Siamo responsabili di tutte le nostre parole come dei nostri silenzi. La nostra esistenza, in fondo, dipende solo da questo.
Ci sono forse dei limiti a quanto si può dire ma alcuni esseri umani, pochissimi grandi maestri, sono riusciti a travalicare quelli che prima sembravano dei confini invalicabili; trovando il modo, il linguaggio giusto per dire quanto non si può dire. Esprimere l’inesprimibile.
Ascoltiamo le parole dei maestri per imparare come loro hanno imparato, non per conoscere la verità ma per capire come noi stessi possiamo raggiungere la Verità. Cerchiamo di apprendere il come non il cosa. Il percorso è esso stesso la risposta. L’essere è sempre in divenire.
Nel testo che segue vi proponiamo una riflessione attenta e ricolma di esperienza, un tracciato che non manca di deviazioni selvagge. Attraverso
le voci e i canti dei grandi maestri, incontriamo dei corpi, un diario dei corpi in forma teorica. . E se ci lasciassimo toccare e bucare da queste mani fatte di linguaggio potremmo forse scorgere la soglia – o quantomeno pensare la soglia – oltre la quale guardare, dall’interno, noi stessi.
Durante la lettura consigliamo l’ascolto di questo brano musicale (gentilmente concesso da Fabio Antonelli che ringraziamo).
La visione dall’interno
L’arte come sintomo, i vettori di divenire, la sindrome della soglia e altre considerazioni di un allievo di Z.
I.
Ero uno studentello pieno di illusioni, affogavo nel vago – ero un cretino, mi viene da dire oggi, se non fosse che forse il tempo è trascorso invano – quando mi sono imbattuto nei seminari di Z. Quell’uomo aveva il dono di far apparire caldo ciò che ogni vulgata ha chiamato freddo.
«Le spietate lamiere» diceva sibilando come un ossesso indicando al contempo, come il doppio o il prolungamento necessario di quell’immagine, una ferita bollente, una colata lavica. Quell’uomo mi ha insegnato a tenere insieme gli opposti. «Il metodo è freddo perché è caldo, verstehst?»
Tradirei il senso delle sue parole se cercassi, come alcuni hanno fatto, di isolare un messaggio preciso. C’era – c’è ancora, nonostante tutto, anche nelle registrazioni, anche nel qui e ora strozzato e ripetuto dei video che circolano in rete – soprattutto un’idea di fluidità del processo: era tutto lì mentre accadeva. «Il processo muta» dice Z. in apertura del ciclo Il poeta e il neurobiologo. La coesistenza degli opposti non è solo il risultato del processo, ma anche la sua condizione di partenza; non è, soprattutto, una funzione del punto di vista dell’osservatore, e l’oggetto osservato non è propriamente un oggetto. «C’è un altro mescolamento!» gridò una volta, e non è bello fare ora il pappagallo del già detto. A un certo punto ho trovato il coraggio di pensare – c’è un prezzo che uno paga, è sempre così, per prendere la parola, e non è proprio vero, come ho sentito dire, che io l’ho pagato volentieri; di sicuro, questo è certo, l’ho pagato.
II.
Non so se uno sceglie i propri maestri. A volte la mela semplicemente ti cade sulla testa e tu devi fartene carico. Non dimenticherò mai l’estate torrida in cui Z., sette anni fa, ci costrinse a leggere L’arte come procedimento insieme a diversi trattati di neurobiologia – voglio dire allo stesso tempo, come se fossero un unico testo. Si divertì ad aggiungere note a margine al celebre saggio di Šklovskij, a ricreare le condizioni ideali di composizione e fruizione di un testo, condizioni che i filologi antichi chiamavano edizione critica e che oggi, per farla breve, non ci sono più; compilò, in sostanza, un nuovo testo, in cui le parole del padre del metodo formale si accompagnavano e si intrecciavano, come in contrappunto, come eco o come sabotaggio, a quelle di neuroscienziati e cognitivisti.
Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come «visione»
e non come «riconoscimento»; procedimento dell’arte è il procedimento
dello «straniamento» degli oggetti e il procedimento della forma oscura che
aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il
processo percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e dev’essere prolungato.
L’arte è una maniera di «sentire» il divenire dell’oggetto, mentre il «già
compiuto» non ha importanza nell’arte. (Šklovskij)
Il processo a più stadi [della visione] è una sequenza di reazioni chimiche
e fisiche che si realizzano non in serie ma in parallelo, e della cui
realizzazione non abbiamo alcuna forma di consapevolezza. Questo è un
aspetto assai delicato della visione. Ciò che noi percepiamo è infatti
regolato, in buona parte, da criteri innati, da regole che l’evoluzione
biologica ha inciso nei nostri sistemi nervosi. Da questo punto di vista le
cosiddette percezioni non sono registrazioni di quanto accade all’esterno
dei nostri corpi, ma costruzioni conformi ai criteri innati che abbiamo al
nostro interno. Come è stato ribadito in questi ultimi anni, gli esseri umani
ricreano nel loro cervello il mondo esterno: il che non vuol dire che le
procedure di ricreazione siano fissate una volta per sempre; le connessioni
tra le cellule nervose sono suscettibili di mutamenti grazie all’esperienza e
all’apprendimento, e anche il sistema visivo è plastico poiché la sua
architettura è in grado di ricalibrare i segnali in ingresso. (Bellone)
Mentre trascrivo e rileggo questi passaggi mi sorprende l’audacia – la nonchalance – di formule come «le cosiddette percezioni»: è tutto in gioco fin da subito, non c’è scampo: tutto il gioco è processo e il processo non fa che mutare. Ed è difficile prendere la parola quando il gioco punta precisamente a scardinare certe inerzie cristallizzate del linguaggio – in questo senso, ora ne sono convinto, prendere la parola è la forma più compiuta del mutismo.
III.
1) tutta la conoscenza sta nel cervello.
2) il cervello funziona rispettando regole innate: dal che segue come
nessuno di noi sia libero di ignorare o mettere in disparte queste regole (i.e.
stabilire che le operazioni cerebrali generatrici del colore non entrino in
gioco, o scegliere di non vedere i colori quando uno apre gli occhi).
3) certi programmi inseriti nel cervello sono immutabili (e.g. il programma
per «generare il colore»: esso non cambia col tempo o con l’esperienza).
4) il flusso dei segnali che viaggiano nelle varie zone della corteccia visiva
non arriva mai in un’area terminale al cui interno si produca la
comprensione cosciente della congerie di stimoli che irrita le retine. Non
esiste, quindi, alcuna sede finale dove sia alloggiata una mente capace di
assegnare significati alle percezioni. (Zeki)
La sottrazione dell’oggetto all’automatismo della percezione si compie
nell’arte in vari modi […] Il processo dello straniamento in Tolstoj consiste
nel fatto che non chiama l’oggetto col suo nome, ma lo descrive come se
lo vedesse per la prima volta, e l’avvenimento come se accadesse per la
prima volta; per cui adopera nella descrizione dell’oggetto non le
denominazioni abituali delle sue parti, bensì quelle delle parti
corrispondenti di altri oggetti. (Šklovskij)
L’analogia di cui fa uso lo scrittore russo (il corsivo è mio) è la chiave di volta del processo. D’altra parte tutto si riduce alla ricerca, o forse al rinvenimento, di simili punti d’accesso: non sono porte, sono svincoli, incroci, gallerie sotterranee. Di sicuro trasformano il passato, ne riscrivono le traiettorie. Sono vettori di divenire.
Nella nostra esperienza quotidiana il colore verde di una foglia rimane tale
e quale al variare della luce che incide sulla sua superficie. Eppure, al
variare della luce in arrivo, varia anche quella che la foglia riflette e giunge
sulle nostre retine: come è possibile, allora, che la foglia ci appaia sempre
del medesimo colore quando cambia la lunghezza d’onda della luce che
essa ci invia? Le superfici degli oggetti non portano etichette di colore di
cui i nostri neuroni si limitano a prendere atto in modo passivo. Al contrario,
i nostri cervelli operano attivamente con regole innate grazie alle quali i dati
in arrivo da quelle superfici vengono valutati con la costruzione di colori. La
costruzione si realizza in quanto i nostri cervelli sono in grado, per come
sono fatti, di confrontare continuamente la lunghezza d’onda della luce
riflessa dalla superficie di un oggetto e le lunghezze d’onda riflesse da
superfici di cose che sono poste accanto all’oggetto preso in
considerazione. Ne segue che il confronto è una proprietà del cervello, non
del mondo esterno, e che il colore è sempre una conseguenza e non è mai
una causa. (Bellone)
A questo punto, davanti a simili nodi, Z. era solito, in aula, compiere un gesto improvviso, strano e improvviso, per spezzare la catena dell’astrazione. Una volta lanciò un pesante volume (copertina rigida verde pistacchio) contro una finestra. Qualcuno si ferì, le lastre di vetro andarono in frantumi, qualcun altro pensò «le spietate lamiere».
«Vi sorprende» disse allora Z. «che lo sguardo delle neuroscienze interroghi precisamente – e con figure analoghe – quel procedimento il cui effetto, secondo Šklovskij, è lo scopo dell’arte? Pensate piuttosto questo: dove andremmo a finire se provassimo a mescolare le due prospettive?»
IV.
«In sostanza» lo ricordo benissimo, lo ricopiai alla lettera, l’ho riletto così tante volte, a voce alta, a mente, sussurrandolo a occhi chiusi «Šklovskij pretende solo, dall’arte, che ribalti la causalità del mondo, cioè del cervello». E rise. Disse «solo» facendo il verso alle «cosiddette percezioni» del neurobiologo – perché questa è la misura della parola della conoscenza, il suo umorismo terminale: non è troppo, né troppo poco, è così com’è.
«Ma è solo la parola della scienza del cervello a dirci cosa sia di preciso questa causalità» attenzione, pensai all’epoca, stai attento, qua ti casca la mela sulla testa – e così fu.
V.
La vertigine – la sorpresa e la paura – di un pensiero che si attorciglia su se stesso, che si compie spogliandosi di se stesso, rivelandosi vuoto e nudo: il processo muta. Ma la paura non è un’obiezione: la paura parla, come ogni altra cosa. Se è vero che, con Z., abbiamo provato a mescolare le due prospettive, spingendo il gioco del prendere la parola al suo limite estremo – un’istanza sola è appena fuori da questo gioco, appena oltre la soglia –, ci sono vertigini che ora ci fanno il solletico.
D’altra parte è facile ricondurre entrambi gli sguardi – quello dei formalisti sui procedimenti artistici, quello dei neuroscienziati sulle cosiddette percezioni – a un’unica, analoga attitudine analitica. Qui però non stiamo unendo ciò che era già unito. Qui stiamo dicendo che il metodo è freddo perché è caldo; che, spinti sulla soglia, noi sappiamo qual è il gioco, quali le regole; che non possiamo evitare, aprendo gli occhi, di ottemperare alle leggi dello sguardo (il neurobiologo), né di pretendere, chiudendo gli occhi, di distruggere quelle stesse leggi (il poeta). Fin qui Z., poi vengo io.
VI.
Se provassimo a mescolare le due prospettive per davvero, dovremmo spingere entrambe all’estremo. Voglio dire che finiremmo proprio dove siamo ora: nel cuore del processo mentre accade. E mi viene in mente solo adesso, anni dopo – forse è tardi, forse è sempre tardi – un’immagine precisa di Danilo Kiš: ogni idea, spinta all’estremo, è un pensiero della morte. Sappiamo dunque dove volevamo arrivare – ma lo sappiamo, lo scopriamo ora. Questo scarto inevitabile mi ossessiona – è un buco e io ci sono caduto dentro da piccolo: non vedo e non cerco altro, sono ammalato di divenire.
VII.
Non ho molto da aggiungere, la mia voce non vale più delle altre. Sapere quello che so, nella maggior parte dei casi, non ha alcun effetto sulla mia esistenza. A volte mi costringe a una sorta di omertà: quando mi è stato chiesto (giuro che mi è stato chiesto) «e a cosa serve prendere la parola come lo intendi tu?» io ho ovviamente risposto «a niente», ed è chiaro che io e il mio interlocutore, proprio allora, vicinissimi alla soglia, intendessimo due niente completamente diversi (è così: c’è anche un niente fecondo, il niente più fecondo: il limite del mutismo). Avrei anche potuto aggiungere che prendere la parola è sostare (per un attimo, per quanto è possibile: la durata della sosta deve essere prolungata) sulla soglia, ma queste sono le posizioni di Z. e dei suoi epigoni, non le mie. Io dico che la posizione da cui uno prende la parola è anche il prezzo che uno paga per prendere la parola.
VIII.
L’unica istanza oltre la soglia è la morte. Quell’estate torrida di sette anni fa fu anche l’ultima volta in cui vedemmo Z. Alcuni lo pensano morto, altri imboscato. Devo ammettere che la sua scomparsa improvvisa mi solleva. C’è qualcosa del fascino dei maestri quando ti accompagnano sulla soglia – devono poi scomparire, liberare il tuo sguardo, farti spazio. Il che forse significa che i maestri migliori sono quelli già defunti – ci si sbarazza più facilmente di loro, li si dimentica per strada come oggetti usurati e ormai inservibili. Lo stupore della scoperta non si riproduce a comando.
Voglio dire che le tesi di Z. non intendevano in nessun modo sminuire la portata delle affermazioni di Šklovskij attraverso il confronto con una disciplina e una parola più rigorose; non si trattava di un duello tra immaginazione e realtà. Si trattava invece di congiungere i due sguardi in un unico punto, un punto fuori campo – oltre la soglia. Il nostro – il nostro Z., maestro di opposti promiscui – non ha dunque mai chiamato la sua ossessione col nome adeguato.
Mescolando le due prospettive per sfregamento come ha fatto Z. accade questo: il sogno dell’arte, ovvero il suo scopo, si mostra come la più programmatica, impersonale e ridicola negazione delle regole della vita biologica. Fa fede questa interpolazione, operata da Z. durante lo stesso ciclo di seminari:
«Il ritmo artistico consiste nell’infrazione del ritmo prosaico» (Šklovskij)
«Il ritmo artistico consiste nell’infrazione del ritmo biologico» (Z.)
Questo pathos della soglia – della morte – circolava segreto tra le sue frasi, i suoi cambi di intonazione, le impennate improvvise – le spietate lamiere – e ogni tanto, come un sintomo, si rivelava per quello che era.
IX.
Con buona pace di Z. devo dire, di Šklovskij, quanto segue:
che non esiste una prosa più affilata e precisa della sua; che più è affilata, la sua prosa, più è calda (solo in questo Z., il defunto, il desaparecido, ha avuto ragione);
che ha enunciato una legge fondamentale dell’universo quando ha separato la fabula dall’intreccio (in «Il romanzo parodistico. Tristram Shandy di Sterne»), affermando, con una semplicità spietata, che l’intreccio rientra nella sfera dei procedimenti compositivi e non in quella del materiale narrativo (per dare seguito, un’ultima volta, all’analogia di Z:
fabula: intreccio = «cosiddette percezioni»: «costruzioni conformi ai criteri innati che l’evoluzione biologica ha disposto nei nostri sistemi nervosi»);
che mescolando per davvero le due prospettive, ovvero portandole all’estremo, la spazialità del procedimento dello straniamento – il sogno e lo scopo dell’arte – risulta rivoltata come un calzino: non sono gli oggetti fuori a insorgere[1] mostrandosi nuovi e diversi, come per la prima volta; la mutazione, lo strappo accade dentro – non è un’esplosione ma una frattura, una sospensione, uno scarto: uno spazio vuoto ripieno di niente. Se fossi un maestro accreditato come Z., direi che scopo dell’arte è discendere per le gallerie sotterranee e ammalarsi di divenire – ma non lo sono: quello che dico vale mentre lo dico, dalla posizione in cui lo dico, non oltre; questo è il prezzo e io l’ho pagato.
[1] [NdC.] «Bisogna estrarre l’oggetto dalla serie di associazioni consuete nella quale si trova. L’artista è sempre l’istigatore della rivolta degli oggetti. Gli oggetti insorgono, gettando via da sé i vecchi nomi e assumendo, con un nuovo nome, un nuovo aspetto», Šklovskij, La struttura della novella e del romanzo.
X.
Alcuni pensano che Z. si sia dato la morte, altri che sia scomparso. Non so a quale versione dare credito – in entrambi i casi si invererebbe la prospettiva del raggiungimento della soglia, del punto fuori campo. Ma come ho appena detto – è l’unica cosa che ho detto – questo punto non è da qualche parte là fuori, all’esterno: è un buco ed è qua dentro, all’interno.
Alfredo Zucchi, Leopoldstadt, Vienna, luglio 2020
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Per la gentile concessione delle immagini si ringraziano l’Archivio Mario Giacomelli, Angelica Intini, Salvatore Pastore, Monika Macdonald e David Ellingsen.
La ricerca e la scelta iconografica sono a cura di Ngoc Lan F. Tran.
Teriantropica è a cura e responsabilità di Andrea Cafarella.
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