I fatti risalgono all’aprile del 2014. Mi sono appena trasferita a Città del Messico. Ho ventiquattro anni e ho lasciato le colline del Friuli, la casa dell’infanzia, i campi di frumento a perdita d’occhio sotto il cielo sempre nuvoloso con le Alpi in lontananza, per una megalopoli di ventuno milioni di abitanti circondata da vulcani e deserti, a duemila metri di altitudine: una città infinita al centro dell’America. Sono arrivata da pochi giorni quando i nuovi coinquilini mi invitano a trascorrere il ponte di Pasqua sull’Oceano Pacifico, in campeggio alla playa Michigan, una spiaggia sperduta al nord di Acapulco.
Partiamo di giovedì mattina all’alba su una Ford Ka tutta scassata. In macchina siamo in tre. C’è Nico, appena arrivato dalla Svezia, alto e sottile, con una faccia da volpe. E c’è Alejandro, l’unico messicano, una montagna d’uomo con degli occhi azzurri quasi trasparenti e il sorriso gentile mentre guida.
Il viaggio sembra infinito. La prima sosta la facciamo a Morelos, lo stato appena fuori dall’agglomerato urbano della capitale, in mezzo a montagne verdissime e sinuose. Ci fermiamo in un negozietto bianco lungo l’autostrada, in realtà è la casa di una signora che vende di tutto mentre prepara tortillas e tamales di mais su una piastra incandescente con dentro formaggio di capra e carne piccante. Mangiamo con gusto mentre albeggia e la luna è ancora alta in cielo, evanescente e leggera come un palloncino. Per la seconda tappa aspettiamo il primo pomeriggio, il sole è alto a picco su di noi e fermiamo la macchina a Chilpancingo, la capitale dello stato di Guerrero. Le vette intorno a noi ora sono scoscese, quasi verticali, spietate; la luce che a Morelos era soffice si è fatta cruda. Ci fermiamo al primo locale anonimo che troviamo entrando in città, in mezzo a sguardi sospettosi, gente che cammina di fretta, giornali con pagine di cronaca piene di sangue. Beviamo le nostre aguas de fruta nel caldo opprimente del bar e ce ne andiamo in fretta. Al parcheggio, Alejandro per sbaglio taglia la strada a un’altra auto. Scende un tizio che si accosta al finestrino e mormora delle cose che non comprendo, in un tono tra la minaccia e il sarcasmo, solo questo capisco. Alejandro non dice niente, si guarda i piedi sui pedali e io sento la tensione riempire l’aria, tratteniamo il fiato finché il tizio se ne va. Ripartiamo verso playa Michigan.
È quasi sera quando arriviamo a Tecpán de Galeana, un piccolo villaggio a ridosso della costa pacifica. Da lì proseguiamo verso l’oceano, percorrendo un tragitto sterrato che pian piano finisce e sfuma fino a diventare un’enorme piantagione di mango e avocado, la strada diventa un segno leggero inciso sulla terra rossastra. Fuori dal finestrino, tra gli arbusti, intravedo le camicie da lavoro sgualcite, gli occhi a mandorla sui volti imperlati di sudore, i riflessi del sole come lame sugli attrezzi da lavoro. Arriviamo infine al limitare della selva e parcheggiamo, esausti. Un attimo dopo essere scesi, un vortice nero di zanzare ci circonda e ci dà il tormento per un paio di minuti, prima di dileguarsi alla stessa velocità con cui è arrivato.
Accanto al parcheggio c’è una casupola di legno che sembra sospesa sul bordo dell’acqua. Non mi ricorda niente che io abbia mai visto, tranne i casoni del delta del Po a mezz’aria sulla laguna come se stessero per prendere il volo. Dalla porticina esce un pescatore con la pelle scurissima, un sorriso largo sul volto segnato di fatica, gli occhi lunghi e dolci. Il suo viso ha tratti pacifici, quasi asiatici. Forse abbiamo fatto tutto il giro dell’Oceano Pacifico e non me ne sono accorta, penso per un attimo. Ci accompagna alla sua lancha, una barchetta di legno con cui ci condurrà alla playa Michigan. A bordo c’è un bambino che dev’essere suo figlio, il sorriso e lo sguardo sono gli stessi. Attraversiamo un’acqua torbida, sento che è caldissima, quasi fumante anche senza toccarla. Mentre la lancha scivola sull’acqua oleosa, un panorama surreale si apre ai nostri occhi: piantagioni immense e boschi di palme alternati a pascoli di mucche e cavalli che brucano all’ombra, a testa bassa. Il pescatore rema con lentezza, apparentemente senza sforzo, e ci racconta che nella laguna l’evento dell’anno è la caccia all’iguana: gli abitanti del villaggio ne catturano una, la più grande, e la dividono tra tutta la comunità. Arriviamo dopo una ventina di minuti di navigazione. Piantiamo subito la nostra tenda nel breve spazio che si estende tra la selva di palme, alle nostre spalle, e l’oceano immenso, a perdita d’occhio, impensabile, davanti a noi. La sabbia non discende in modo graduale verso l’acqua, bensì sprofonda bruscamente nel Pacifico, in una specie di burrone.
Poche ore dopo, verso il tramonto, mi metto a passeggiare lungo la riva con Nico. A un certo punto scorgiamo una piccola folla di persone radunate accanto all’acqua. Ci avviciniamo e ne capiamo il motivo: la forte corrente ha trasportato un’enorme tartaruga sulla spiaggia. È morta. Ma è quasi intatta, all’inizio della putrefazione. Il suo guscio enorme manda dei piccoli lampi sotto il sole che scende. Nella folla vedo Romualdo, un ragazzo messicano che ho conosciuto pochi giorni prima a Città del Messico. Lo vedo mentre si fa largo tra le persone, va verso la tartaruga, la solleva con un enorme sforzo e la riaffida all’acqua. Il suo gesto è delicato e antico, mi rendo conto dallo sguardo attonito della gente intorno che sto assistendo a un rituale. Abbiamo il fiato sospeso mentre osserviamo il carapace dorato allontanarsi, la gloria di quell’animale scomparire lentamente dalla nostra vista.
Io e Nico torniamo alla tenda senza parlare. Non ci conosciamo ancora abbastanza per commentare quello che abbiamo visto, eppure so che abbiamo sentito le stesse innominabili cose. Raggiungiamo Alejandro che ci sorride da lontano con la sua aria sorniona, ha steso un pareo colorato sotto il cielo ormai blu scuro, tempestato di stelle. Guardo in alto: vedo l’Orsa Maggiore, a testa in giù rispetto a come l’ho sempre vista in Europa. Ecco quanto lontana da casa sono davvero, penso, si sono perfino rovesciate le costellazioni. Sento il cuore alleggerirsi. Andiamo a dormire molto presto, stravolti dal viaggio, e ci coglie un sonno profondo.
La mattina dopo è Venerdì Santo e mi sveglio per ultima, nella tenda non c’è più nessuno. Sento solo il suono dell’oceano, incessante, come uno scroscio che a tratti, ritmicamente, diventa un rombo. Apro gli occhi pervasa da una sensazione forte e precisa: quella di stare vivendo il primo giorno della mia vita. Esco dalla tenda e vedo subito i miei due amici a una decina di metri da me, seduti di fronte all’oceano su due sedie scassate di legno, gli occhi persi nella distesa infinita d’acqua. Mi avvio verso di loro scalza e felice come una bambina, dimentica di me a decine di migliaia di chilometri da casa. In pace. È quando sono a pochi passi da loro che comincia: non l’ho mai provato prima, quindi non capisco subito cosa sia. È un terremoto. Non so quanto dura, non sento paura, sono ipnotizzata dai movimenti intorno a me. Percepisco la terra vibrare sotto i piedi, come se ci fosse dell’acqua che sta bollendo; in lontananza le palme oscillano forte come delle spighe di grano al vento. Le persone stanno urlando ma sento un silenzio abissale, un non-suono che sovrasta le loro voci e le attutisce, le fa diventare tonde. Non finisce mai, penso d’un tratto, mentre mi accorgo che i miei piedi stanno continuando a camminare verso i miei amici. Arrivo infine sulla riva e nel momento in cui sto per cadere mi aggrappo alle mani di Alejandro, aggancio i suoi occhi spalancati ai miei. Poi, dopo un tempo che non so misurare, smette. Ci giriamo e notiamo che una crepa lunghissima, sottile, come disegnata si è aperta nello spazio che ho appena attraversato, tra l’oceano e le tende.
Dopo pochi istanti ci raggiunge correndo Romualdo, sul suo viso c’è il terrore. I suoi genitori sono ad Acapulco, ci spiega, vuole assicurarsi che stiano bene e andrà a Tecpán per mettersi in contatto con loro, visto che sulla spiaggia non c’è segnale. Mi volto verso l’oceano: se prima mi dava un senso di disorientamento, ora mi riempie di inquietudine. Il rumore ritmico dell’acqua è diventato un susseguirsi di boati, le onde sono diventate enormi e le vedo avanzare all’orizzonte, verso di noi. Dico a Romualdo che vengo con lui.
In macchina siamo di nuovo in tre: con noi c’è il suo amico René. Mi spiega di essere un avvocato impegnato in una causa complicata: quella contro la coltura del mais transgenico che insieme ad altri saccheggi devasta il Messico. Scambiamo poche parole e capisco che è un uomo dall’ironia elegante, umile e colto, con dei tratti indigeni e gli occhi da bambino. Ci mettiamo a chiacchierare per ingannare l’attesa e la tensione. Gli racconto che sono lì per fare un tirocinio alle Nazioni Unite, lui annuisce in silenzio. E poi mi dice: tieni gli occhi aperti in questi mesi, perché sotto l’apparenza di tante cose che vedrai c’è il Messico profondo. Gli rivolgo uno sguardo interrogativo. Una cosa è l’idea di Messico che vi siete inventati in Occidente, e in cui credono anche molti messicani, mi risponde. Un’altra cosa è il Messico profondo. Chi ci vive deve chiedere ben poco all’immaginazione, prosegue, più che altro deve fare degli sforzi per rendere credibile la propria vita. Mi sorride, come a dire: vedrai. Nel frattempo stiamo guidando attraverso le piantagioni deserte dopo il terremoto, a ritroso verso il villaggio. Riprendiamo la lancha, il pescatore si è fatto silenzioso, dice che sono abituati alle scosse ma questa è stata molto forte. Arriviamo a Tecpán in poco tempo, sulla piazza principale alcuni anziani si sono radunati intorno a un enorme crocifisso di legno, davanti a una chiesa gialla e rossa che sembra un teatro. Gli elementi barocchi la percorrono dal basso verso l’alto come una vertigine: le conchiglie nella parte inferiore della facciata si dilatano e si sfilacciano verso l’alto, si arricciano in figure di fiori che si fanno via via più stravaganti nelle forme, fino a confluire in quattro grandi statue di santi che sorvegliano la piazza con uno sguardo allucinato. L’aria è secca, immobile. Entriamo nella bottega di una signora, accanto alla chiesa, un negozietto dominato da un caos allegro in cui dei bambini giocano con due galletti che vanno e vengono dal cortile retrostante. Romualdo chiama i genitori da quello che mi sembra un telefono a gettoni. Stanno bene, fortunatamente, e dicono al figlio che l’epicentro del terremoto è stato proprio a Tecpán de Galeana, un sisma di 7.5 gradi della scala Richter che per miracolo non ha ucciso nessuno, ma è riuscito a spaventare molti messicani tanto abituati ai terremoti, alla faglia di Sant’Andrea che pian piano si stacca e si inabissa nell’oceano. Stiamo per uscire dalla bottega quando la terra trema di nuovo. «Padre!», grida la vecchia, e corre fuori verso la piazza del villaggio, con gli altri anziani, sotto gli occhi persi dei santi. Stavolta dura solo pochi secondi.
Appena finisce riprendiamo la macchina e torniamo all’isoletta, senza dirci una parola. Anche se l’epicentro è stato sulla terraferma, ora l’oceano si è infuriato e le onde non smettono di sollevarsi all’orizzonte. Ci sediamo in cerchio sulla sabbia per discutere il da farsi, mangiamo tortillas di mais e beviamo rum da dei bicchierini. Alla fine ci lasciamo tutti contagiare dal sorriso di Alejandro e decidiamo di restare.
Quella notte la terra continua a tremare e l’acqua arriva fino alla tenda.
Restiamo sull’isola fino alla domenica di Pasqua, ogni giorno più allegri e disperati: il modo migliore per non badare troppo alle continue repliche della grande scossa del venerdì santo è accompagnare ogni pasto con rum o mezcal. Ci avveleniamo un poco insieme, con amore, per non pensare che potremmo affondare da soli. Quando siamo più sobri giochiamo a carte, poi la sera accendiamo un falò sulla riva per scrutare i movimenti dell’acqua, infine rimaniamo al buio in silenzio, a guardare le bioluminescenze del plancton che danzano dentro l’oceano. La notte dormiamo un sonno antico, di oblio, che ci trascina lontani da lì. Ogni sera, l’ultima cosa a cui pensiamo prima di chiudere gli occhi è che la terra sta per aprirsi sotto di noi o che l’oceano sta per sommergerci. Ce lo diciamo ad alta voce e ridiamo forte. Non abbiamo paura o forse ci troviamo in un punto oltre la paura. Terribilmente rilevanti e insignificanti, così ci sentiamo.
Il lunedì mattina ripartiamo. Facciamo solo una breve sosta a metà strada, in un piccolo villaggio dello stato di Morelos. Nella piazza sonnolenta c’è soltanto un’edicola con i giornali esposti fuori. È così che apprendiamo della morte di Gabriel García Marquez, il giovedì precedente a Città del Messico.
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↔ In alto: foto Jowsick Imran / Unsplash.
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