Io la prima volta in piscina m’ero convinto
che l’acqua sapesse tutto, che non le si potesse mentire
Contrariamente al Nuotatore di Cheever, che compie il tragitto verso casa tuffandosi in una sfilza di lussuose piscine, per ambientare i racconti della sua raccolta Gli effetti invisibili del nuoto (Edizioni Hacca, settembre 2020) Alessandro Capponi sceglie di attingere a un’unica e più prosaica fonte, una piccola vasca nella periferia Casilina di Roma. Talvolta discostandosene, ma sempre per ritornarvi, la narrazione fluisce completamente immersa in una prospettiva acquatica, un punto di vista ideale per osservare da vicino, con tenerezza ed empatia, le fratture e le fragilità di un’umanità alle prese con i propri momenti di crisi.
C’è Alfredo, vedovo da poco, che in piscina scopre di potersi smarcare dalla corsia cui la vita sembrava averlo condannato; Beatrice, che si ribella all’autocontrollo che tutti si aspettano da lei mulinando bracciate in mezzo alla folla, a casa, in ufficio; Tino, braccato dalla polizia per il suo «autismo militante» e trasportato dall’acqua piovana in un surreale viaggio per la città; Bruno, col suo timbro da speaker radiofonico e una malattia a sabotarlo da dentro, al punto di rimpiangere il nomignolo affibbiatogli dai compagni di vasca, un tempo subito con fastidio.
Per tutti questi personaggi nuotare non è soltanto un’evasione dal caos della vita quotidiana, ma un rituale attraverso cui recuperare la propria vera natura. In tale prospettiva, la piscina, coi suoi tonfi sordi e le eco smisurate, diventa il tempio della liturgia e la terraferma un ambiente estraneo al quale si torna controvoglia, come in prestito. Dai blocchi numerati, dalla scaletta cigolante si accede a una società silenziosa e testarda che contempla il proprio segreto pitturato sul fondale e in cui vigono un lessico specifico, dei gesti precettati, una separazione rispetto al mondo di natura quasi magica:
Le tornò in mente un ricordo d’infanzia: suo padre che la accompagnava in una piscina all’altro capo della città, con quegli spogliatoi di due metri per uno con una porta per entrare di qua e una per uscire di là, e lei vedeva questi genitori che entravano vestiti in quel modo solenne, le giacche e le cravatte, e ne uscivano nudi o quasi; e a lei, che aveva sette anni, sembrava un gioco, una giostra di carnevale, una magia.
Benché la ricerca di Capponi sia sempre focalizzata sugli esiti salvifici del rapporto intimo con la dimensione acquatica, la leggerezza del suo sguardo gli impedisce di scadere in ricette terapeutiche o in consigli spirituali in forma narrativa: non vi si trova mai l’ossessione dell’agonista, né la saccenza dell’asceta o il furore del convertito. L’attenzione è tutta sui mutamenti minimi che la pratica del nuoto – non importa se costante o saltuaria, ortodossa o eretica – proietta immediatamente sui gesti, sull’incedere, sulla fisionomia, perfino sullo spazio circostante («ora che di colpo era in riva a lei», «Tino era tutt’ossa ed era cresciuto e da qualche tempo si era trovato libero ai bordi del mare»), insinuandosi sottopelle e riverberando i suoi effetti a distanza di anni.
La meraviglia della piscina è tutta in una specie di leggenda che alcuni istruttori amavano raccontare, probabilmente dopo averla inventata: ogni uomo che vi nuoti, che lo faccia ogni giorno o non lo faccia da secoli, si trasforma in un altro animale.
Il tricheco Alfredo, la tartaruga Tino e tutti gli altri protagonisti della raccolta, coi rispettivi soprannomi, diventano tali – o meglio, diventano se stessi – perché passati a vivo nel cloro, sostanza che innesca metamorfosi mitologiche, le cui manifestazioni sono però di natura profondamente quotidiana. Quando la lumaca Beatrice o l’airone Bruno traspongono le proprie movenze acquatiche al di fuori della vasca non accade nulla di sovrannaturale, eppure i loro gesti li tirano fuori da impasse altrimenti irrisolvibili.
Dal punto di vista narratologico, il correlativo animale assegnato a ciascuno dei protagonisti della raccolta funge da gancio per il lettore, che ne vede disvelate le fattezze con un sapiente dosaggio, ora nell’immediatezza del titolo («La gatta regina», «La ricchezza del gambero») o nelle battute iniziali («Sia chiaro, era vero che quell’uomo somigliava a un topo: ma soprattutto lo era»), ora in una piega del racconto, apparentemente discosto dal suo nucleo, eppure in una posizione che lo illumina di senso:
[…] in genere si presentava ai ragazzi con la storiella delle api, Sono l’esempio di società perfetta, alle larve dei maschi non viene dato da mangiare così il fuco raggiunge a malapena il tre per cento della popolazione, e comunque viene ucciso subito dopo la riproduzione, unico scopo della sua marginale esistenza, è la società perfetta, secondo me.
Improntato alla sintesi e alla sobrietà, lo stile di Capponi scorre lieve nel solco di queste vite, imitandone il corso con una paratassi a velocità variabile, a seconda che si debba narrare una vita («Osservava crescere ora il sole ora la figlia, e passava la prima ora del mattino così, spesso in silenzio, ad ascoltare il fiume scorrere») o un istante («si lasciò portare dal flusso senza effettuare deviazioni sospette, cercò di guardare davanti a sé, di pensare a qualcosa, di non guardarlo, gli venne in mente la sua ex, lo guardò»). Come sospinte a valle, la voce del narratore e quelle dei suoi personaggi s’incrociano e si parlano, fino a sfociare indistinguibili nei dialoghi, introdotti invariabilmente senza l’uso delle virgolette. Ne emergono, in un tenace fluire, i ritratti di persone reali o possibili, che, guardate dalla stessa goccia cui appartengono, diventano i protagonisti casuali di una favola sui doni dell’acqua.
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