagonista un poster pubblicitario), su minimaetmoralia (un reportage su alcuni pittoreschi italiani che si reinventano nel quinto continente), o ancora nei racconti di fantascienza e weird apparsi nelle antologie Prisma e WoW di Moscabianca edizioni.
Una caratteristica della scrittura di Petrucci, evidente in queste prime prove, è la facilità dell’invenzione, una fantasia mobile che si presta a un uso ritmato della sintassi e della lingua e che procede veloce per immagini, con accelerazioni e brusche frenate, scandite da una fitta compresenza di narrazione esteriore e monologo interiore. La corporalità e la visceralità, in particolare, emergono nette come cifre di interpretazione degli eventi, messe in primo piano, mostrate come causa dell’innalzarsi della temperatura della pagina. I personaggi di Petrucci, reali o fittizi, sentono fortemente e sono trascinati nell’agire dalle loro sensazioni e dai loro sentimenti.
Nell’approccio alla forma romanzo Petrucci sembra voler disinnescare, almeno in parte, l’efficacia del suo metodo, rallentando per dilatare la narrazione, raffreddando il calor bianco che ci si aspetterebbe da lei. È nel prologo di L’esercizio, tuttavia, che la ritroviamo nella miglior forma, in un «Antefatto» che è quasi una summa dell’intero libro, la chiave per comprenderlo e un bugiardino della condizione clinica che stiamo per scoprire. Tutto l’antefatto è incalzato da un fremito d’ansia, un horror vacui, una tentazione di riempire ogni vuoto, colmare di parole ogni situazione, iperconnotarla. Costantemente e febbrilmente giostrato su due piani (non due registri, non due stili, ché invece la costanza è apprezzabile dalla prima all’ultima pagina) e i due piani in questione sono quelli della realtà e dell’interpretazione della realtà. E questa duplice disposizione dà largamente conto di pensieri, ipotesi, fantasie, ricordi, innestandoli sul presente continuo degli eventi.
Qui, in una fuga prospettica di piani, il narratore-Filippo (imperfettamente onnisciente) descrive le vicende esteriori della sua compagna Giorgia, le improvvise fughe dei suoi pensieri, ricorsivi e no, le sue interazioni con la realtà sempre affiancate/parallele all’immaginazione.
«Giorgia non riesce a frenare i pensieri, è sempre stato così […] per lei la realtà circostante scorre a un’intensità maggiore, è più vivida, come certi sogni prima di svegliarsi al mattino. Nella sua mente proliferano quantità di elaborazioni ideali sulle vite di questa gente che non incontrerà mai più, immagini delle attività che la occupano nell’esistenza privata».
Come in un calco ben riuscito, anche la narrazione dell’osservatore Filippo si sdoppia su più livelli, conducendoci per mano dentro e fuori la mente di Giorgia. La routine stanca della loro esistenza («Facciamo una vita da vecchi») è interrotta da un elemento di disturbo che farà collassare il loro universo: il ritorno di Mauro, regista, che propone a Giorgia di tornare a calcare le scene. A collassare, per l’esattezza, è la psiche di Giorgia che, già in delicato equilibrio, preda di allucinazioni ricorrenti, non regge lo stress di un’immedesimazione troppo intensa. Ha una crisi psicotica, finisce in un ospedale psichiatrico, catatonica.
Fin qui la trama sembra avere il tono di un romanzo realistico, che potremmo acuire sottolineandone l’ambientazione nella periferia milanese, in un contesto di solitudine scandito dal lavoro e dalla frustrazione delle ambizioni. O scavando nel dettaglio nella psicosi della povera Giorgia.
Ma il romanzo di Petrucci poggia su un’impalcatura sostanzialmente diversa. Perché Giorgia ritorni alla vita è necessario che le siano instillati i ricordi, che le sia disegnata intorno un’idea di normalità concretizzata da pratiche e abitudini. Ci penseranno Filippo e Mauro, in un’alleanza dal sapore mefistofelico ad onta delle migliori intenzioni professate. Giorgia diventa nelle loro mani materia da plasmare, pura disponibilità, una bambola inerte. L’esercizio del titolo è l’impossessamento di una personalità e la direzione registica di una vita, quella di Giorgia.
Vengono in mente le considerazioni di Giacomo Debenedetti a proposito del Mattia Pascal, incentrato sulla disponibilità del soggetto come categoria fondante, qui visto quasi come il prerequisito di ogni relazione (ogni relazione rischiando di deviare in manipolazione). Quella che viene messa in atto è, appunto, una situazione da dramma pirandelliano o anche, com’è nelle corde dell’autrice, da fantascienza.
Non a caso tra le pagine è citato Solaris di Stanislaw Lem: un libro di science fiction in cui un esercizio incomprensibile da parte di un pianeta alieno apre infiniti varchi di dubbio sulla coscienza e l’esperienza umane.
Non solo. Nel romanzo sono continuamente disseminate minuscole notazioni, come indizi minimi dello scollamento dalla realtà (e da un realismo che starebbe troppo stretto a Petrucci): così la clinica in cui è reclusa Giorgia è asetticamente separata dal mondo reale, quasi un’astronave in rotta controllata; la casa di Mauro è, superato il cancello, «come un mondo parallelo»; «La tavernetta è una zona affrancata dalla realtà, come l’intera casa di Mauro e come gli spazi delle scuole». Il teatro, così centrale nel testo, ha la consistenza di un non-luogo: «Vuoto, privato della sua funzione, il teatro si manifesta per ciò che è realmente – una fuga, un regno fantastico […]».
L’inanità della premessa, l’immersione in un desolato circondario industriale fatto di capannoni e di deserto relazionale, giustifica il passo lento ma inesorabile che ha il procedere degli eventi. Le pagine scorrono, anche se la suggestione potente e conturbante dell’antefatto è come diluita, per approdare a un finale inevitabilmente amaro (e circolare).
Giorgia è la creatura contesa tra i due protagonisti, unico punto di contatto tra due personaggi molto diversi tra loro. L’osservatore, Filippo, è un infelice, un irrealizzato. La sua cifra è l’abitudine, gabbia ma anche regola. È un uomo che tende a trascinarsi per inerzia, in attesa di un imprevisto che gli porti un cambiamento (è anche lui, a suo modo, disponibile a incarnare una funzione). Mauro, invece, ha la capacità di orchestrare il dramma, di ricoprire insieme il ruolo di incidente scatenante e deus ex machina. Mauro manipolatore di destini, demiurgo, forgiatore di materiale umano. Davanti a lui Giorgia si immobilizza con paura, anzi con «il presentimento rassegnato delle prede troppo lente».
Filippo ha dalla sua la potenza dell’innocuo, la sicurezza della stasi, ma si rivelerà incapace di uscire dal recinto delle proprie miserie. Mauro ha l’intemperanza e l’arbitrio, l’intraprendenza e il comando: si rivelerà il burattinaio perfetto. «I registi vogliono essere Dio», dice. E, in un modo contorto e in parte fantascientifico, è esattamente ciò a cui assistiamo.
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