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«Non sono un giornalista o un critico gastronomico, con tutto il rispetto per i giornalisti e i critici gastronomici: non riesco a grattarmi la testa pensando a ciò che mangio e a ciò che bevo. Per giunta, non credo di avere un palato particolarmente fine». Così si presenta Tommaso Melilli all’inizio del suo libro, I conti con l’oste (Einaudi, 2020), che ha come sottotitolo “Ritorno al paese delle tovaglie a quadretti”: dove il paese delle tovaglie a quadretti è l’Italia e il ritorno in questione è quello dell’autore dopo dieci anni passati a Parigi, di cui sei a lavorare in cucina. Melilli è un concentrato di modestia e rispetto (ma lui giura che, quando lo chef è lui, è tutta un’altra storia), che sa entrare in una cucina in punta di piedi e osservare quello che succede al suo interno senza farsi notare (a parte poche eccezioni, come la volta in cui ha rovesciato una teglia piena di grasso sulla schiena di un malcapitato). Non è un critico gastronomico perché non si siede a tavola a mangiare prendendo appunti su sapori e consistenze, forse lo si potrebbe definire piuttosto un divulgatore gastronomico per come sa spiegare le cose che succedono nelle cucine, in particolare in quelle in cui lui ha lavorato per qualche giorno o settimana al fine di scrivere questo libro. Il modello dichiarato di Melilli è Anthony Bourdain (lui pronuncia sempre alla francese – Burdèn): il titolo di un capitolo del libro, “Carbonara confidential”, non può che essere un’allusione a Kitchen confidential – avventure gastronomiche a New York, che quando uscì in Italia nel 2002 (cioè prima che la cucina diventasse una moda globale) venne curiosamente pubblicato da Feltrinelli nella collana “Traveller”.

I conti con l’oste è un libro che incrocia vari generi, un po’ diario di viaggio, un po’ manuale di cucina, forse anche un po’ autofiction… mi chiedevo come lo vedi tu e come vorresti che venisse idealmente letto.

Come autofiction no perché è abbastanza veritiero. I miei riferimenti sono principalmente americani, inglesi o comunque anglofoni. L’idea era quella di fare una non fiction novel, un romanzo del reale. Per me l’operazione è completamente letteraria, rispetto ad esempi europei e più vicini a noi non vedo una grande differenza rispetto a quello che ha fatto Carrère con Limonov, l’operazione è più o meno la stessa solo che c’è in più una parte di viaggio. Volevo fare un ragionamento su un genere ben preciso, cioè la non fiction letteraria che ho studiato molto e che mi appassiona. Io per anni ho letto queste cose, saggi o viaggi o riflessioni di media lunghezza, che mi sembrava che avessero un contatto con la realtà molto più stretto rispetto alla narrativa di finzione e volevo misurarmi con questo genere. Ne è venuto fuori un libro che a un italiano fai fatica a spiegare cos’è, mentre per un lettore americano colto è del tutto evidente.

Questo libro è anche il manifesto di un’idea di cucina…

È a metà tra un manifesto e un manuale, direi. Mentre lo scrivevo pensavo tanto a un ragazzo giovane che vuole aprire un locale in Italia, magari in una provincia simile a quella da dove vengo io, e non conosce tutte le idee che si stanno sviluppando, le cose nuove che si stanno sperimentando in giro perché l’Italia è un paese molto sparpagliato, non è come in Francia dove se succede qualcosa succede per forza a Parigi. In Francia ci metti un quarto d’ora in bicicletta ad andare a trovare quello che si è inventato qualcosa, in Italia è molto più complicato. Quindi il libro vuole essere nascostamente anche un manuale, se un giovane vuole fare quella roba lì nel libro ci sono degli esempi diversi per capire cosa ti somiglia di più.

Come hai cominciato a cucinare?

Era una tentazione che ho avuto a lungo, volevo fare lo scrittore da quando avevo 14 anni e faccio il cuoco da quando ne avevo 23. Scrivere non ne posso fare a meno e mi tocca farlo, cucinare e accogliere le persone mi rende felice quindi lo faccio anche per egoismo, paradossalmente.

Quindi per te cucinare è un’attività complementare alla scrittura.

Sì, senza pensare di essere bravo in nessuna delle due cose anche se sono consapevole di scrivere meglio di come cucino. È una cosa che ho trovato anche in Anthony Bourdain dopo anni che lo dicevo di me stesso. Proprio pochi giorno dopo che lui era morto ho scoperto che l’aveva detto anche lui su di sé e mi è venuto un colpo. Bourdain mi ha proprio aperto un mondo, io non ho oggettività rispetto a lui perché per me è un classico e in quanto tale non si discute. In tanti mi hanno detto che il paragone tra me e Bourdain è improprio perché lui era un dissennato, i suoi libri sono pieni di sesso e violenza mentre i miei no ma in realtà io alcune cose ho solo scelto di non raccontarle… Io ti racconto tutte queste cose in un modo un po’ edulcorato, ma se tu fossi nella mia cucina mi percepiresti come brutale o duro nel dire le cose perché se sbagli a cucinare qualcosa, se servi del pollo mezzo crudo la gente poi sta male e non è che ci sia tanto da girarci intorno, non deve succedere e basta.

Il tuo modus operandi mi ha ricordato quello dei grandi documentaristi, nascondersi in un angolino con la telecamera e osservare in modo che ci si dimentichi completamente della loro presenza.

Sì certo, nel mio caso poi senza la telecamera era anche più facile, ero vestito uguale e magari la metà della brigata non sa neanche chi sei perché in quelle cucine lì c’è uno stagista nuovo ogni giorno che magari dura un giorno e mezzo. Non tutti hanno necessariamente voglia di fare amicizia e poi i cuochi sono in genere burberi e asociali.

Il capitolo iniziale è molto diverso dagli altri, è il racconto di un torneo di calcetto tra ristoratori che si tiene ogni anno a Parigi: perché hai scelto di cominciare il tuo libro proprio in questo modo?

All’inizio di questo libro io dovevo raccontare chi ero, perché secondo me quando si racconta una storia vera bisogna sempre spiegare al lettore chi sei e dirgli “il mio mondo è questo, io vengo da qui”. E poi partiamo. Questo mondo deve essere anche seducente e intrigante, quindi mi è venuta in mente questa cosa e mi è sembrato che potesse riassumere da tanti punti di vista quella che è stata la mia vita per molti anni. Poi nella tradizione italiana i grandi scrittori di cibo sono stati anche grandi scrittori di sport e viceversa, quindi per me era un modo per segnalare il mio desiderio di appartenere al lignaggio di questi autori italiani che sono anche abbastanza dimenticati dalla stampa gastronomica e sportiva contemporanea. Sono stato molto felice che Gianni Mura se ne sia accorto, proprio poco prima di morire: pensa che è morto il giorno dopo aver recensito il mio libro. Il venerdì ho visto la recensione in cui diceva che ero uno scrittore di cibo allargato che si poteva sedere al tavolo di Veronelli, Soldati e Brera (e quindi anche al suo), e il giorno dopo mi sono svegliato con quindici messaggi sul cellulare che mi dicevano che Mura era morto.

È nata così «Pentole e parole», la tua rubrica sul Venerdì di Repubblica?

La rubrica col Venerdì in realtà la stavamo già negoziando prima, Mura aveva dato il suo benestare. Ma poi è successo tutto molto velocemente, lui è mancato e quasi contemporaneamente hanno chiuso anche i ristoranti. Non sono ancora riuscito a raccontare questa storia in nessun modo, è stato tutto talmente assurdo e doloroso. Non l’ho mai conosciuto ed è un peccato, perché è una persona dalla quale avrei potuto imparare molto. Vorrà dire che continuerò a farlo leggendo quello che ha scritto.

Il tuo ritorno in Italia è provvisorio o definitivo?

È mediamente provvisorio o mediamente definitivo, sono a Milano e vorrei cercare di aprire qualcosa qui all’inizio del 2021, per avere il quartier generale di un’idea, un luogo in cui far girare le idee che ho messo nel libro. Ma se non ci riesco tornerò a Parigi. Mi sarebbe piaciuto continuare a fare due settimane qui e due là come stavo facendo ultimamente, ma non si può più per ovvi motivi. Alla fine per noi expats è molto difficile scollarsi dal luogo di origine, abbiamo la lingua, abbiamo diritto di essere espatriati sia socialmente che giuridicamente, siamo riconosciuti anche se con qualche minimo razzismo ma per andiamo bene così come siamo, metà una cosa e metà un’altra. Quindi per me vivere metà in Italia e metà in Francia sarebbe stata la soluzione ideale. A questo punto, invece, probabilmente mi toccherà fare una scelta.

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