Il testo che siamo a proporvi è una preghiera, una profezia.
L’epica della chimera resa in forma lirica, con la potenza dei versi dell’animale selvaggio.
Ed è quando sentiamo il richiamo del primitivo che può risvegliarsi dentro di noi qualcosa di sacro, il divino sgorga con inusitata violenza e ci scuote. Può accadere udendo l’ululato del lupo, perdendoci nello sguardo dell’orso bianco, oppure osservando il corpo inerme e smembrato di un alce lasciato marcire al margine del sentiero.
Le presenze animali sono ovunque, per chi sa ascoltare e guardare con gli stessi occhi della bestia. Esse ci parlano con immane eloquenza e ci sconvolgono, fino al punto da farci vedere quanto non è possibile vedere. Sono le voci dell’abisso, ci vengono a trovare in forma di demoni – ibridi teriantropici – mostri in grado di spezzare le nostre certezze, capaci anche di cambiare il modo che abbiamo di guardare, di ascoltare, di camminare.
Tra noi e loro sorge un legame mistico e sensuale, erotico come l’atto di cacciare, come la fame. Unione brutale e primeva con il divino archetipo della leonessa. Nelle parole di questo ruggito dall’afflato profetico possiamo sentire il vibrare della carne e vedere il coito supremo che avviene e si manifesta.
Il ruggito del primo dio
Prolegomeni alla ierostoria
«Il demiurgo è un ibrido»
Alfred Kubin, L’altra parte
La prima emergenza è chimera, un informe urlo di brame e spasmi d’ira che gli ordini sacri e i veggenti di ogni dove non possono nominare. La legge è il ruggito, la miscelanza, il liquame di elementi contorti nelle proprie fiamme, nelle acque nere dell’indefinito altrove, sempre altrove di un altrove, nulla, non più. Unico barlume, le squame di tempo dai riflessi arcobaleno che si sfaldano nell’oro disciolto dell’ardore. L’origine è il verso teriofonico del nulla, la vertigine del primo sangue sulla lingua. Il chiarore glauco lascia intravedere arti nella selva dell’innominabile. L’iridescente splende nelle interiora di un’alce albina sventrata dal fulmine. Il primo bagliore rifulge dal cielo della carcassa martoriata, le costellazioni ordinano agli organi di disporsi sulle vie del sangue. È canto, la consistenza della linfa seccata sull’epidermide, solchi coagulati.
La forma che non ha forma, il becco del serpente e la proboscide del caimano, l’intervallo di un sogno isola i contorni delle protuberanze. Lo sguardo non coglie l’insieme, ma ciò che eccede, ciò che si allontana. Nella foresta tutto è troppo vicino, tremendamente vicino. Non esiste prospettiva tra le felci, non c’è tempo. Un pigmeo uscì per la prima volta dal deserto. Denudato della corteccia, tremava perché conobbe il tocco della polvere e la fierezza del vento. Vide un piccolo cammello passare all’orizzonte, davanti ai suoi occhi. Tentò di afferrarlo come fosse una formica, ma le dita trapassavano la figura, il cammello spariva e riappariva. Per i suoi occhi era troppo, in preda al terrore dello spazio l’uomo ritornò nella foresta. Non metterà più piede fuori.
Dove sarà caduta la lancia? Forse ha trafitto un’icona che non era corpo, ma frenesia. Forse ha colpito l’impressione residua di un movimento. Le fronde sono tuniche di giada che parlano il dialetto dei raggi riflessi. La roccia incarna lo spirito dell’incisione, mentre il ramo ancora vibra. Vibrazione, suono, fremito, fruscio: l’airone batte le ali osservando le praterie ebbre di soffi, le ali degli alberi. Col nettare del tronco sono nutriti i non nati, le chiome ondeggiando aprono un varco nella cupola cerulea. L’estasi di Sileno ci accompagna primati, lo spazio è ciò che culla, ciò che oscilla.
Camminavamo su due gambe, ma quattro milioni di anni fa i nostri piedi mutarono. Il suolo fu un amante più geloso, perdemmo la presa prensile e i nostri arti non poterono più essere gemelli. La ierogamia limbica venne abiurata dall’evoluzione e da una foresta che si ritraeva desertificata, sconvolta dal clima. Da quel momento il nostro corpo fu metafisica, mani e piedi, il sopra e il sotto si scissero, le fronde degli alberi divennero sempre più un regno lontano. Quando i piedi si adattarono al suolo, ecco sollevarsi la prima specie gnostica, costretta a muoversi sulla terra mentre anela contemplando l’albero su cui in eoni trascorsi camminava. Lo spirito silvano era colui che poteva dondolarsi a testa in giù e navigare tra gli alberi in voli celesti. L’asse arboreo allora era la scala celeste per i progenitori, la dimora sciamanica innalzata oltre il cielo. Ci vollero un milione e mezzo di anni per riparare all’inevitabilità della caduta, quando le mani nella loro solitudine cominciarono a scheggiare strumenti litici. La tecnica nasce dal lutto della mano che piange la sizigia perduta. Le civiltà costruiranno epitaffi per commemorare l’antica simbiosi, nell’aspetto dei giardini pensili, le steppe delle nuvole.
Discesi e assuefatti alla terra africana, ci chiedemmo se la pietra fosse nata dalla lince o dall’antilope, così intingemmo le dita nella sabbia cremisi e cercammo il manto dei versanti. Dal suolo spuntò la sequoia, un accenno di corno. Presto sarà piuma. La trama del lago disegnò la sua parentela con la zebra quando la luna ne baciò le crespe. Nelle strisce dei sedimenti policromi emerse il volto di un babbuino. La sua coda, un cobra che vomitò il sole. L’albero era un dio immobile, ma il suo sostegno donato nel silenzio e nella gratuità del mondo celava la sua divinità. Suo fratello è il masso clivo a bere dal rivolo, scorcio dei trapassati. La radura invece ospitava colui che si muove nell’aperto. Ora il dio non era più onnipresente e radicato, ma fuggevole e inseguitore. Il sacro era palesato e splendeva d’oro fulvo.
Il mistero, colui che genera il tempo, è il grande predatore. Il mondo è fatto di spiriti e nuda animazione, ma succede che un’intensità sorga, un’eccedenza raggiante si inneschi nell’essere. Certo è un gioco cosmico, forse è il rimestarsi di una vita passata. Eppure chi sa cantare l’origine del leone? Il predatore è il compagno dell’albero e ogni leone cresce sulla schiena tronchi di acacia e pelo di mirto. Occasionalmente gli è permesso travalicare la soglia e risalire i rami al regno superno, ma il ciclo delle rinascite è alle radici dell’albero del mondo e traccia cerchi nell’ambra. Il predatore corre per le radure dell’eterno. Incarnazione della sommità, il predatore guarda da un altrove. Irraggiungibile, spietata coincidenza di libertà e necessità, apostata della legge naturale e suo seguace più devoto.
Ora conoscevamo la differenza tra dio e spirito. Lo spirito era molti spiriti intinti nel non-due, all’occorrenza viatico per una nuova epifania, ma anche se non-due e intriso di spirito divino, il dio era il sentore di una propria presenza, densità ieratica. Poteva succedere che l’intensità della presenza determinasse la conformazione dell’essere sacro in perenne oscillazione tra le vie del Tao. E sebbene ogni animale sia un varco per l’invisibile, nel momento in cui si lanciava all’inseguimento, il leone rimodellava l’essere e ne era il disfacimento e la risurrezione. In questo modo, nel suo scatto rivelava la sua natura di demiurgo e di forza onnipotente. Durgā, per il tuo nome tu sei l’invincibile e l’impenetrabile, colei che non conosce sconfitta, perché il mondo è un grande animale, e tu sei leonessa dalla maestà spietata. Tu possiedi ogni arma perché se il leone è onnipotente e la nostra carne tenera, allora la sua zanna può scalfire ogni cosa. Le armi con cui ci sbrani sono modello ispiratore per le nostre lance e le nostre spade, a te nuovamente le rendiamo in offerta. Il mondo è tuo corpo e tua energia, e dalle tue zanne imparammo a forgiare lame più precise. Chi da te è sbranato potrà sbranare. Chi da te è lacerato vedrà affiorare raggi di sole dalla sua ferita.
L’arte dell’invocazione è un erotico rendersi braccati, ma era concesso agli invocatori impossibilitati a sfuggire alla corrente leonina di lanciare pietre e alzare bastoni. Per un istante il dio poteva sentirsi riconosciuto da qualcosa che non era un occhio, uno sguardo cieco proveniente da un monolite arboreo. La pietra e il bastone ricambiavano la sua ferocia, e lo svestivano assorbendo il suo potere. Quelle che saranno la prima pietra del tempio e la verga del veggente sembravano per un attimo sortire un effetto su quel volto indomabile. Forse il bastone costringeva lo scorrere slanciato del predatore e traeva dal sangue il suo vigore umorale, in virtù del potere del legno di trarre dalla terra la linfa. Sollevando il bastone, il primate operava un gesto apotropaico, rivelando al leone una parte del regno arboreo su cui non aveva pieno dominio, e richiamando al contempo il potere lungo la discendenza scimmiesca. L’incanto non poteva durare però, perché il leone serve la stessa sorgente dell’albero.
Né pietra né bastone erano in grado di agire sulla sua voce, l’incantesimo più potente. Nell’oceano sonoro il dio ruggiva. Il canto è fragore, eco. La goccia che cade sulla foglia di fico ha il suono del crepitio della fiamma. L’oceano nacque dai getti di sangue di una lucertola cornuta. Il primo suono è il ruglio di un boato silente. Le voci animali miscelano lo spazio, in attesa della canzone del fulmine, o del rombo di un vulcano. Predatore è colui che ordina il mondo con la sua voce. Il suono leonino è connubio di gravità e splendore. In principio era il Verso, e il Verso era presso il dio animale. Il leone traccia sfere di suono che ordinano la musica celeste. Circoli di estasi, gli orizzonti del nirvana.
Benedetto sia il primo essere che sentì ruggire il leone . Gli fu data una testa ferina e lo chiamarono santo. Essere chimerici vuol dire essere policefali. Il tuo spirito è un idra che a ogni giro di spirale cresce nuove fauci. Ogni serpe un’epoca che inietta veleno nelle vene del vuoto. L’eternità è il grande animale che sventra gli uteri e ci trascina fuori dalla carcassa della storia. Il leone partorisce dalle zanne, trascina nuovi nati ancora grondanti icore. È la ferocia con cui ti risvegli alla contingenza e alla realtà del ciclo di vita e morte, alla ruota del tempo che tutto divora.
Trovammo una nuova foresta da abitare nel predatore. Egli camminava come l’albero, il suo corpo scolpito in una colonna d’avorio. Per milioni di anni cercammo di adattarci al suolo nella savana, ma quando abitammo le caverne dell’eurasia, il predatore divenne nostro fratello. Il leone delle caverne era un dio ctonio che ci invitava nel suo antro, l’invisibile divino si mostrava seducente, e il primate ne era l’abitante e l’ospite. Il leone delle caverne risvegliò in noi la danza degli dèi, ci fece chimera stregonesca. La sua androginia, condivisa dalla sua specie preannunciava l’iperboreo Zurvān, colui che genera la discriminazione. Con la spada in mano, l’eterno scinde per ricongiungere. Ogni etica si dirama dal predatore, e ogni predatore la eccede.
Perché il predatore è trascendenza alata, la cui sola fame fa girare la ruota. Nella sua bocca sono condotte le energie del mondo e le anime che cavalcano le correnti. Le fauci del leone sono l’ultima visione impressa nell’occhio primate. L’altro mondo è stridore di denti, carni squartate, sperma purpureo. Nella sua gola torniamo alle viscere ardenti dell’indistinto, gli spasmi celati nell’interiore.
Così il leone stringerà a sé la chiave nascosta tra i denti. Lui solo sente chi è pronto a trasmigrare, lui solo aprirà un varco nei tuoi muscoli e scaverà le membra verso la serratura avvolta nella pelle. Il sacrificato brama lo smembramento perché tu, mondo, hai gli occhi del leone. Nella gola del grande felino vige il sentore dell’unità delle cose. Come l’antilope ormai azzannata si arresta, in procinto di essere fagocitata dalla forza che tutto muove, il suo corpo si ferma, lasciandosi cadere nella quieta nudità delle cose. Allora su ogni filo d’erba, in ogni nuvola e sulla fronte del leone leggerà risplendente «tu sei quello». Chi da te è divorato sarà rivestito del tuo manto e tornerà al grembo. Nella tua criniera abiteranno le essenze profumate dei morti e le genti senza peso. Le mascelle stringeranno una falce di luna e la incideranno per farne un flauto. L’osso rosicchiato prepara l’orazione del defunto.
Totipotente è la civiltà perché la sua magia nasce nell’ibrida rimembranza del primate e del suo desiderio di perdurare. La sua forza nacque come reminiscenza dell’albero e come imitazione del predatore, magma e fulmine sottratti dalla sua zampa. Il dono segreto della leocefalia ispirò l’illuminazione che condusse all’arte immortale. La presenza leonina era stata attinta per mezzo dei divinatori, il sangue posto sulla bocca a suggellare il matrimonio con il potere più grande.
Innalzammo a te la pietra sbiancata, traendo il tempo dal volto di Sekhmet, criniera arsa. Come il predatore generava e divorava, così la civiltà avrebbe generato e divorato. La bilancia del mondo accoglieva il regno degli ierocefali, dèi sciamani.
Tremenda è la leonessa che urla alle dune. Il tuo manto assorbirà il sangue del venuto e si colorerà del rosso tuo colore. Consorte è la leonessa che insegue, perché inseguire è fame d’unione. Nella caccia è lo sposalizio di predatore e predato. L’ariete che genera vita avanza con le mani sporche di limo, e la sua opera sarà a Lei immolata. Il tuo soffio si espande dal centro del deserto, rende i suoi sposi cremisi e d’oro bianco. La tua lingua rigurgita sui feticci il sangue che sarà nuova pelle, rendendoci glabri. Vieni, giaciamo tra i corpi profumati e i fiumi essiccati. La nostra unione mescolerà seme e sangue e acqua di fonte tratta dal bastone inciso col nome delle tue vittime amanti. Crescono foreste albine.
Per la gentile concessione delle immagini si ringraziano Yorgos Yatromanolakis,
(dal libro “The splitting of the chrysalis & the slow unfolding of the wings”),
Jonathan Levitt (dal libro “Echo Mask”) e David Ellingsen.
La ricerca e la scelta iconografica sono a cura di Ngoc Lan F. Tran.
Teriantropica è a cura e responsabilità di Andrea Cafarella.
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